Lacrime di coccodrillo
L’opinione di Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti
Il tema della responsabilità sociale delle aziende (molto caro alla Cc-Ti e che sarà oggetto di uno dei nostri prossimi eventi “Sostenibilità aziendale: un vantaggio competitivo”) è purtroppo spesso utilizzato a senso unico, cioè quale argomento principale di accusa alle aziende, colpevoli di devastare il territorio, costruire inutili capannoni, praticare dumping salariale diffuso e assumere solo frontalieri. Quindi in sostanza per denunciare una serie di comportamenti irresponsabili veri ma soprattutto presunti.
Abbastanza emblematico in questo senso è il caso della partenza dal Ticino della branch svizzera del gruppo della casa di moda Giorgio Armani. Azienda superficialmente inserita nel gruppo di quelle che non portano nulla al territorio, sicuramente perché di origine e proprietà italiana, quindi colpevole a prescindere. Non deve quindi sorprendere più di tanto l’improvviso attivismo di taluni politici che si sono subito mobilitati per denunciare l’ennesimo sfruttamento del sistema svizzero da parte di gente senza scrupoli che umilia il nostro paese e poi lo abbandona sbeffeggiandolo dopo aver abusato di favori inconfessabili. Peccato che con un po’ più di attenzione si sarebbe potuto facilmente scoprire che – al di là delle modalità di comunicazione, che, come capita spesso con gruppi internazionali, è molto distante dalla cacofonia mediatica a cui ormai siamo abituati – la realtà è ben diversa. In effetti, l’azienda in questione è presente sul nostro territorio da venti anni, impiega oltre un centinaio di persone a salari corretti e regolati da un contratto collettivo di lavoro, è un contribuente ordinario e importante per comune, cantone e Confederazione. E’ vero che la parte di lavoratori svizzeri o residenti è minoritaria, ma basta questo per mettere in croce un’azienda che comunque al territorio porta molto senza godere di particolari vantaggi? Non credo proprio. Facile quindi sparare nel mucchio indistintamente per raccogliere consensi, salvo poi fasciarsi la testa perché parte un importante contribuente di un settore comunque prestigioso per la nostra economia. Come al solito, manca un equilibrio di giudizio e, peggio ancora, una volontà di conoscere veramente le realtà economiche presenti sul territorio. Acciecati da termini generici come “alto valore aggiunto”, taluni non si sono ancora accorti che il tessuto economico ticinese è variegato e che le dinamiche economiche sono molto complesse, con realtà internazionali certo criticabili ma non truffaldine di principio. Un’azienda internazionale può decidere di spostare la propria sede per molti motivi, non per forza legati alla fine dello sfruttamento di presunti e inconfessabili vantaggi concessi dalla sprovveduta Svizzera. Nello specifico c’entra poco l’imminente riforma III dell’imposizione delle imprese, perché verosimilmente si tratta piuttosto di una questione di strategia generale del gruppo, magari influenzata da certe pressioni esercitate dal fisco italiano. Ma questo fa parte del gioco odierno e occorrerebbe tenerne conto quando si sparano giudizi affrettati. Può magari non piacere, ma la nostra competitività dipende anche da queste realtà e sarebbe sbagliato stigmatizzarle senza distinzioni. E’ opportuno a questo proposito ricordare che occorre essere attivi su più fronti, garantendo le migliori condizioni possibili alle aziende già sul territorio e a quelle che potrebbero insediarvisi, senza illudersi che alle nostre frontiere vi sia la coda di straordinarie aziende produttive ad altissimo valore aggiunto e che danno lavoro solo a svizzeri. Giusto prestare attenzione a chi si interessa al nostro territorio, ma attenzione ai criteri che si utilizzano per giudicare. Non sempre le perle sono quelle che nell’immaginario collettivo si pensa possano essere aziende fenomenali. Spesso le perle sono nascoste e si annidano anche in quei settori in cui ci si sporca le mani. Ma questo meriterebbe ulteriori e più dettagliati approfondimenti. Forse può essere utile ricordare la celebre frase utilizzata da Bill Clinton nella campagna presidenziale del 1992: “It’s the economy, stupid”. Appunto.