Prodotti svizzeri e investimenti stranieri: quale equilibrio?
Quando si parla di “Swissness”o “Swiss Made” (sulle differenze tecniche fra queste espressioni non ci dilunghiamo in questa sede) inevitabilmente si pensa soprattutto ai prodotti elvetici conosciuti in tutto il mondo e che sono garanti di qualità.
Non solo per il prodotto stesso, ma anche e soprattutto per quanto vi è alla base, in termini di capacità imprenditoriale, serietà, qualità, puntualità, sensibilità sociale, ecc… È il caso di alcuni marchi storici, come Ricola, Läderach e Victorinox, saldamente in mano svizzera, ma vale anche per prodotti meno noti al pubblico, ma fortemente legati al nostro sistema elvetico, come componenti industriali che vengono inseriti in prodotti finali. Ad esempio i motori che hanno permesso le missioni americane alla volta di Marte, grazie a sofisticati meccanismi che hanno elementi fondamentali prodotti proprio in Ticino.
Poi vi è tutta una serie di marchi storici elvetici che, forse molti lo ignorano, sono passati in mani estere, senza però perdere le peculiarità elvetiche, perché le imprese internazionali si guardano bene dal recidere il legame con il nostro paese, identificazione ed espressione di qualità. La mitica Ovomaltina è in mani britanniche, l’altrettanto mitico Toblerone appartiene a un’azienda americana, mentre la Feldschlösschen è danese e la Valser è di proprietà della Coca-Cola. Senza dimenticare un pezzo di cultura svizzera come l’Aromat che è di proprietà olandese. È cambiato qualcosa per il godimento di questi prodotti in termini di qualità? Chiaramente no. Il fatto è che all’estero riconoscono la qualità dei nostri prodotti e del nostro modo di lavorare e ovviamente non hanno alcun interesse commerciale a ribaltare questa realtà.
Tenendo conto di questo contesto è pertanto giusto chiedersi se si giustificano controlli sugli investimenti esteri a tutela dell’identità svizzera?
Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le richieste politiche per l’introduzione di controlli a tappeto di questo genere. Da un’interessante analisi condotta da AvenirSuisse emerge chiaramente che le imprese elvetiche non devono essere ulteriormente protette da acquisizioni da parte di ditte estere. Il nodo di queste situazioni sembra infatti essere non tanto la minaccia della sicurezza nazionale, quanto piuttosto la limitazione della concorrenza, per la quale si ritiene, vi siano però già strumenti legali utilizzabili.
In un contesto generale caratterizzato dal protezionismo, anche gli investimenti diretti esteri sono visti con sempre maggiore scetticismo, per cui, in nome della sicurezza nazionale si vorrebbe prevedere che le aziende elvetiche, prima di poter decidere dei loro destini, debbano dipendere dalle decisioni di autorità preposte a questa vigilanza.
Inutile nascondersi, il timore principale è quello di finire vittime della furia acquisitiva della Cina. Finora però risulta che gli investimenti diretti nelle nostre aziende sono stati operati dall’Europa occidentale (60%), dagli Stati Uniti e dal Canada (24%), mentre dall’Asia è giunto il 12% degli investimenti, di cui solo il 3% dalla Cina. In altre cifre, nel nostro Paese gli investimenti diretti esteri ammontano attualmente a diversi miliardi di franchi, pari a circa 450’000 posti di lavoro. Una realtà non da poco. E nello stesso contesto non va dimenticato il movimento inverso degli investimenti, cioè dalla Svizzera verso l’estero, perché la Svizzera esporta non soltanto beni industriali e servizi, ma anche importanti quantità di capitali, soprattutto sotto forma di investimenti diretti. Secondo la Banca Nazionale Svizzera, il valore statistico degli investimenti diretti, realizzati da operatori residenti in Svizzera in sedi estere di produzione, distribuzione e ricerca nel solo 2018 è ammontato a circa 61 miliardi di franchi, prevalentemente in Europa. Non si tratta soltanto di grandi gruppi: tra questi operatori vi sono anche diverse migliaia di piccole e medie imprese (PMI), che complessivamente occupano quasi 2 milioni di persone all’estero. Numeri che contribuiscono alla crescita delle nostre aziende e quindi di grande beneficio per il nostro territorio.
Introdurre ulteriori controlli sugli investimenti esteri è di un’efficacia dubbia, in termini di complessità e tempistica di intervento. Ad esempio fra il 2016 e il 2017 in Svizzera avrebbero dovuto essere controllate circa 180 acquisizioni estere, con un evidente freno alla dinamica dell’economia.
Ribadiamo che sono già previsti solidi elementi di salvaguardia, visto che lo Stato può in qualsiasi momento far valere un diritto di espropriazione per ragioni di sicurezza nazionale. Non dimentichiamo le leggi puntuali come la LAFE – Legge federale sull’acquisto di fondi da parte di persone all’estero (comunemente chiamata Lex Koller) che, per il suo carattere restrittivo, ha già pochi eguali sul piano internazionale.
Anche gli investimenti diretti esteri sono componenti essenziali per una concreta costruzione del nostro benessere. Molto spesso questi investimenti dall’estero irrobustiscono aziende svizzere innovative, essi contribuiscono in larga misura a permettere un incremento della produttività, dell’occupazione e, non da ultimo, permettono di consolidare il gettito fiscale. Considerato che il flusso di capitali, tecnologie e imprenditorialità al di là dei confini nazionali e un elemento imprescindibile del nostro ordinamento economico, bisognerebbe favorire e non reprimere, con la dovuta cautela che ci appartiene, l’apertura del nostro Paese verso gli investitori stranieri.
La Svizzera figura al quarto posto come piazza d’investimento dei Paesi dell’OCSE. I pericoli conseguenti allo spionaggio industriale e alla violazione della proprietà intellettuale non possono ovviamente essere ignorati o sottovalutati, ma non vanno risolti con un blocco degli investimenti. La nazionalità degli investitori è inoltre un fattore troppo “impreciso” di minaccia, per cui regole più severe di quelle già oggi esistenti, almeno per il momento, non si giustificano.