Il pragmatismo come alimentatore dell’energia
Il tema dell’approvvigionamento energetico è molto più ostico di quanto taluni vogliano far credere, perché molti fatti, per scarsa conoscenza o per calcolo politico, vengono pericolosamente ignorati. La complessità della questione è emersa ad esempio anche nella recente discussione sulla revisione della Legge sul CO2, che ha fatto emergere come sia difficile conciliare il discorso energetico e le legittime preoccupazioni per la protezione dell’ambiente.
Tre pilastri, dipendenza dall’estero e soluzioni sistemiche
Si dimentica troppo spesso che in ambito energetico, una politica seria deve tenere conto di tre pilastri: la garanzia dell’approvvigionamento, l’economicità e la sostenibilità ambientale. Sono questi elementi inscindibili, che non possono essere valutati separatamente perché non si può prescindere da un compromesso fra tali componenti.
È opportuno ricordare che dal punto di vista energetico la Svizzera non è indipendente e da circa 6-7 anni è costretta a importare energia elettrica prodotta da energia nucleare e da carbone dall’UE. Da qui la necessità di pensare a soluzioni sistemiche, che valutino tutto il pacchetto di risorse esistenti (eolico, idroelettrico, nucleare, ecc.). Un’apertura in questo senso è giunta da quello che sembra un nuovo orientamento dell’Ufficio federale dell’energia (UFE), volto a prolungare di dieci anni l’attività delle centrali nucleari svizzere, perché al momento non vi è altra scelta per evitare sicuri blackout che, in certe circostanze, già ora incombono minacciosi anche in Svizzera. Giusto puntare sulle alternative, ma le legittime aspirazioni verso le energie cosiddette pulite si scontrano spesso con la dura realtà dei fatti di un sistema sempre più affamato di energia. Non sta a noi sindacare se sia opportuno prolungare la vita delle attuali centrali nucleari o se occorra costruirne una nuova, questo sarà un compito per la politica. Per l’economia e per la popolazione è essenziale che la fornitura di energia sia garantita, a prezzi sostenibili e nell’ottica della protezione ambientale adeguata, indipendentemente da quale sia il vettore. Forse ci si è però resi conto che la decisione di abbandonare l’atomo entro il 2034 sull’onda emotiva del disastro di Fukushima del 2011 è stata frettolosa. Senza l’energia prodotta dalla quattro centrali ancora in funzione, il nostro Paese rischierebbe una grave carenza di elettricità e un ulteriore incremento della dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento.
Mai come oggi la politica energetica, e di converso quella ambientale, va riconsiderata alla luce di un’analisi approfondita e oggettiva dei benefici reali e dei costi (economici e sociali). Senza perseguire obiettivi velleitari, pianificati aprioristicamente, che provocano effetti controproducenti: il rincaro sconsiderato dell’elettricità e del gas, che penalizza famiglie e aziende, l’aumento inatteso dei prezzi di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, gli scompensi nella produzione e nelle forniture di energia. E ne creeranno ancora di più gravi con la marcia a tappe forzate verso la decarbonizzazione decisa dall’UE con il Green Deal. Servono scelte ponderate e condivise, che tengano conto dell’uso complementare e coordinato di tutte le fonti energetiche, dalle rinnovabili all’atomo e all’idrogeno, dell’apporto del progresso tecnologico nel ridurre le emissioni nocive e dei crescenti sforzi del sistema produttivo per rispettare gli standard di eco-sostenibilità. Solo così si potrà raggiungere con gradualità, ma Mai come oggi realisticamente, il traguardo della sostituzione definitiva dei combustibili fossili.
Nessun tabù
Attualmente le centrali nucleari svizzere producono il 33% di elettricità (produzione invariata dal 2011), il 7% circa è generato da eolico e solare e il 60% del settore idroelettrico. Per varie ragioni, non ultime il clima e le fluttuazioni stagionali, la produzione elvetica di energia solare ed eolica va a rilento, la Svizzera si trova, infatti, ancora agli ultimi posti nella relativa classifica dell’Unione europea, nonostante la buona crescita del fotovoltaico nel 2020 dovuta in particolare all’installazione di impianti per il consumo privato. Si prevede che, al più tardi entro il 2035, senza il nucleare dovremo affrontare una grave carenza di elettricità. Per supplire alla definitiva dismissione dell’atomo, secondo alcuni calcoli pubblicati recentemente da Le Matin Dimanche, per quella data bisognerebbe coprire con pannelli solari una superficie pari a 19mila campi di calcio (oggi siamo a 1800), e servirebbero, inoltre, 6’000 turbine eoliche contro le attuali 42.
Né si potrà spingere più di quel tanto sull’idroelettrico viste le forti opposizioni all’innalzamento di dighe e bacini. Non bisogna certo mitizzare l’atomo, ma in un contesto del genere non lo si può neanche demonizzare o considerare tabù. Giusto spingere sulle alternative, ma i tempi di un’eventuale sostituzione completa del nucleare sono ben più lunghi di quanto si possa, magari in buona fede, pensare. Se già ora, in alcuni periodi dell’anno, la Svizzera è costretta ad acquistare elettricità dai Paesi vicini, ben si capisce quali siano i termini del problema energetico. Una volta dismesse le due centrali di Beznau e quelle di Gösgen e Leibstadt, sarebbe paradossale se la Confederazione fosse costretta a comprare all’estero ancora più energia, prodotta, magari, da impianti nucleari o col carbone.
Perché, nel contesto internazionale, gli attori maggiori si muovono su piste di questo tipo, visto che gli Stati Uniti puntano decisi sul nucleare e la Cina sperimenta fonti differenziate, dal nucleare al fotovoltaico (nel quale è leader), passando per l’eolico. Con quella che è tra l’altro la riserva più ampia di carbone in tutto il mondo. Non da ultimo, teniamo conto che i problemi di approvvigionamento si acuiranno comunque, a mano a mano che l’UE procederà con la decarbonizzazione delle sue economie nazionali, poiché sulla rete europea ci sarà meno elettricità a cui poter attingere. Per di più il fallimento dell’Accordo quadro con Bruxelles, che ha fatto saltare anche quello sull’energia, renderà ancora più complicata per noi l’importazione di quanto necessitiamo.
Quale economicità?
In precedenza, abbiamo accennato al criterio dell’economicità. Dopo la recente bocciatura della revisione della Legge sul CO2, il Consiglio federale ha aumentato da 96 a 120 franchi/tonnellata la tassa sull’anidride carbonica. Motivo? Le emissioni di CO2 in Svizzera sono diminuite solo del 31% rispetto al 1990 e non del 33%, l’obiettivo pianificato per il 2020. Per due punti in meno scattano 24 franchi di rincaro che, dal gennaio del prossimo anno, andranno a pesare sulle aziende e sui cittadini, già provati delle difficoltà economiche causate dalla pandemia.
Dopo il gas arriva anche la stangata dell’elettricità: dalla fine dello scorso anno ad oggi i prezzi sul mercato europeo all’ingrosso dell’energia elettrica, da cui si forniscono anche i produttori e distributori elvetici, sono aumentati del 50%. Un’impennata che è in parte imputabile al rialzo del petrolio e del carbone schizzato a 87 dollari alla tonnellata dai 55 di otto mesi fa, ma che è dovuta soprattutto al rincaro dei certificati di emissione CO2: l’anno scorso costavano 25 euro a tonnellata, oggi quasi 60. Sino al 2018 erano a meno di 10 euro e a medio termine si prevede un aumento sino a 80-100 euro a tonnellata. Un’escalation dei prezzi che si ripercuote ovviamente sui consumatori finali di energia. Per le imprese si stima un rincaro di circa il 50%, con un aggravio sui costi produttivi non indifferente che, unitamente agli aumenti di quasi tutte le materie prime, rischia di avere effetti molto pesanti sulla ripresa post pandemia. Ben si capisce quindi come la questione energetica poggi su molti fattori, spesso imprevedibili, e che richiedono oculatezza nelle decisioni. Una ricetta semplice fatta di puri dogmi non esiste.
Aziende e sostenibilità ambientale
Nella discussione sull’energia e l’impatto ambientale, non va nemmeno trascurato l’importante contributo fornito già oggi dalle aziende in termini di riduzione del CO2 e quindi di sostenibilità ambientale. Nell’ultimo decennio le aziende hanno progressivamente accresciuto il loro impegno. Anche in Ticino. Dal 2013, grazie alle misure del programma di gestione energetica dell’AEnEC, a cui hanno aderito 309 stabilimenti, le imprese del Cantone già alla fine del 2019 avevano registrato una riduzione di 7300 tonnellate delle emissioni di CO2, su una diminuzione complessiva di 12’180 tonnellate, mentre i loro consumi energetici sono scesi di 55’500 megawattora all’anno, su un totale di 103’505 megawattora di energia risparmiata. Un risultato lusinghiero, frutto dell’evoluzione tecnologica, ma anche della politica degli incentivi, molto più stimolante di tasse e divieti.
“Full electric”: bello, ma…
Il “Full electric” verde è un obiettivo comprensibile ma ambizioso, che richiede perciò, un approccio graduale, pragmatico e non spericolate fughe in avanti. Pensare, ad esempio, che sulle nostre strade e su quelle dell’Europa possano scomparire definitivamente nel giro di pochi anni le auto a benzina o a diesel non è realistico. Innanzitutto, i veicoli elettrici, sebbene generosamente sussidiati, per la maggior parte della popolazione restano troppo cari, e soprattutto non ci sarebbe sufficiente energia, soprattutto rinnovabile, per sostenere una mobilità completamente elettrificata. Per non f far crollare tutto il sistema si finirebbe, inevitabilmente, col ricaricare le batterie dei veicoli con l’elettricità prodotta col carbone o dal nucleare.
Un passaggio troppo veloce dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili non è facile né indolore, né per le aziende né per la popolazione, visto il rischio concreto di considerevoli rincari. Non si passa dalle fonti fossili a quelle rinnovabili azionando semplicemente una leva. La transizione energetica è un cambiamento epocale con costi economici e sociali molto elevati. Per questo i suoi tempi e le modalità di realizzazione non possono essere dettati dal velleitarismo ideologico delle frange estreme dell’ambientalismo, come quelle che in Svizzera chiedono di vietare sin da subito benzina e diesel, né rigidamente regolamentati da ambizioni pianificatorie, da piano quinquennale, che non hanno mai funzionato. Bisogna stare attenti, altresì, anche all’insidiosa “retorica della decabornizzazione tutta rose e fiori”.
Sole e vento sono rinnovabili all’infinito, non sono tali però i materiali e i minerali necessari (cobalto, rame, litio, nichel e terre rare), per ricavare da essi elettricità. Anzi, alcuni sono già molto più scarsi del petrolio. I generatori delle turbine eoliche, ad esempio, impiegano manganese, molibdeno, nichel, zinco e terre rare. Lo Xinjiang, la terra degli uiguri, assicura quasi la metà delle forniture mondiali di polisilicone indispensabile per i pannelli solari, che al 90% sono ancora prodotti dalla Cina in fabbriche che si alimentano bruciando carbone.
Dunque, l’energia delle fonti rinnovabili non è “verde ” a prescindere. È come esaltarsi perché le videoconferenze stimolate dalla pandemia tolgono parte del traffico, salvo poi accorgersi lo streaming necessita di server per gestire i dati, con importanti emissioni di CO2 e intenso utilizzo di risorse idriche.
Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), un’auto elettrica richiede una quantità di minerali di sei volte superiore a quella di un veicolo convenzionale. Avanzando con la mobilità “full electric” nel 2040 la domanda di litio potrebbe aumentare di 50 volte rispetto ad oggi, quella di grafite e cobalto di trenta volte. Sempre stando alle previsioni dell’Aie, bisognerà quadruplicare la produzione delle terre rare e dei minerali necessari per sostenere la transizione energetica. Con tutte le tensioni geopolitiche che ne deriveranno, come ci ha insegnato la storia del petrolio. Anche per l’economia la battaglia contro il riscaldamento climatico e il CO2 è fondamentale, ma per concretizzare senza creare pericolosi scompensi, non bisogna sottovalutare né i costi né le conseguenze politiche e sociali. Come per tutte le scelte oculate è questione di equilibrio e di riflessione puntuale.