Tassare i robot?
I robot esistono da una quarantina d’anni, ma solo con l’inizio di questo secolo sono diventati una presenza sempre più diffusa nell’industria e nei servizi. Una realtà che, come succede con tutte le n nuove tecnologie, attrae e spaventa, sollevando timori, in particolare, per i suoi effetti sull’occupazione.
Paure amplificate a dismisura da un’insidiosa tecnofobia che lascia del tutto in ombra i vantaggi dell’automazione sia per le aziende che per i dipendenti, aprendo la strada a proposte che penalizzerebbero l’innovazione, invece d’incoraggiarla. Una visione allarmistica nella quale il ricorso intensivo alla robotica sostituirà progressivamente i lavoratori, creando un esercito di nuovi disoccupati. Di conseguenza diminuiranno anche le entrate fiscali per lo Stato. Dunque, non potendo più tassare questi lavoratori si dovrebbero tassare i robot, per assicurare un adeguato gettito fiscale in grado di finanziare i sistemi previdenziali e i piani d’intervento per aiutare e reinserire nel mondo del lavoro chi ha perso l’impiego.
Una soluzione sostenuta per primo da Bill Gates, il fondatore di Microsoft, rilanciata a Bruxelles dalla deputata socialista Mady Delvaux, ma bocciata dall’Europarlamento, riproposta in Francia dall’ex Ministro del PS Benoît Hamon e dettagliatamente argomentata in Svizzera nel saggio “Taxer les robots – Aider l’économie à s’adapter à l’usage de l’intelligence artificielle” di Xavier Oberson, Avvocato, Professore e fiscalista ginevrino (ospite alla prossima 104esima Assemblea Generale Ordinaria della Cc-Ti del 15 ottobre 2021).
Xavier Oberson suggerisce di tassare uno stipendio “teorico” per l’utilizzo di un robot che corrisponda al salario che l’azienda avrebbe pagato ad un dipendente. Un po’ sul modello del valore locativo che tassa un canone d’affitto teorico. Così, dal profilo delle entrate fiscali, non ci sarebbe differenza alcuna tra l’ assumere un lavoratore o impiegare un robot. Quello che a prima vista sembrerebbe “l’uovo di Colombo” della nuova fiscalità ai tempi della trasformazione digitale, è una soluzione controproducente.
Innanzitutto, bisogna sgomberare il campo dalla falsa credenza secondo cui i robot si “mangiano i posti di lavoro”. È vero piuttosto il contrario. Numerosi studi hanno ampliamente documentato che i Paesi dove più diffusi sono i robot, ad esempio Giappone, Corea e Germania, sono quelli che hanno un tasso di disoccupazione tendenzialmente più basso. Ciò che si registra invece come una costante in questi Paesi è un aumento della qualificazione necessaria per l’impiego. L’utilizzo massiccio della robotica ha, difatti, creato nuove mansioni e nuove figure professionali, anche nel nostro Paese che conta una media di 146 robot industriali ogni 10mila dipendenti, per un totale che l’anno scorso ha toccato le 422mila unità installate.
Queste macchine tecnologicamente avanzate, impiegate nelle imprese per ottimizzare e velocizzare i processi produttivi, contribuiscono, in definitiva, alla creazione di valore che viene già tassato in quanto reddito da capitale. E all’imposte dirette si aggiunge l’IVA, che viene prelevata sull’insieme del valore creato, compreso quello generato dalla robotica. Un’imposta supplementare significherebbe tassare direttamente la tecnologia, ostacolando e scoraggiando di fatto quell’innovazione che salvaguarda la competitività delle aziende. È come se in passato si fossero tassati i telai meccanici, le seghe elettriche, le ruspe o i trattori perché eliminavano posti di lavoro, senza considerare i benefici produttivi, sociali e occupazionali che ne sono poi derivati. Qualcuno ha giustamente ricordato che se negli anni ‘80 si fossero tassati i pc e i loro software, che hanno cancellato in tutto il mondo decine di milioni di impieghi, si sarebbe sicuramente frenato lo sviluppo dell’informatica e, probabilmente, anche la Microsoft di Bill Gates non sarebbe quella che è oggi.
Un equivoco sul digitale
L’idea di un’imposta specifica su queste macchine intelligenti s’inscrive nella storia di una frenesia impositiva che ha già visto proporre tasse sulle e-mail, su Internet o sulle microtransazioni finanziare, in poche parole sull’uso del digitale nella produzione di merci e servizi. Ma oggi con sistemi economici sempre più informatizzati, interconnessi e interdipendenti è arduo persino distinguere o tracciare dei confini netti tra l’economia digitale e quella tradizionale. Anzi, autorevoli studiosi sostengono che siamo già entrati nell’era post-digitale. Un’epoca in cui il “digitale” non è più solo un vantaggio competitivo, ma il requisito minimo per poter restare sul mercato, dove le fortune di un’azienda dipenderanno dalla capacità di utilizzare una molteplicità di tecnologie diversificate.
La robotica è un elemento centrale di questo “requisito minimo, ed è un settore in forte espansione. L’International Federation of Robotics ha calcolato un tasso di crescita esponenziale dei robot negli ultimi sei anni, con punte del più 30% di vendite nel 2017 a livello mondiale, rispetto all’anno precedente, per poi stabilizzarsi su un incremento annuo del 6% che dovrebbe mantenersi sino al 2030. Tentare di rallentare questo trend, usando il freno fiscale, significherebbe inceppare quel progresso tecnologico che permette di creare nuova ricchezza di cui beneficia tutta la società.
È ormai assodato che robotica e automazione accrescono la produttività delle imprese e la loro competitività internazionale. È solo grazie a questa maggiore creazione di valore che si possono ben retribuire i dipendenti, offrire nuovi posti di lavoro e contribuire alla prosperità generale. Solo garantendo, e non mortificando con nuove imposte, l’efficienza economica e la competitività delle aziende, non diminuiranno la produzione di ricchezza né le entrate fiscali per lo Stato.
Vantaggi, più che svantaggi
L’utilizzazione della robotica presenta numerosi vantaggi di cui beneficiano non solo le aziende ma anche i lavoratori. Innanzitutto, l’accresciuta competitività di un’economia rappresenta un notevole a tout soprattutto per quei Paesi, come la Svizzera, dove i costi del lavoro e degli altri oneri aziendali sono molto elevati, offrendo una risorsa risolutiva agli imprenditori per non essere costretti a delocalizzare all’estero, là dove i costi sono di gran lunga inferiori, produzione, know-how e impieghi. In secondo luogo, la presenza dei robot migliora la sicurezza e l’ergonomia sui posti di lavoro, aiutando o sostituendo del tutto i dipendenti nelle operazioni più faticose, ripetitive o pericolose. Sgravare la manodopera da questi compiti, significa liberare intelligenza produttiva, riorientando competenze ed esperienza professionale verso più avanzate e gratificanti funzioni. Non per nulla oggi si parla di “intelligenza collaborativa” tra uomo e macchine, non solo per aumentare le performances aziendali, ma come fine di un progresso tecnologico che non si sviluppa per sostituirsi all’uomo, quanto piuttosto per potenziare le sue capacità.
Un’evoluzione che con l’affermarsi del digitale e dell’intelligenza artificiale, vede nel propagarsi della “cobotica” (la robotica collaborativa) il suo sbocco naturale. Secondo un recente report di Morgan Stanley, la robotica collaborativa, che attualmente copre appena il 5% all’anno delle installazioni a livello globale, nel giro di un decennio arriverà al 17%, grazie al progressivo perfezionamento e alla riduzione dei prezzi una volta superato lo stadio di sviluppo iniziale. I cobot di nuova generazione poco ingombranti, progettati proprio per affiancare l’uomo nel lavoro, facili da installare e dal costo contenuto, sono ora accessibili anche alle piccole imprese.
Per l’economia si sta aprendo davvero la frontiera del post-digitale che richiederà condizioni quadro più avanzate per il mercato del lavoro, l’innovazione, la fiscalità, la formazione, la ricerca e le infrastrutture. Saranno queste condizioni quadro, e non le tasse, a far sì che lo sviluppo tecnologico non distrugga lavoro, e generi invece più ricchezza, nuovi impieghi e nuove professionalità.