Trasformazioni fra paure e realtà
Di Luca Albertoni, direttore Cc-Ti
Al centro dell’articolo le implicazioni e opportunità della trasformazione digitale oggigiorno in corso.
Della trasformazione digitale già si è detto molto e si continuerà a dire molto per parecchio tempo. Come è giusto che sia, visto che essa rimette in discussione molti modelli che sembravano acquisiti e crea dinamiche nuove. E si sa che lo sconosciuto spesso fa paura. Reazione umanamente comprensibile e che non deve essere stigmatizzata, ma è al contempo importante non trascurare taluni fatti, indispensabili per evitare di prendere decisioni, soprattutto di ordine politico, avventate perché dettate più dai timori che da una valutazione oggettiva.
La trasformazione non è per forza negativa, ma permette sviluppi anche impensabili. Nel nostro piccolo Ticino basti pensare alla riconversione di un settore come quello della moda.
Si parla ad esempio molto spesso della deindustrializzazione in Europa, che in realtà è più una trasformazione che una fine vera e propria dell’industria.Interessante a questo proposito è un libro recentemente pubblicato da Pierre Veltz, sociologo, ingegnere ed economista francese, specialista dell’organizzazione delle aziende e delle dinamiche territoriali. Il libro, intitolato “La société hyper-industrielle” (con il sottotitolo “Le nouveau capitalisme productif”) indica come in realtà non vi sia una regressione dell’industria, ma una profonda trasformazione, soprattutto della sua organizzazione. La rivoluzione in atto e con la quale dobbiamo confrontarci non concerne tanto l’automatizzazione di taluni compiti lavorativi, quanto piuttosto la connettività derivante dalle reti di comunicazione che agevola ulteriormente la dispersione della produzione in tutto il mondo, l’inclusione dell’utilizzatore nei cicli di produzione e la ricezione costante dei dati di utilizzo grazie alle varie piattaforme di scambio di dati. Per cui Veltz ritiene che l’industria stia diventando un servizio come gli altri, mentre molti servizi si organizzano secondo criteri industriali, rendendo sempre più difficile la distinzione fra i due rami economici. E’ un brevissimo e parziale riassunto, ma fornisce comunque spunti importanti. Cioé che la trasformazione non è per forza negativa, ma permette sviluppi anche impensabili.
Nel nostro piccolo Ticino basti pensare alla riconversione di un settore come quello della moda, passato dalla fabbricazione di capi d’abbigliamento alla gestione logistica molto avanzata dei flussi della distribuzione dei prodotti nel mondo e alla cura della proprietà intellettuale legata ai vari marchi. Non è del resto un caso che si parli sempre più spesso di “reshoring”, ossia di rimpatrio in Europa di attività industriali esportate anni fa verso quelli che erano considerati paesi a basso costo di produzione. Questo è dovuto anche alla trasformazione digitale che rende talune attività economiche meno costose e quindi rilancia la competitività europea a livelli di costi e permette ad esempio di gestire a distanza il servizio post-vendita ai clienti, garantendo una qualità europea (meglio se svizzera…) oltre i processi di fabbricazione. Il discorso è ovviamente complesso e merita ulteriori approfondimenti che, per ovvie ragioni di spazio, qui non sono possibili. Ma è comunque stimolante constatare che, fra le molte opinioni espresse sul tema della trasformazione digitale in senso lato, ve ne siano parecchie autorevoli che indicano come per il mondo occidentale non vi siano solo nubi scure all’orizzonte. Pierre Veltz sottolinea anche come l’Europa abbia delle carte importantissime da giocare: il principio dell’uguaglianza che tendenzialmente evita che vi siano troppi territori abbandonati, la ridistribuzione equilibrata della ricchezza e la forte interazione fra le città e le regioni europee. Punti di forza che in Svizzera conosciamo bene e che sarebbe profondamente sbagliato abbandonare a causa solo delle paure.