Agiamo Insieme 2019

La consueta manifestazione, che suggella la collaborazione tra Cc-Ti e Ufficio dell’assicurazione invalidità, si terrà il 19 febbraio 2019

Anche quest’anno con “Agiamo Insieme” riproponiamo un momento di riflessione, ormai divenuto una bella consuetudine, che valorizza il lato umano delle aziende attive in Ticino.

Questo evento annuale è diventata una festa dove si racconta il percorso di reinserimento nei posti di lavoro delle persone lese nella loro salute. Si celebrano, attraverso testimonianze e aneddoti (non senza emozioni), i successi delle aziende e dei propri collaboratori che, con rimarchevole impegno in ambito professionale, evidenziano quanto la collaborazione fra Stato ed economia sia forte, attiva e vincente.

La manifestazione si tiene il 19 febbraio 2019 dalle ore 16:30 presso l’Auditorium Banca Stato a Bellinzona.

Il programma prevede

Dalle ore 16:30 Accoglienza degli ospiti
Ore 17:00 con la moderazione di Julie Arlin, interverranno Paolo Beltraminelli, Consigliere di Stato, Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti e Sergio Montorfani, Direttore IAS

Aziende premiate

  • ABB Power Protection SA, Rappresentante: Michele Sargenti, Direttore
  • Chiesa Bus SA, Rappresentante: Flavio Chiesa, Direttore
  • Luca Castelli SA, Rappresentante: Alessandro Castelli, Responsabile Marketing

Ospite d’onore della serata: Massimo Turuani, Presidente Società Mastri-Panettieri-Pasticcieri-Confettieri (SMPPC) del Canton Ticino

Seguirà aperitivo

Per le iscrizioni, è possibile scaricare il flyer informativo, che contiene il tagliando d’iscrizione. Lo stesso è da ritornare entro lunedì 11 febbraio 2019, via posta elettronica all’indirizzo e-mail indicato o telefonicamente al numero +41 91 821 93 50. Vista la capienza limitata della sala, le iscrizioni verranno prese in considerazione in base all’ordine d’entrata. Si ringrazia per la comprensione.

 

“È inevitabile trovare l’equilibrio tra sostenibilità ed economia”

Se una azienda vuole avere successo a lungo termine dovrebbe prendere in considerazione le nuove generazioni, afferma Simone Pedrazzini, Consulente in Sostenibilità dell’azienda Quantis. Per i giovani la  sostenibilità è parte integrante della vita quotidiana. Eccovi un’intervista che affronta la tematica della responsabilità sociale delle imprese, argomento molto caro alla Cc-Ti, di cui continuiamo a parlare con spunti sempre differenti. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e la nostra posizione sulla RSI.

Signor Pedrazzini, quali circostanze hanno reso possibile la fondazione della ditta Quantis, la quale si occupa della comunicazione dei contenuti di sostenibilità?

Non siamo nati sotto l’ottica della comunicazione bensì sotto quella della quantificazione di metriche legate alla sostenibilità. Quantis è stata fondata quale start up del politecnico di Losanna, con un background scientifico, che oggi valorizziamo anche con il supporto alle aziende per la comunicazione.

Secondo Lei, quale tipo di sostenibilità è più importante per le aziende, quella ambientale o quella sociale?

In generale dipende dal settore. Noi ci muoviamo piuttosto nella sfera ambientale con lo scopo di calcolare e valutare in maniera oggettiva l’impatto delle attività aziendali. Penso che gli strumenti quantitativi a disposizione del campo della sostenibilità ambientale siano più sviluppati perché il legame con quello che viene svolto nel mondo fisico è più immediato.

Ma verosimilmente questo non è l’unico motivo per dare tanta importanza alla sostenibilità ambientale.

I dirigenti delle ditte concordano sul fatto seguente: se voglio avere una vera strategia aziendale mi conviene avere una fotografia completa della situazione ambientale ed anche sociale al fine di essere a conoscenza in modo completo del ciclo intero.

Da quali settori provengono le imprese che si rivolgono a voi?

Siamo attivi in tutti gli ambiti economici. Tradizionalmente il settore degli alimentari si ritrova più frequentemente degli altri perché il campo agroalimentare richiama molto l’attenzione pubblica. Questo perché ci tocca tutti da vicino ed ha quindi un’alta componente emotiva.

E al di fuori del campo agroalimentare?

Oggigiorno i settori sono molto variegati: la gamma si estende dal tessile alla telecomunicazione e alla logistica. Senza dimenticare l’ambito dei servizi, penso per esempio al settore finanziario o a quello dei grandi eventi sportivi.

 Sembra essere una tendenza molto in voga.

Sicuramente la sensibilità è aumentata, anche perché un possibile incidente in questo campo può avere grandi ripercussioni sulle aziende. Nel passato era prerogativa quasi esclusiva dei grandi gruppi multinazionali anticipare lo sviluppo in questo campo. Mentre oggigiorno anche le PMI si posizionano bene nella tematica della sostenibilità, questo anche perché molto spesso riforniscono le grandi aziende. La sostenibilità inizia ad essere vista come un vantaggio competitivo, se affrontata in maniera proattiva permette di migliorare anche il posizionamento economico.

Se la sostenibilità viene affrontata in maniera proattiva permette di migliorare anche il posizionamento economico.

Perché le aziende fanno fatica a comunicare efficacemente la loro attenzione verso il campo della sostenibilità?

Vedo due aspetti che sono decisivi a questo proposito. Per prima cosa c‘è il rischio del cosiddetto green washing cioè di una sostenibilità ambientale soltanto superficiale che si dimostra molto spesso quale problema fondamentale. In secondo luogo esistono delle realtà con base solida riguardo agli sforzi di sostenibilità e la sensibilizzazione, ma c`è il problema della complessità: come semplificare i messaggi senza snaturare il contenuto che rispecchia complessivamente una situazione di solito non semplice?

Ma da ogni situazione risulta una verità piuttosto semplice.

Se voglio comunicare i miei sforzi di sostenibilità in maniera ampiamente comprensibile debbo fare i tre passi della proposizione tematica, della prova e del posizionamento. Ma a parte queste tre “p” devo raccontare qualcosa alla gente che le dia la voglia di, in un certo modo, sognare. Le nuove generazioni vogliono associarsi ad una vita in cui la sostenibilità viene incentivata, è proprio così. I giovani tendono ad essere coinvolte in belle storie che però sono vere e oggettive.

Trova esista un buon compromesso tra la sostenibilità ambientale e quella economica?

È inevitabile trovare questo equilibrio. Mi capita di poter lavorare con persone che ne sono convinte sin dall’inizio. Ma a quelle che sono molto pragmatiche devo dimostrare le positive conseguenze economiche della sostenibilità.

Quali sarebbero?

Miglior posizionamento del brand, dialogo sincero e trasparente con il cliente finale in modo da fidelizzarlo e conquista di nuovi mercati sensibili alla tematica. E non da ultimo, citerei anche la capacità di attirare nuovi dipendenti, visto che i talenti delle nuove generazioni vogliono mettersi a disposizione di aziende che possano avere un’influenza positiva sulla società.

Lei certamente ha una visione della sostenibilità futura.

Per me la sostenibilità rimane tale qual è: bisogna cambiare il ritmo per evitare il peggio. Dobbiamo affrettarci perché gli obiettivi da raggiungere sono ambiziosi ed il tempo corre. Per ridurre l’aumento della temperatura globale per esempio bisogna reagire adesso.

Dare più senso al lavoro

Il tema della sostenibilità è centrale per la Cc-Ti, ne abbiamo parlato a più riprese, organizzando eventi, corsi e scrivendo numerosi approfondimenti. Vi proponiamo un’intervista a Heinz Zeller, Head of Sustainability and Logistics di Hugo Boss, che presenta il punto di vista di una grande azienda del settore della moda, dove la sostenibilità incide molto sulla reputazione del marchio. Inoltre la responsabilità ambientale e sociale è uno stimolo all’innovazione. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e rileggete anche la posizione della Cc-Ti in merito.

Signor Zeller, per quale motivo Hugo Boss ha creato il reparto “sustainability” di cui è il responsabile?

I primi passi sono stati fatti più di dieci anni fa. Allora il tema erano i rischi sociali nella supply chain come pure la possibile presenza di sostanze pericolose nei vestiti e per questo abbiamo iniziato a consultare degli esperti della sostenibilità. Poi nel 2012 era pronta la nostra road map della sostenibilità aziendale integrata concernente coerentemente ogni reparto, sia l’intera supply chain, lo sviluppo dei prodotti, sia le risorse umane ed il facility management.

Dove inizia esattamente la vostra sostenibilità?

Le persone desiderano che inizi all’origine, cioè dalla materia prima. Un compito esigente; ma lo stiamo realizzando. Inoltre abbiamo già iniziato a realizzare pienamente la sostenibilità per quanto attiene la produzione di cotone. Dopodiché anche i nostri imballaggi sono diventati più piccoli, con materiali certificati che sono sia decomponibili che riciclabili.

Cosa incide di più per Hugo Boss, la sostenibilità sociale o quelle ambientale?

In sostanza rispondo per tutto il settore della moda: prima viene la sostenibilità sociale, poi subito dopo il benessere degli animali, ancor prima dell’impatto ambientale. Ma importanti sono tutti e tre gli aspetti. Rinunciamo ad ogni prodotto di pelliccia, usiamo soltanto delle pelli ma che non siano di provenienza” esotica”. Riguardo le piume usiamo solamente materiali certificati per garantire una protezione massima degli animali. Abbiamo abbandonato anche la lana di angora.

Ovviamente il settore della moda è sotto stretta osservazione dagli animalisti ed ambientalisti.

Abbiamo discusso ampiamente sia con le categorie citate sia con tutti gli altri stakeholder e abbiamo loro dimostrato i nostri sforzi riguardo la sostenibilità. Dopo vari incontri e discussioni abbiamo potuto implementare delle misure condivise e l’intensa attenzione degli interessati menzionati è diminuita. Integrare la sostenibilità è un importante passo strategico.

Come stabilisce l’equilibrio della sostenibilità sociale e ambientale con le esigenze economiche?

Cerchiamo una collaborazione a lungo termine con diverse istituzioni o organizzazioni e ditte specializzate per sviluppare delle soluzioni innovative. Inoltre trasformiamo, per esempio, l’impatto ambientale in cifre finanziarie cioè ci chiediamo quanto grande o piccolo sia un tale impatto in termini di costi monetari. E così possiamo capire sia gli impatti e sia gli investimenti necessari per diminuire fenomeni negativi riguardo la sostenibilità.

Spesso si sente la seguente affermazione: chi trascura la sostenibilità avrà degli svantaggi economici pesanti.

Piuttosto direi che oggigiorno la sostenibilità significa un cambiamento necessario di pensiero. Nel settore della moda è necessario per i marchi: c’è il bisogno di un’alta qualità legata alla sostenibilità che da parte sua nel frattempo è ben radicata nelle teste della popolazione. Perciò ci vuole un’innovazione il cui stimolo è, appunto, la sostenibilità. Questa da più senso al lavoro, ai prodotti.

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future.

Come si definirebbe questo senso?

I migliori talenti cercano sempre un senso nel lavoro che fanno. Vogliono avere delle visioni incentivanti del loro lavoro di cui, per essere concreti, fa parte proprio la sostenibilità. Questa implica una vita migliore in ogni senso.

Lei è anche responsabile della logistica di Hugo Boss. In quale misura questa può migliorare la sostenibilità ambientale dell’intera impresa?

Le faccio un esempio che concerne il trasporto di materiale dalla Cina: usiamo la nave o l’aeroplano? Nel mezzo di queste due soluzioni si trova il treno che è più costoso della nave ma anche più veloce e molto meno costoso dell’aeroplano – ed il suo impatto ambientale è basso. Alla fine una soluzione ideale per l’ambiente, dopo un investimento iniziale, porta spesso anche a notevoli risparmi economici, cioè riguardo gli operating costs.

Le grandi aziende hanno senz’altro i fondi per realizzare conseguentemente la sostenibilità. Le PMI invece fanno spesso fatica a trovare mezzi e risorse.

Aziende che vengono fondate oggigiorno sovente già nascono, per così dire, con l’idea della sostenibilità indipendentemente dalla loro grandezza. Il settore della moda può contribuire alla sostenibilità, fra l’altro, anche tramite la digitalizzazione che riduce il tempo per realizzare delle collezioni, con meno impatti ambientali grazie ad un minor e più preciso uso dei materiali. Studi del mondo economico hanno evidenziato che un leader nella sostenibilità diventa più facilmente un leader dell’innovazione e sopravvive a lungo termine.

Qual è la sua visione della sostenibilità futura?

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future. E tutto ciò, fra l’altro, per la sopravvivenza delle aziende nel mondo economico.

“La sostenibilità deve essere parte del modello di business”

Intervista a Glauco Martinetti, Presidente Cc-Ti e CEO Rapelli SA

Occuparsi di sostenibilità porta vantaggi economici per le aziende. Per questo la Cc-Ti da tempo approfondisce il tema della responsabilità sociale e ambientale, a cui ha dedicato eventi, corsi e seminari. Tutto questo è sottolineato nell’intervista, che vi riproponiamo, al Presidente Cc-Ti e CEO della Rapelli SA Glauco Martinetti. Ritrovate anche la nostra posizione sulla RSI direttamente al seguente link.

Signor Martinetti, ci sono tre aspetti della sostenibilità per una azienda: quello ambientale, sociale e non da ultimo quello economico. Come farli sviluppare in sintonia?

Non è evidente. Ma le aziende che sono molto attente all’ambito sociale lo sono anche nel contesto ambientale e di solito hanno anche un successo economico. In tale modo si trova quasi automaticamente un equilibrio. Non è una regola, ma mi sembra che colui che è molto attento all’ambito sociale ha dei collabollatori motivati. E chi fa molta attenzione alla tematica ambientale di solito risparmia soldi, e questo porta anche ad una sostenibilità economica.

Quali sono i vantaggi della sostenibilità per le imprese?

Nell’ambito sociale la sostenibilità porta veramente ad una buona motivazione del collaboratore. Una conseguenza poi è la fidelizzazione dello stesso verso l’azienda. Il discorso ambientale invece evoca nei consumatori attenti, e ce ne sono sempre di più, una fidelizzazione al prodotto e quindi dei volumi di vendita buoni, costanti – e appunto sostenibili.

La conclusione sarebbe che oggigiorno la sostenibilità è decisiva per il successo economico.

E proprio così. Per i clienti che apprezzano molto il prodotto si va sempre di più da un semplice prodotto di consumo verso, se si può dire, una religione. Un consumatore inizia a diventare un fan e alla fine, come nel caso dello smartphone, sembra diventare una specie di evangelista del prodotto, dicendo agli altri che devono assolutamente acquistarlo.

Quindi chi trascura la sostenibilità fronteggerà degli svantaggi pesanti?

Guardando i modelli di business futuri credo che la sostenibilità vi debba far parte in modo considerevole. Non credo che oggigiorno un’azienda possa non prestare attenzione alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica perché altrimenti l’attività aziendale viene resa più difficile.

Le aziende devono trovare un equilibrio tra i contesti sociale, economico ed ambientale per puntare al successo.

A quale punto siamo in Ticino rispetto alla Svizzera tedesca per esempio?

Dal mio punto di vista personale gli svizzeri tedeschi hanno una sensibilità, soprattutto ambientale, un po’ più sviluppata, ma il Ticino sta recuperando.

Cosa possono fare concretamente le aziende per migliorare il loro approccio verso la sostenibilità?

Molto dipende dal settore. Ma ritengo che per prima cosa sia necessario scegliere se iniziare dal lato sociale o ambientale. Nella mia azienda la scelta è stata facile: iniziare dalla sostenibilità ambientale per poi passare alla sostenibilità sociale. E alla fine questo ha garantito una sostenibilità economica.

Impiego a tempo parziale, lavoro interinale, telelavoro, job-sharing, lavoro su chiamata, freelance: tutti questi sembrano di diventare i tipici modelli di lavoro per via della digitalizzazione. Ma sono anche sostenibili?

Non penso che questi modelli siano per forza non sostenibili. Sono modelli voluti da parecchie persone. Conosco, per esempio, diverse coppie di amici che non lavorano entrambi a tempo pieno perché sia la moglie che il marito lavorano a tempo parziale ed accumulano i loro redditi. Questo risponde ovviamente ad un bisogno e quindi credo che i menzionati modelli di lavoro possano avere anche una buona sostenibilità sociale.

Questi nuovi modelli di lavoro concerneranno verosimilmente le imprese piuttosto grandi.

Qui il punto centrale è l’organizzazione. Come riesco ad inserire delle persone che lavorano a percentuali e orari differenti nel sistema produttivo? Non incide tanto la grandezza dell’azienda, ma il grado di organizzazione del lavoro. Sia una PMI sia una grande aziende dovrebbero essere molto ben organizzate a questo riguardo.

Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.

E in quanto al dumping salariale e al lavoro nero? Aumenteranno tali problemi a causa della digitalizzazione o verranno meglio controllati grazie alla crescente coscienza di sostenibilità sociale?

A mio avviso la digitalizzazione porta anche ad una maggiore trasparenza. E questa non credo porti verso il dumping, anzi. Se c’è più trasparenza sul mercato del lavoro si è più lontani dalle logiche di dumping e del lavoro nero. Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.

A proposito della digitalizzazione e sostenibilità sociale: gli over 50 saranno anche in futuro svantaggiati nella ricerca di un lavoro?

Attualmente abbiamo un gap culturale che, a seconda della formazione, può iniziare all’età di cinquanta o sessant’anni. Ciò significa: una persona che ha seguito delle formazioni accademiche probabilmente oggi a cinquanta anni non rischia di essere esclusa dal mercato del lavoro proprio per via della digitalizzazione, anzi le sue competenze sono in linea con quanto richiesto dal mercato. Mentre una persona coetanea con una scolarizazzione molto bassa rischia invece di esserne fuori. Credo quindi che oltre all’età incida molto il grado di formazione delle persone.

Sembra quindi che la sostenibilità sociale dipenda anche molto dalla formazione continua.

Questo è un punto determinante. La formazione continua a livello aziendale, ma anche del singolo individuo, è un elemento centrale della sostenibilità sociale perché permette ad una persona di tenersi continuamente al passo con i tempi.

Cosa può fare la Cc-Ti concretamente per la sostenibilità in generale?

Il ruolo della Cc-Ti è innanzitutto quello di spiegare ai nostri associati l’importanza della tematica e il suo valore strategico. La Camera stessa offre dei corsi pratici in cui si parla sempre di più di sostenibilità e di best practices ed organizza anche degli eventi per incentivare la discussione sul tema. Si tratta quindi di mostrare in concreto che la sostenibilità è importante in tutti gli ambiti, come abbiamo fatto recentemente a Stabio.

Dal suo punto di vista qual è stato il messaggio principe di tale evento?

Abbiamo presentato un’ azienda di moda e una dell’alimentare e evidenziato il fatto che si può parlare di sostenibilità in mondi totalmente differenti. Il nostro compito è quello di spiegare l’importanza e gli aspetti positivi della sostenibilità per le aziende.

E rendere più sensibile anche il mondo della politica?

Credo che la politica abbia capito benissimo. Ma non possiamo scaricare alla politica un compito che è prettamente aziendale. La responsabilità sociale è un compito che dobbiamo portare avanti noi. E le aziende stanno davvero facendo il loro dovere, andando sempre di più in questa direzione. La sostenibilità è davvero un tema trattato dalle aziende.

Di sostenibilità aziendale e strategia d’impresa si è parlato nell’evento della Cc-Ti dello scorso maggio, rileggete i dettagli cliccando qui.

La responsabilità sociale oggi – dossier tematico

Un recente studio della Supsi ha evidenziato una crescente attenzione delle aziende ticinesi per la responsabilità sociale delle imprese. Una consapevolezza sempre più diffusa perché la Rsi è vista dagli imprenditori come un fattore competitivo e non come un costo. Un valore aggiunto che permette all’azienda, ha sottolineato la ricerca della Supsi, di acquisire indubbi vantaggi: migliorare la sua immagine pubblica, essere più in sintonia con la sensibilità dei clienti, accedere più facilmente al credito, attirare più talenti e profili qualificati, avere personale più motivato e maggiore creatività da parte dei collaboratori. Col risultato anche di una più efficiente gestione dei rischi e dei costi.

Di Rsi si è parlato ancora nel convegno organizzato lo scorso maggio dalla Camera di commercio, che ha offerto la significativa esperienza di due importanti imprese del cantone: la Hugo Boss che si è soffermata sull’impegno di un grande marchio della moda per la tutela dell’ambiente e dei lavoratori anche in Paesi dove questi valori sono poco rispettati, e la Rapelli che ha proposto l’interessante modello adottato dall’impresa alimentare per il risparmio energetico e la drastica riduzione dell’impatto ambientale.

Ma cos’è la Rsi?

Quando si parla di responsabilità sociale delle imprese non si intende solo l’impatto ambientale delle attività produttive, ma anche le condizioni di lavoro dei dipendenti, il rispetto dei diritti umani, la trasparenza e altre garanzie che valorizzano la tradizionale funzione sociale delle imprese in un determinato territorio. In sostanza si tratta di tutte quelle misure che un imprenditore adotta volontariamente, al di là delle prescrizioni della legge, per migliorare la reputazione sociale dell’impresa e la soddisfazione dei suoi collaboratori. Da noi non mancano di certo le imprese che spontaneamente hanno orientato la loro strategia sulla tutela ambientale, il risparmio energetico, la mobilità sostenibile, sulle misure per conciliare meglio lavoro e famiglia o su prestazioni sociali e formative che premiano l’impegno del personale. Elemento fondamentale di questa vocazione sociale è la libera scelta, volontaria, dell’imprenditore e non imposta dallo stato, è una consapevolezza che deve diffondersi dal basso e non essere prescritta dall’alto. Tantomeno si può elevare la Rsi a criterio distintivo di un’azienda la cui valutazione selettiva di virtuosità spetta allo stato, con tutti i rischi che ciò comporta. Altrimenti si scade nelle regolamentazioni invasive, nell’intervento intrusivo dello stato che può pregiudicare la libertà d’impresa e mettere in pericolo la capacità stessa di un’azienda di fare profitti, ossia le basi della sua sopravvivenza. E, purtroppo, è quello che sta accadendo in Ticino.

Elemento fondamentale di questa vocazione sociale è la libera scelta, volontaria, dell’imprenditore e non imposta dallo stato, è una consapevolezza che deve diffondersi dal basso e non essere prescritta dall’alto.

Salvaguardare le imprese

Nel nostro cantone la Rsi è ormai una definizione a largo spettro, per cui dalle aziende si pretende di tutto e di più. Si pretende che esse suppliscano alle mancanze o ai fallimenti della politica: non ci sono sufficienti asili nido, e a prezzi accessibili, per favorire l’impiego di madri che vorrebbero lavorare e, allora, dovrebbero essere le aziende a dotarsi di asili nido; le strade sono intasate dal traffico anche perché, contro ogni logica pianificatoria, sono rimaste quelle di trent’anni fa, ma si puniscono le imprese con una tassa sui posteggi che dovrebbe spingerle a ripensare la mobilità dei dipendenti; se in Ticino il costo della vita è troppo alto perché la struttura dei prezzi, come dappertutto in Svizzera, è irrigidita da accordi cartellari e da esosi costi obbligatori, si vorrebbe che gli imprenditori pagassero salari non inferiori ai 3700- 4000 franchi, a prescindere dalle capacità e dalla produttività del dipendente; ci sono troppi disoccupati e allora non si può assumere chi si vuole, chi serve davvero all’impresa, ma i senza lavoro indicati dagli uffici di collocamento; se in assistenza ci sono tante persone sole con figli o con una scarsa formazione, dovrebbero essere le aziende a farsene carico e non lo stato che dovrebbe, invece, offrire loro altre opportunità di formazione e percorsi diversi per il reinserimento nel mondo del lavoro; un’azienda per essere ritenuta innovativa non basta che migliori processi produttivi e prodotti, che investa per essere competitiva, non basta che abbia successo sul mercato, no, prima di tutto, deve rispettare alcuni criteri fissati dallo stato. Ci si lamenta per la disoccupazione, ma si rifiutano o si bloccano importanti insediamenti industriali, per centinaia di posti di lavoro, perché qui le fabbriche devono essere tutte high-tech per decreto.

Tutto ciò è la prosecuzione con altri mezzi di quella strisciante criminalizzazione delle imprese che nel cantone ha suscitato sentimenti di manifesta ostilità per le attività imprenditoriali. È il frutto velenoso della mancanza di una vera cultura liberale su cui si è innestato il devastante “primanostrimo”. Quel pensiero politico e sociale ormai dominante che si è autoalimentato per anni con insistenti campagne su una presunta emergenza disoccupazione. Un martellamento continuo, a furia di ribadirla, ripeterla, sottolinearla questa emergenza è diventata una verità autoreggente, che resiste persino alla prova inconfutabile dei fatti, che indicano invece una netta diminuzione della disoccupazione e una espansione della base occupazionale. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il Ticino si collochi oggi al quarto posto tra i cantoni per la crescita del Pil dal 2000 al 2015, che negli ultimi dieci anni i posti a tempo pieno siano aumentati del 15,7%, e non sono certo tutti per i frontalieri, che siano anche cresciuti quelli qualificati, passando da 1 impiego su 5 a 1 su 3, e che la disoccupazione, sia che la si misuri coi dati Seco che con quelli Ilo, è nettamente regredita.

Ci si lamenta per la disoccupazione, ma si rifiutano o si bloccano importanti insediamenti industriali, per centinaia di posti di lavoro, perché qui le fabbriche devono essere tutte high-tech per decreto.

La vera responsabilità sociale delle imprese

Il dilagante primanostrismo ha però prodotto una falsa rappresentazione della realtà che è diventata percezione collettiva, innescando nella politica un riflesso condizionato, per cui si sostiene qualsiasi proposta, persino le più balorde, per blindare il mercato del lavoro e proteggere la manodopera indigena.

In questo clima ci si è appropriati di un concetto quale la Rsi, per stravolgerlo e utilizzarlo come un piede di porco per scardinare quel che resta della libertà e economica e della libertà d’impresa. Dimenticando che le aziende sono la fonte principale dello sviluppo e dell’occupazione e che se esse affondano, affonda tutta la società.

Le imprese non sono “vacche da mungere” con tasse e imposte o da impastoiare con compiti e obblighi che nulla hanno a che fare con la loro funzione naturale, che è quella di creare profitto fornendo beni e servizi richiesti dal mercato. Perché solo se un’azienda crea profitto è in grado di investire per restare competitiva, di salvaguardare i posti di lavoro, di crescere assumendo nuovi dipendenti, di pagare i salari ai suoi collaboratori e le imposte allo Sato. Il profitto non è, dunque, solo il giusto premio per l’imprenditore che rischia il suo capitale, ma è ricchezza per tutti.

Fare profitti è questa la prima e vera responsabilità sociale delle imprese, che andrebbe tutelata e incoraggiata e non ostacolata con vincoli e imposizioni d’impronta statalista che snaturano la sua missione originaria. Perciò, la Rsi come autentica strategia di valorizzazione aziendale e sociale è un obiettivo che riguarda non solo gli imprenditori ma tutti, dipendenti, consumatori, classe politica e sindacati, e che può essere concretizzato attraverso il partenariato sociale e non imponendolo per legge.

Le imprese non sono “vacche da mungere” con tasse e imposte o da impastoiare con compiti e obblighi che nulla hanno a che fare con la loro funzione naturale, che è quella di creare profitto fornendo beni e servizi richiesti dal mercato.

Per approfondire il tema della sostenibilità, qui di seguito trovate diversi contenuti quali approfondimenti tematici.

Dossier responsabilità sociale 2017 completo
La responsabilità sociale non si impone per legge
La sostenibilità deve essere parte del modello di business
È inevitabile trovare l’equilibrio tra sostenibilità ed economia
Dare più senso al lavoro
La responsabilità sociale delle imprese non è una moda ma un comportamento
I diritti dell’uomo un compito dello stato
Responsabilità sociale d’impresa e strategia aziendale

Nuove forme di lavoro per un mondo in continua evoluzione – dossier tematico

Per una nuova cultura del lavoro

Da almeno quarant’anni economisti e sociologi analizzano e descrivono le trasformazioni del mondo del lavoro nel passaggio dal fordismo al post fordismo. Ossia il grande salto dalla produzione di massa incentrata sul vecchio modello industriale della fabbrica, che con i suoi ritmi scandiva anche i tempi della vita sociale, all’irrompere delle nuove tecnologie con la diversificazione produttiva, la flessibilità e il just in time. Un cambiamento radicale accelerato dagli effetti congiunti della globalizzazione e dalla diffusione planetaria delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che ha interconnesso non solo i mercati mondiali delle merci e dei capitali, ma anche quelli delle idee, delle competenze e delle professionalità. Spingendo la capacità d’innovazione, la competitività e la concorrenza internazionale verso livelli sempre più alti.

La svolta epocale

Su questa rivoluzione si è saldamente innestata la nuova economia digitale che sta ulteriormente trasformando la produzione di beni e servizi, la loro distribuzione e gli stili di vita, mentre i paesi avanzati sono oggi contrassegnati dal progressivo invecchiamento della popolazione, dall’aumento dell’occupazione femminile e dall’impiego crescente di manodopera immigrata. Inoltre, in questi paesi, ed è la prima volta che accade nella storia dell’umanità, si trovano a convivere ben quattro generazioni, un grande accumulo di risorse, esperienze e intelligenze dalle potenzialità enormi. Un solo esempio: la possibilità di dilazionare l’età di pensionamento impiegando i dipendenti più anziani nel tutoraggio dei giovani al primo impiego, senza appesantire le condizioni di lavoro dei primi, favorirebbe la trasmissione dell’esperienza professionale e darebbe anche un sostanzioso contributo alle casse del sistema pensionistico.

In questa movimentata topografia dei cambiamenti produttivi e sociali cambiano anche i modelli di lavoro. Termini come lavoro atipico, alternativo, interinale, immateriale, telelavoro, lavoro autonomo di terza generazione, job sharing e lavoro ibrido, cioè quello fatto di manualità, informatica e robotica, sono ormai parole correnti e non solo nel linguaggio degli specialisti. La cosiddetta gig economy, che non è semplicemente quella dei lavoretti, ma del lavoro on demand, cioé quando c’è richiesta, e la sharing economy, l’economia della condivisione, hanno ampliato e diversificato l’offerta di merci e servizi, allargando anche la base occupazionale, grazie all’incontro più veloce tra domanda e offerta di lavoro e al taglio dei costi di transazione.

Se Uber ha scosso dalle fondamenta il trasporto urbano, intaccando le solide rendite di posizioni dei tassisti e delle aziende pubbliche, decine di start up gestiscono con successo, e grande soddisfazione dei clienti, la galassia dei servizi a domicilio, dalle pulizie di casa alle riparazioni domestiche, dalla consegna di cibi pronti a quella della biancheria lavata e stirata in lavanderia. È tutto un mondo e un modo di vivere che si sta trasformando sotto i nostri occhi.

Termini come lavoro atipico, alternativo, interinale, immateriale, telelavoro, lavoro autonomo di terza generazione, job sharing e lavoro ibrido, cioè quello fatto di manualità, informatica e robotica, sono ormai parole correnti e non solo nel linguaggio degli specialisti.

Il Ticino che guarda indietro

Eppure in Ticino quando si parla di lavoro e di occupazione si ragiona, in larga parte, come un secolo fa. Qui la flessibilità è spacciata ancora come precarizzazione dell’occupazione e i nuovi modelli di lavoro sono solo sinonimi di nuove modalità di sfruttamento, quando in realtà essi corrispondono alle mutate esigenze produttive imposte da mercati dominati da una concorrenza sempre più agguerrita. Si è cominciato anni fa a contestare il lavoro su chiamata e l’outsourcing e si è arrivati a criticare ferocemente persino l’aumento degli impieghi a tempo parziale, quando da sempre si è invocato il part-time, anche da sinistra, come la grande opportunità per le donne di ritornare sul mercato del lavoro conciliando meglio gli impegni professionali con quelli famigliari.

Recentemente sono finiti nel mirino le agenzie di lavoro interinale, considerate vere e proprie centrali di sfruttamento che alimenterebbero il dumping salariale.   Poco importa se esse permettono a centinaia di giovani di accedere più rapidamente al mercato del lavoro, e acquisire le prime indispensabili esperienze, o se rappresentano una possibilità in più offerta ai disoccupati per rimettersi in pista e riconquistarsi, magari, un posto fisso. E importa ancora meno il fatto che le agenzie di impiego interinale forniscono un servizio essenziale nell’economia moderna, ossia soddisfare in maniera rapida e mirata un fabbisogno temporaneo di manodopera necessaria per dei picchi produttivi o per urgenze lavorative, per sostituire altri lavoratori, per mansioni a breve termine e tante altre necessità per le quali nessuno assumerebbe qualcuno a tempo indeterminato.

Nonostante queste agenzie siano rigorosamente regolate dalla legge e garantiscano un salario minimo anche nei settori dove non c’è un contratto collettivo, in Ticino c’è chi le vorrebbe mettere al bando. Per intanto ci si accontenta di penalizzarle pesantemente con la nuova legge sulle commesse pubbliche.

Si è cominciato anni fa a contestare il lavoro su chiamata e l’outsourcing e si è arrivati a criticare ferocemente persino l’aumento degli impieghi a tempo parziale, quando da sempre si è invocato il part-time, anche da sinistra, come la grande opportunità per le donne di ritornare sul mercato del lavoro conciliando meglio gli impegni professionali con quelli famigliari.

Nuovi modelli di lavoro

Un recente studio europeo (Eurofound) ha classificato nove grandi tipologie di nuovi modelli di lavoro ormai diffusi in tutto l’Occidente: employee sharing,  gli stessi lavoratori assunti da un un gruppo di diversi imprese; job sharing, lavoro ripartito tra più dipendenti; temporary management, manager impiegati per specifici progetti; casual work, lavoro intermittente; telelavoro; voucher-based work, prestazioni pagate con un voucher che copre retribuzione e contributi sociali, portfolio work,  autonomi che lavorano per diversi clienti; crowd employment, piattaforme online che mettono in contatto domanda e offerta di lavoro per progetti complessi; collaborative employment, lavoratori freelance e micro imprese che collaborano tra di loro.

Si tratta di modalità d’impiego nate spontaneamente dalle trasformazioni economiche e sociali odierne, che presentano indubbi vantaggi per l’accesso al mercato del lavoro, ma anche molti aspetti poco chiari dal profilo della tutela dei lavoratori, che legislatori, sindacati e imprese dovrebbero affrontare assieme per definire una normativa adeguata ai tempi. Ma la realtà è questa. Basta pensare che negli Usa la crescita netta dei posti di lavoro negli ultimi dieci anni, nove milioni in più, è dovuta esclusivamente a modalità alternative d’impiego che escono dagli schemi tradizionali.

Una realtà che se da un lato richiederà anche una nuova cultura aziendale e del lavoro, dall’altro impone l’impegno comune della politica e delle parti sociali per adeguare il vecchio diritto del lavoro ad un mondo che è del tutto diverso. Solo così e pensando soprattutto anche a modelli più efficienti, e meno dispersivi, di Welfare si potranno affrontare le sfide poste da queste grandi trasformazioni: la formazione continua, la previdenza professionale, la mobilità e la discontinuità lavorativa, l’accesso all’impiego per i più giovani.

Per approfondire il tema delle nuove forme di lavoro, qui di seguito trovate diversi contenuti quali approfondimenti tematici.

Il mondo del lavoro è sempre più dinamico e polivalente
Il valore della flessibilità
Il futuro si crea adesso
La gente deve cambiare atteggiamento
Lavoro: trasformazione sociale e digitale

Responsabilità sociale delle imprese: la Cc-Ti si valuta

Vi presentiamo gli indicatori di sostenibilità scelti per la nostra valutazione interna. Iniziare a misurare degli indicatori di sostenibilità per capire meglio la propria performance concretizza la volontà della Cc-Ti di affrontare la sostenibilità in maniera rigorosa.

Fedele al suo approccio rigoroso, e secondo quanto aveva già annunciato a più riprese durante il corso del 2016, la Cc-Ti si è sottoposta ad una valutazione interna sulla sostenibilità per il triennio 2013-2015, affidando questo compito ad un’azienda esperta del settore: la ditta Quantis (esperta in consulenza e valutazione della sostenibilità), con la quale, la Cc-Ti, ha anche sottoscritto un accordo di collaborazione. Questo ha permesso alla Cc-Ti, da un lato di operare sul tema sostenibilità in modo sinergico e trasversale su molti progetti (ad esempio la mobilità), e dall’altro di poter procedere ad una valutazione interna disciplinata sulla Responsabilità Sociale delle Imprese (RSI).

La RSI è stata un tema cardine durante tutto il 2016, sul quale ci siamo chinati con entusiasmo e su cui continueremo a puntare anche in futuro. Abbiamo declinato questo aspetto in diverse forme quali eventi, corsi di formazioni specifici, news ed approfondimenti. Prioritario per la Cc-Ti è stato far conoscere meglio il tema al pubblico e quanto le aziende già fanno in ambito RSI, fornendo alcuni strumenti per l’analisi della stessa. Vi ricordiamo che sul nostro sito (www.cc-ti.ch/responsabilita-sociale-delle-aziende-una-condotta-vincente) potete rileggere la nostra posizione in merito, ed accedere al dossier d’approfondimento con interessanti contributi in materia.

Analisi della sostenibilità Cc-Ti

Abbiamo voluto analizzare e rendere noto ai differenti pubblici con cui interagiamo l’impatto della nostra attività, che comprende 3 aspetti: il carattere economico-finanziario, l’impatto ambientale e quello sociale sul territorio.

Attraverso la preparazione di un set di indicatori sul tema della sostenibilità, selezionati da una lista prestabilita del GRI (www.globalreporting.org), ente non profit nato con il fine di creare un supporto utile al rendiconto della performance sostenibile, la Cc-Ti si è prefissata di analizzare l’impatto della propria attività. A livello metodologico si sono seguiti i principi delle linee guida GRI G4 (pur non rappresentando un rapporto GRI), considerando la nozione di materialità, per monitorare il periodo 2013 – 2015.

Gli indicatori scelti

EC 1
Valore economico direttamente generato e distribuito

EC 3
Copertura degli obblighi pensionistici

EC 4
Finanziamenti significativi ricevuti dalla Pubblica Amministrazione

EC 5
Rapporto tra lo stipendio standard dei neoassunti per sesso e lo stipendio minimo locale

EC 6
Proporzione del senior management assunto all’interno delle comunità locali

EC 9
Politiche, pratiche e percentuale di spesa concentrata su fornitori locali

EN 1
Materie prime utilizzate

EN 3
Consumo di energia all’interno dell’organizzazione

EN 6
Riduzione del consumo di energia

EN 30
Impatto del trasporto dei collaboratori e delle collaboratrici

LA 1
Numero totale e percentuale di nuovi assunti e turnover, per età, sesso e regione

LA 6
Infortuni sul lavoro e malattie, giorni di lavoro persi, assenteismo e numero totale di decessi per distribuzione territoriale e genere

LA 9
Formazione del personale

LA 11
Percentuale di dipendenti valutati sulle performance e sullo sviluppo della carriera, diviso per genere

LA 12
Composizione degli organi di governo e ripartizione del personale per categorie di dipendenti, per sesso, età, appartenenza a categorie protette e altri indicatori di diversità

I risultati
Potete leggere i risultati scaturiti dalla nostra analisi cliccando qui.

Un successo confermato: continuiamo a parlare di mobilità aziendale

Intervista a Gianni Moreni, Partner associato Rapp Trans AG, Zurigo

Il primo corso della Cc-Ti “Mobility Management PMI” è stato la concretizzazione dell’impegno che poniamo nell’essere sempre all’avanguardia con le nostre proposte e l’esito positivo dello stesso ha confermato che siamo sulla giusta strada. Abbiamo voluto sentire la voce di un docente ed esperto di mobilità, Gianni Moreni, che ha condotto il primo modulo del corso.

Mobilità aziendale: dal suo osservatorio, quanto è centrale la tematica oggi?

“È una tematica centrale, che viene portata avanti da diversi centri urbani in Svizzera. La mobilità è un tema complesso e purtroppo non vi sono soluzioni magiche, che permettono di risolvere facilmente i problemi a cui tutti noi dobbiamo giornalmente far fronte. Oggi sono soprattutto gli enti pubblici, a diversi livelli istituzionali, e le aziende attive nel settore dei trasporti ad occuparsi di mobilità e traffico. Ma anche le altre imprese sono confrontate con i diversi aspetti di questo problema, ed hanno quindi una visione ampia della tematica. Vi è l’aspetto della raggiungibilità dell’azienda per i collaboratori, quello della consegna e spedizione della merce, quello degli spostamenti per raggiungere i clienti o i propri impianti esterni, gli spostamenti di persone/merci tra diverse sedi della stessa ditta, ecc.. Ritengo quindi importante che anche le aziende, nel quadro delle loro risorse e possibilità, si impegnino in questo ambito, portando magari anche idee nuove che possono contribuire a risolvere o almeno a ridurre determinati problemi di traffico. Anche per la mobilità vale il principio «l’unione fa la forza»: penso quindi che in linea generale l’azione coordinata di più aziende di un determinato comprensorio possa ottenere risultati più importanti dell’azione di una singola impresa”.

Il corso della Cc-Ti «Mobility Management PMI» rispondeva alle esigenze specifiche delle imprese ticinesi nell’ambito della mobilità aziendale. Come valuta l’approccio della Cc-Ti ed i feedback ricevuti dai partecipanti?

“Penso che la Cc-Ti abbia toccato un tema sensibile, che interessa le aziende. L’approccio scelto mi sembra interessante e diversificato, ma qui saranno in primo luogo i partecipanti al corso a dover esprimere il loro parere. I feedback ricevuto dopo il modulo che ho condotto sono nella maggior parte dei casi positivi o molto positivi. Quindi sono soddisfatto, considerando anche che si trattava della prima edizione del corso. Singoli partecipanti hanno comunque segnalato alcuni punti critici che mi sembra giusto considerare in vista dell’allestimento di una seconda edizione del corso. Anche chi insegna deve essere disposto ad imparare!”

 Perché occorre continuare a parlare di mobilità aziendale e del management della mobilità?

“Le previsioni della Confederazione appena pubblicate prevedono un ulteriore aumento della mobilità di persone e merci da oggi al 2040. Le infrastrutture di trasporto disponibili hanno dei limiti di capacità e sono spesso sature alle ore di punta. I periodi di saturazione aumentano. L’ampliamento delle infrastrutture esistenti o la costruzione di nuove infrastrutture richiedono molte risorse e molto tempo (processi pianificatori, giuridici, ecc.). Per cui diventerà sempre più importante riuscire a gestire al meglio la mobilità con le infrastrutture esistenti. La gestione della mobilità in generale, e la mobilità aziendale in particolare sono temi che rimarranno attuali ancora per parecchio tempo”.

Per la Cc-Ti la mobilità è un tema prioritario. Durante il 2016 abbiamo trattato la questione e continueremo a farlo. Cliccando qui potrete rileggere la nostra posizione e l’ultimo articolo firmato dal nostro Direttore, Luca Albertoni, sul tema. Per quanto concerne la formazione sul tema, tenete d’occhio la nostra pagina web, seguiranno maggiori informazioni sui prossimi corsi.

La sostenibilità non deve essere un’imposizione

Intervista a modem sul tema della sostenibilità

In data 11.10.2016 è andata in onda una puntata di modem con il titolo “Diritti umani e ambientali per tutti” dove ha partecipato, per la Cc-Ti, Roberto Klaus.

Trovate il dibattito al seguente link http://www.rsi.ch/rete-uno/programmi/informazione/modem/Diritti-umani-e-ambientali-per-tutti-8037083.html

Ricordiamo che la Cc-Ti si è espressa più volte sul tema e che la nostra posizione difende una sostenibilità ambientale, sociale ed economica portata in maniera autonoma dalle aziende.

Roberto Klaus: “Anche nell’opinione pubblica l’attenzione ai temi ambientali, sociali ed economici è aumentata. La complessità delle questioni emerse è oggettivamente considerevole. Nel passato la Svizzera ha cercato di risolvere i problemi grazie ai valori storici che la contraddistinguono. Oggi si rischia una deriva legislativa, normativa e burocratica. Per ogni difficoltà si identica la colpevolezza nel mondo economico e si crede di risolvere le problematiche con nuove leggi di Stato che limitano la libertà economica.

Trasporti ed infrastrutture di domani: dossier tematico

“Dal 2020 si trasformeranno radicalmente le abitudini di trasporto. Credo che non siamo ancora del tutto consapevoli della misura in cui questi progetti epocali cambieranno la quotidianità.
L’intero Canton Ticino si ravvicinerà diventando «una grande città». Proprio per questo, a mio avviso, ci apprestiamo a entrare nella terza età dell’oro della mobilità ticinese. In futuro treno e auto non saranno più contrapposti.” Andreas Meyer, CEO FFS SA

Siamo tutti coscienti dei cambiamenti in atto a livello infrastrutturale ma non abbiamo ancora toccato con mano i nuovi, molteplici benefici. La terra sotto i nostri piedi si muove, un fermento positivo dove le nuove infrastrutture daranno un impulso notevole alla nostra regione. Non esisterà più il Ticino delle città ma diventeremo una “Città-Ticino”. Scoprite questo e tanto altro nel nuovo approfondimento della Cc-Ti sul tema mobilità ed infrastrutture, scaricando il pdf qui.