Pronti a tornare a casa?
Il rientro delle aziende trasferite all’estero, tra aspirazioni e realtà
Aziende più automatizzate e robotizzate per ottimizzare linee produttive, costi e competitività, più prossimità con clienti finali, catene di approvvigionamento più corte ma più sicure e controllabili. Sono gli elementi distintivi del reshoring, ovvero la rilocalizzazione in patria di produzioni, o parte di esse, che erano state trasferite all’estero. Un fenomeno di cui si è cominciato a parlare nel 2008, a ridosso della grande crisi finanziaria, ma che oggi potrebbe assumere maggiore consistenza alla luce della tempesta perfetta che si è abbattuta sull’economia mondiale con il coronavirus.
Nuovi equilibri
Due anni di pandemia hanno messo a dura prova le global value chains, già sfibrate dai dazi e dalle barriere protezionistiche di una guerra commerciale a scena aperta che aveva bruscamente frenato gli scambi internazionali. La diffusione del virus, inceppando l’economia di tutti i Paesi avanzati, ha evidenziato l’importanza e le criticità delle supply chain mondiali. Le lunghe catene di approvvigionamento sono state messe sotto stress da una ripresa asimmetrica, tra Asia e Occidente, che ha ingolfato l’intero sistema di produzione e distribuzione delle merci, facendo impennare i costi dei trasporti.
A inasprire il quadro delle nuove tensioni geopolitiche, nel quale la Cina va dismettendo il ruolo di fabbrica mondiale a basso costo per proiettarsi in quello di super potenza a tutti gli effetti, sono arrivati la crisi delle materie prime e lo shock energetico. I prezzi di petrolio, gas e carbone hanno raggiunto livelli record, ridestando ovunque le spinte inflazionistiche. Difficoltà negli approvvigionamenti, linee produttive ferme o che lavorano a scartamento ridotto e numerosi Paesi occidentali, tra cui la Svizzera come ha avvertito il consigliere federale Guy Parmelin, che rischiano il blackout. Gli equilibri su cui si sono retti sinora la produzione e il commercio mondiali sono divenuti instabili.
Cambia la mappa della divisione internazionale del lavoro e per l’economia, già alle prese con la complessità della trasformazione digitale e gli ingenti costi di una transizione ecologica programmata avventatamente più sulla base delle emozioni che dei fatti, si aprono scenari inediti. Scenari che impongono ripensamenti anche nelle scelte d’investimento e di allocazione delle risorse.
Si ritorna casa?
È in questa prospettiva che il backshoring, il ritorno in patria delle attività produttive, e il nearshoring, il rientro in un Paese limitrofo, potrebbero diventare un’opzione concreta. Gli Stati Uniti fanno ad esempio capo al Messico, mentre i paesi del Vecchio Continente si rivolgono verso l’Est europeo o il Nordafrica, magari più cari dei paesi asiatici, ma appunto più vicini e quindi più “accessibili” per puntuali fasi di produzione. Tuttavia, malgrado le molte speranze riposte in evoluzioni che portino a un rimpatrio delle attività, gli studi internazionali non hanno ancora registrato numeri tali da rilevare una vera e propria tendenza verso il ritorno a casa delle imprese. Anche in Svizzera si sono avuti pochi casi di backshoring, più frequente invece quelli del rientro in Stati vicini, come Romania o Polonia, di alcune fasi produttive che erano state delocalizzate in Asia. Il caso più conosciuto è quello della Wander, che ha riportato in Svizzera la produzione dell’Ovomaltina da spalmare sul pane. Adidas ha fatto la stessa cosa in Germania per alcuni suoi modelli di scarpe, ma va detto che, in generale, in termini di posti di lavoro il “fenomeno” (se così si può chiamare) resta molto contenuto.
Se la tecnologia permette di produrre a costi che ridiventano interessanti, d’altra parte non vi è grande necessità di maggiorare la forza lavoro umana. Magari più qualificata, questo certamente, ma non dal punto di vista numerico.
Anche se va rimarcato l’effetto di creazione di posti di lavoro legato al fatto che attività nuove, seppur limitate, attirino altre aziende e si approvvigionano di attrezzature e prestazioni di servizi in loco.
Stimolare il rimpatrio?
Leggermente diversa è la situazione quando il reshoring è incoraggiato con sovvenzioni dichiarate, o più meno “nascoste”, da alcuni Stati che, con una strategia protezionistica, vorrebbero garantirsi l’autonomia e l’indipendenza per alcune produzioni. Ci ha provato negli USA, con poco successo, il presidente Trump, ci sta tentando la Francia di Macron per alcuni prodotti farmaceutici, mentre in Giappone il governo ha stanziato 2,2 miliardi di dollari per riportare in patria imprese che si erano trasferite in Cina.
Da un punto di vista elvetico, questo approccio però è considerato, poco “svizzero”. Come indicato qualche tempo fa dalla Seco, il Consiglio federale non è incline a una politica industriale aggressiva, ma si predilige la scelta di garantire condizioni generali che possano essere interessanti per tutte le aziende per “fare impresa”, per fare in modo che l’economia “se la cavi da sola”. Scelta che a corto termine può magari metterci in posizione di debolezza verso la concorrenza sempre più agguerrita di molti altri paesi, ma che probabilmente, sul lungo termine è più pagante e soprattutto va a beneficio di tutti i settori, senza distinzioni fra grandi e piccole aziende.
Elemento importante perché finora si è rilevato piuttosto un rimpatrio di piccole e medie imprese, emigrate soprattutto per ragioni di costi, mentre le grandi aziende sono più restìe a spostarsi. Avantutto per i tempi spesso molto lunghi del trasferimento di un’attività (spesso calcolato in termini di numerosi anni) e per la necessità di ammortizzare investimenti magari molto importanti in siti di produzione non abbandonabili in tempi brevi. Inoltre, le grandi aziende prediligono spesso paesi vicini a quelli che sono i mercati di destinazione dei loro prodotti.
Assicurarsi l’autosufficienza in diversi settori economici e non solo in quelli tradizionalmente ritenuti strategici, può indurre a politiche aggressive di “recupero” delle aziende. Non sono mancate negli ultimi anni misure protezionistiche che tendono anche al controllo preventivo su acquisizioni e fusioni da parte di investitori stranieri, nuovi dazi sui prodotti esteri e barriere doganali. Strategie che, inevitabilmente, irrigidiscono le dinamiche del libero mercato, generando inefficienze e costi aggiuntivi per la collettività e che riducono anche per tutte le altre imprese la possibilità di acquisire vantaggi competitivi attraverso una migliore allocazione dei fattori produttivi lungo le catene del valore globale. Ma l’esercizio è più complesso di quanti molti credono, perché il mondo e l’economia sono a tal punto interconnessi e interdipendenti che scegliere di ritornare non succede dall’oggi al domani. In realtà si apre solo un altro ciclo con la riconfigurazione delle supply chain globali e il consolidarsi delle supply network, con nuovi assetti nella divisione internazionale del lavoro e nel commercio mondiale che si rafforzerà in alcune aree regionali attraverso catene del valore che si svilupperanno anche a medio e corto raggio.
Le ragioni del reshoring
“Reshoring di Stato” a parte, sotto la pressione dell’incertezza e dell’instabilità odierne sono tante le ragioni che possono indurre un’impresa a rientrare in patria: difficoltà nell’approvvigionamento e nelle forniture, tempi di consegna troppo lunghi, vantaggio reputazionale sui mercati internazionali con un autentico “Made in…” , problemi di qualità, elevati costi logistici, ostacoli doganali, minore dispersione del know-how, più prossimità per reagire rapidamente alla domanda dei consumatori, maggiore sicurezza coi fornitori locali, produzioni che richiedono manodopera sempre più qualificata (non sempre reperibile nei Paesi dove costa meno), sensibilità ambientale, digitalizzazione che oggi permette di mantenere e rafforzare i contatti anche con i mercati più lontani, e, non da ultimo, la necessità di ridurre i rischi nel caso di nuove emergenze mondiali. Ma, come visto in precedenza, tra i fattori determinanti del reshoring ci sono soprattutto l’automazione e la robotica che aumentano la produttività e riducono il costo del lavoro, mentre laddove prima costava molto meno ora va rincarando.
Nel giro di quindici anni appena, il prezzo dei robot industriali è sceso da 70mila a 15mila dollari, dunque alla portata pure delle piccole aziende, l’automazione è ancora più sofisticata, precisa, e l’intelligenza artificiale riesce a sovrintendere i processi produttivi più complessi. Non per nulla è emersa anche la tesi di tassare i robot, discussa anche nel quadro della nostra Assemblea generale dello scorso 15 ottobre 2021 con il noto fiscalista ginevrino Xavier Oberson. Tema molto complesso dal punto di vista giuridico e pratico e che suscita numerose perplessità anche per le difficoltà che potrebbe creare nell’ambito dell’innovazione.
Ma sarebbe sbagliato ignorarlo, perché nel contesto dei profondi e rapidi cambiamenti portati dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, sarà quasi inevitabile anche affrontare gli adattamenti dei sistemi fiscali, togliendo ad esempio determinate imposte che stanno diventando obsolete o che non avranno più la stessa giustificazione. Come l’imposta sulla sostanza che la Svizzera mantiene, nonostante sia ormai poco diffusa a livello internazionale.
Chi spera nel tramonto o nella forte limitazione degli scambi internazionali non deve però farsi troppe illusioni. Il “reshoring” non significa un ripiegamento esclusivo nei confini domestici, rinunciando all’internazionalizzazione che è spesso un fattore decisivo per la crescita delle imprese e del sistema economico. Si resta competitivi se si resta nelle reti globali della produzione che permettono di acquisire le risorse migliori, le tecnologie più avanzate, gli approvvigionamenti più convenienti e di raggiungere più facilmente i mercati di riferimento. Dunque, se si vuole favorire, anche nel nostro Paese, la rilocalizzazione aziendale, senza scadere in deleterie pratiche protezionistiche, serve “rinverdire” l’approccio elvetico summenzionato, cioè la cura delle spesso menzionate condizioni quadro. Sembrano banalità, ma una fiscalità leggera, infrastrutture e formazione al passo con i tempi, regole e burocrazia meno vessatorie per la libertà economica sono elementi-chiave per potersi giocare anche la sfida di un rimpatrio di talune attività. Così come l’accoglienza di idee e persone in una buona collaborazione fra pubblico e privato e un dialogo più costruttivo tra le parti sociali sono fondamentali per ogni insediamento. Questa è la base non solo per cercare di richiamare in Svizzera talune attività, ma anche per evitare che ne partano delle altre.