Anche lo Stato deve fare la sua parte

Il mercato europeo dell’automobile sta soffrendo. Le immatricolazioni di nuove automobili nel 2024 hanno registrato dei numeri negativi su praticamente tutti i mercati nazionali, Svizzera compresa.

Le motivazioni dietro a questa flessione sono sicuramente diverse. Da un lato la situazione geopolitica del continente con due guerre alle porte dell’Europa, la recessione economica in diversi settori e, non da ultimo, le imposizioni al settore dell’automobile da parte della Commissione Europea. Questi aspetti hanno minato la fiducia dei consumatori già sottoposti ad un marcato calo del loro potere d’acquisto. A questa difficile situazione congiunturale non sfugge nemmeno il mercato dell’automobile elettrica (BEV). Anzi, verrebbe da dire che quest’ultima, dopo la decisione della Commissione Europea di vietare la vendita di nuove automobili con motore a combustione a partire dal 2035, sia stata maggiormente penalizzata. Se da un lato, questa decisione, ha indicato ai fabbricanti di auto una via verso la mobilità elettrica certa, portandoli così ad abbandonare lo sviluppo ulteriore dei motori a combustione per concentrarsi unicamente sulla propulsione elettrica, sembra che essa abbia avuto l’effetto contrario nei consumatori.

È proprio a partire da inizio 2024 che le vendite di auto completamente elettriche hanno subito una brusca frenata mettendo a rischio la transizione verso una mobilità più rispettosa dell’ambiente. Cercando di analizzare il contesto da parte del consumatore questa situazione appare comprensibile. Da un lato tutti noi siamo sicuramente orientati ad una maggiore sostenibilità per l’ambiente per quanto riguarda l’utilizzo di energia e, oggi con la tecnologia a disposizione,  per il trasporto privato l’unica via percorribile è appunto quella della mobilità elettrica.
Dall’altra però le incognite per chi acquista un’automobile elettrica sono ancore molte e alcune senza risposte. Se con alcuni “limiti” delle  auto elettriche, come ad esempio la presuntascarsa autonomia, l’automobilista può imparare a conviverci e a gestirla, l’assenza della possibilità di ricarica della batteria al domicilio o sul posto di lavoro è un problema per alcuni insormontabile. Oggi viaggiare in Svizzera e nelle nazioni confinanti con un’auto a batteria con presa di ricarica (BEV) non è assolutamente un problema visto l’elevato numero di colonnine di ricarica pubbliche ben distribuite lungo i principali assi di transito e nelle località di destinazione.

Per esempio, al momento in Svizzera, si contano oltre 18’600 punti ricarica, un numero più che sufficiente per garantire tranquillità a tutti i possessori di un’auto elettrica. Ma si sa, gli svizzeri sono un popolo di inquilini che vivono nella stragrande maggioranza dei casi in condomini in affitto o in proprietà per piani. Per loro avere una colonnina di ricarica nel proprio posto auto è, ad oggi, praticamente impossibile.
Le amministrazioni o i proprietari degli stabili non son infatti disposti ad investire somme importanti per elettrificare i parcheggi o i garage. E, come è stato menzionato anche in articoli precedenti, guidare un’auto elettrica senza possibilità di ricaricarla quando è ferma, quindi durante la  notte al domicilio o durante il giorno sul posto di lavoro, non è assolutamente conveniente e praticabile.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che le Istituzioni avrebbero dovuto puntare per stimolare la transizione verso la mobilità elettrica. Ed invece, con la commissione europea in prima linea, è stato deciso di imporre la transizione verso la mobilità elettrica inasprendo a dismisura le norme contro le emissioni di CO2, sanzionando quindi i fabbricanti che superano i valori obiettivi a causa della ridotta vendita di automobile ad emissioni zero. Le proposte di miglioramento tuttavia non mancano.
Luca Cifferi, Associate Publisher & Editor @ Automotive News Europe, durante un’intervista andata in onda su RSI RETE1 sul tema della crisi dell’auto elettrica in Europa, suggerisce un sanzionamento anche per gli stati che vengono meno alla messa in atto delle misure quadro per uno sviluppo generale delle colonnine di ricarica private. Solo così, secondo il suo punto di vista, sarebbe possibile una transizione ordinata e sostenibile verso la mobilità del futuro più pulita e sostenibile.

L’approvvigionamento energetico con energia verde e rinnovabile è l’altra sfida che le autorità politiche devono affrontare e risolvere. Ancora quasi ovunque vengono proposti incentivi per l’installazione, ad esempio, di impianti fotovoltaici su tetti di case private o di capannoni industriali per poi accorgersi che l’elettricità prodotta da quest’ultimi è difficilmente gestibile se non addirittura problematica per la gestione della rete di distribuzione elettrica. Anche inquesto caso si può ipotizzare una scarsa visione generale da parte di chi detta le regole del gioco che non ha previsto una gestione coordinata di tutte le tecnologie oggi a disposizione per una transizione ecologica. Impianto fotovoltaico sul tetto di casa e auto elettrica in garage, se ben gestiti, sono sicuramente una delle vie da percorrere per rendere più sostenibile la mobilità individuale privata e non solo.

Ma è proprio qui che lo Stato deve intervenire: sostenendo il privato cittadino o l’imprenditore lungimirante nell’implementazione di un sistema globale della gestione energetica. Lo Stato deve fare la sua parte.

Regolamento UE Ecodesign: pubblicate le FAQ

La Commissione europea ha pubblicato una guida completa volta a chiarire il Regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili.

Il 18 luglio scorso, nell’Unione europea (UE) è entrato in vigore il Regolamento (UE) 2024/1781 sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili (ESPR). Il regolamento Ecodesign, come viene comunemente chiamato, ha l’obiettivo di migliorare la sostenibilità ambientale dei prodotti e a tal proposito introduce criteri di progettazione quali la durevolezza, la riciclabilità, l’impronta ambientale e la riutilizzabilità degli stessi e l’uso del “passaporto digitale” quale strumento di trasparenza e tracciabilità lungo tutta la filiera produttiva.

Il regolamento disciplina praticamente tutti i prodotti immessi sul mercato o messi in servizio nell’UE e non solo i prodotti di consumo. Esistono solo poche esclusioni, quali ad esempio i prodotti alimentari, i mangimi, e i medicinali. La Commissione europea dovrà stabilire i requisiti specifici per i diversi prodotti, dopodiché i produttori e i Paesi dell’UE avranno 18 mesi di tempo per conformarvisi. Tra i primi prodotti a dover essere regolamentati figurano ferro e acciaio, alluminio, prodotti tessili, mobili, pneumatici, detersivi, vernici, lubrificanti, prodotti chimici, prodotti connessi all’energia, prodotti delle TIC e altri dispositivi elettronici (cfr. art. 18 par. 5). Il relativo atto delegato non entrerà in vigore prima del 19 luglio 2025.

Per rispondere ai quesiti più frequenti, a fine settembre la Commissione europea ha pubblicato un documento con 171 FAQ che affrontano un’ampia gamma di argomenti e, nello specifico, chiariscono termini, ambito di applicazione, tempistiche di attuazione, interazione con altri regolamenti (come ad esempio il regolamento sui rifiuti di imballaggio e il REACH) e, non meno importante, le questioni legate al commercio dei prodotti (passaporto digitale, etichettatura, verifica e conformità, implicazioni per gli operatori economici di Paesi terzi,…).

Il documento può essere scaricato qui in formato pdf: Ecodesign for Sustainable Products Regulation (ESPR) – Frequently Asked Questions (1.22 Mb)

Il report di sostenibilità arriva a nuove aziende

La Cc-Ti, nell’ambito dei servizi CSR e della piattaforma www.ti-csrreport.ch, ha concluso un progetto che ha visto gli studenti e aziende collaborare per la realizzazione di nuovi report CSR.

Insieme a SUPSI, nell’ambito del Master of Science in Business Administration con Major in Innovation Management (programma che ha l’obiettivo di preparare giovani professionisti della gestione del cambiamento in azienda dal punto di vista sia teorico, sia pratico, unendo lezioni ad esperienze progettuali concrete), la Cc-Ti ha individuato 10 aziende che si sono rese disponibili a collaborare con gli studenti che hanno frequentato il modulo “Corporate social responsibility Reporting”.

Partecipanti

Sono state coinvolte queste aziende: Borgovecchio SA vini, Caffè Chicco d’Oro, Cattaneo Impianti SA, Cippà Trasporti SA, EnerimpulsE SA, Graniti Maurino SA, Ideal-tek SA, Hockey Club Lugano, NAPP Sagl e Smart Gorla Services SA.

Scopi e metodologia

L’obiettivo era quello di fornire gli strumenti necessari per comprendere, analizzare e redigere il rapporto di sostenibilità semplificato elaborato da dalla Cc-Ti, con il supporto scientifico del-la SUPSI e in collaborazione con il Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE).

Gli studenti hanno dovuto redigere un rapporto di sostenibilità semplificato per un’azienda del territorio. Il rapporto di sostenibilità è considerato un tool per l’innovazione, in quanto costituisce uno strumento chiave per la pianificazione strategica del cambiamento, volto a raggiungere obiettivi aziendali di sostenibilità.

È stato quindi organizzato un incontro informativo spiegando l’utilizzo della piattaforma e il coinvolgimento fra aziende e studenti.

Il ruolo della Cc-Ti era prettamente di supporto sia per gli studenti che per le aziende. Gli studenti hanno dunque dovuto gestire i contatti con le aziende, le tempistiche e anche gli imprevisti che potevano capitare.

Gli studenti si son dimostrati sin da subito entusiasti di poter mettere in pratica le nozioni precedentemente acquisite sul tema della CSR, le aziende, dal canto loro, hanno mostrato un notevole interesse a collaborare con gli studenti, il risultato finale è stato molto positivo per tutti.

Come Cc-Ti possiamo senza dubbio guardare con favore a questo progetto ed al suo sviluppo, valido per sensibilizzare le aziende del territorio alle tematiche in ambito CSR e avvicinare più attori al report di sostenibilità, che ricordiamo, è utile

  • per comunicare il valore generato dall’impresa non solo a livello economico ma anche sociale e ambientale, dimostrando la propria affidabilità a 360° ai partner,
  • per consolidare l’immagine e la reputazione dell’impresa,
  • per integrare e sviluppare le buone pratiche, verificando e migliorando i propri parametri a livello di sostenibilità e di responsabilità sociale,
  • per partecipare e avvantaggiarsi nei bandi pubblici che riconoscono la premialità alle imprese socialmente responsabili.

Un sì convinto il 24 novembre prossimo

Autostrada: è un tipo di via di comunicazione, progettata per agevolare la circolazione di grandi volumi di traffico veicolare ad alta velocità, in alternativa a una strada della viabilità ordinaria che non garantisce la stessa capacità di transiti e non gestisce gli stessi problemi di sicurezza. (fonte: Wikipedia)

Proprio partendo dalla definizione di autostrada che si legge in Wikipedia, la nota enciclopedia libera online fonte apprezzata di molte informazioni, e riallacciandomi all’articolo della scorsa edizione di Ticino Business dal titolo «Un tempo, le strade erano un “arricchimento del paesaggio» cercherò di fare un’analisi personale della situazione attuale.

Che le autostrade svizzere siano delle vie di comunicazione importanti è fuori dubbio. Con un minimo sfruttamento del territorio che rappresenta oggi solo il 2.7% della superficie stradale complessiva svizzera (che a sua volta rappresenta il 2% dell’intero territorio svizzero) assorbe in compenso il 45% del traffico su stradale. Anche questo secondo punto che troviamo nella definizione di autostrada viene ancora oggi pienamente confermato. Wikipedia ci ha pienamente azzeccato quindi! Non proprio, la definizione continua poi con: ad alta velocità, in alternativa a una strada della viabilità ordinaria … Ecco che qui, come si suol dire casca l’asino. Oggi percorrere le autostrade svizzere significa speso e volentieri restare fermi in colonna e percorrere lunghi tratti a velocità ridotta o in alternativa uscire dall’autostrada e percorrere strade urbane ed extraurbane che attraversano villaggi e città creando disagi ai residenti e intasando pure queste vie di comunicazione.

A questo proposito le cifre fornite da USTRA sono impietose: nel 2023 gli automobilisti svizzeri hanno trascorso 48’807 ore incolonnati in autostrada di cui 86.7% era imputabile direttamente all’intasamento delle strade. Questo corrisponde ad un aumento rispetto all’anno precedente del 22.4% a fronte di un aumento del traffico di solo l’1.5%. La spiegazione di tutto ciò sta nel raggiungimento, e spesso del superamento, della capacità di traffico delle autostrade progettate e costruite nella gran parte dei casi negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. La situazione è quindi sempre più insopportabile e sicuramente come ognuno di noi ha provato sulla propria pelle restando incolonnato per ore, richiede delle soluzioni.

La mobilità della popolazione è oggi uno dei diritti che si ritiene acquisito e che quindi difficilmente saremo disposti a rinunciarvi. Una interessante statistica pubblicata dalla rivista del TCS nella sua edizione di settembre 2024 dimostra che gli spostamenti per il tempo libero rappresentano la maggior parte del traffico seguiti, al mattino presto e alla sera dagli spostamenti per recarsi al lavoro. Viene spontaneo chiedersi come si possa intervenire per limitare i disagi dovuti agli imbottigliamenti senza però limitare la libertà di spostamento della popolazione per piacere o per dovere. Certamente lo sviluppo dei trasporti pubblici (in particolare della rete ferroviaria) è una strada che va percorsa e che la Confederazione sta portando avanti con la garanzia dei necessari investimenti grazie al fondo per il finanziamento e l’ampliamento dell’infrastruttura ferroviaria FIF, ma anche il potenziamento della reta stradale nazionale deve fare la sua parte.

Il 25 novembre prossimo il popolo svizzero sarà chiamato ad esprimersi sul referendum contro il Programma di sviluppo strategico (PROSTRA) delle strade nazionali che prevede un investimento di 11.6 miliardi di franchi entro il 2030 per portare a termine 5 progetti volti ad eliminare quelli che sono oggi i punti più soggetti ad imbottigliamenti dovuti al traffico veicolare.

In particolare, si tratta di adeguare le strutture del tunnel del Reno a Basilea, del tratto autostradale Wankdorf – Schönbhül – Kirberg, di quello tra Le Vengeron – Coppet -Nyon, della seconda canna del tunnel di Fäsenstaub e della terza canna del tunnel Rosenberg. In caso di bocciatura da parte del popolo di questi cinque progetti, è scontato che la situazione della viabilità non potrà che peggiorare a scapito anche delle zone circostanti che si vedranno sempre più messe sotto pressione dal traffico di aggiramento che invece che transitare sull’autostrada si sposterà sempre più sulle strade cantonali e comunali.

Un altro grosso pericolo in caso di voto contrario al referendum è che tutti i futuri progetti di completamento e adeguamento della rete di strade nazionali vengano rimandati se non addirittura cancellati con ripercussioni negative anche per il nostro cantone. Il collegamento diretto tra Locarno e Bellinzona, o altri progetti a sud delle Alpi volti a migliorare la viabilità di tutti noi, difficilmente vedrebbero la luce.

Un sì convinto è certamente la scelta giusta che i cittadini svizzeri dovranno esprimere con il voto del prossimo 25 novembre nella consapevolezza che un potenziamento della rete stradale nazionale è oggi indispensabile per garantire un futuro di prosperità e sicurezza a tutti cittadini sia automobilisti che utenti dei mezzi di trasporto pubblici.


Articolo a cura di Marco Doninelli, Responsabile mobilità Cc-Ti

Strada e ferrovia, accostamento vincente

Le strade… crocevia di disquisizioni infinite del mondo moderno, sono ormai costantemente oggetto di diatribe, non solo a causa dei quotidiani bollettini sul traffico, ma anche e soprattutto quando si tratta di decidere interventi infrastrutturali per adeguamenti di capacità.

© Staatsarchiv Luzern

Purtroppo, nella discussione politica molti sono ancora ostaggi di una contrapposizione ideologica fra trasporto privato e pubblico, come se si trattasse di due entità nettamente separate e non parte dello stesso sistema. L’economia ha sempre sottolineato la necessità di considerare i vari vettori di trasporto come complementari (strada, ferrovia e pure aereo). Unitamente alla rete ferroviaria, quella stradale nazionale è essenziale per il buon funzionamento del nostro Paese. La mobilità individuale e collettiva, così come quella logistica della consegna delle merci, è possibile solo con infrastrutture ferroviarie e stradali dinamiche ed efficienti.

Un territorio che vuole essere forte economicamente deve poter contare su mezzi di trasporto diversificati e integrati. Non ci sono alternative e le scelte unilaterali hanno poco senso.
Pensiamo allo scenario auspicato da taluni “esperti” durante la campagna di votazione per la realizzazione del secondo tubo autostradale del San Gottardo: chiusura del traffico stradale e tutto il peso sulla ferrovia, persone e merci. Questo non tenendo conto dell’ovvia limitata disponibilità di tracce ferroviarie, considerata come un dettaglio, facilmente risolvibile. L’incidente che ha bloccato la galleria di base per oltre un anno dall’agosto 2023 al prossimo mese di settembre è la risposta più eloquente a questi tipi di approcci settari.

Il prossimo 24 novembre 2024 sarà un ulteriore banco di prova per un approccio “integrato” (strada e ferrovia), visto che saremo chiamati alle urne per votare sulla Fase di potenziamento delle strade nazionali 2023, oggetto di referendum. La proposta comprende sei progetti in diverse regioni della Svizzera (non in Ticino), volti a eliminare e/o ridurre i “colli di bottiglia”, migliorando il flusso del traffico sulle nostre strade nazionali. Un potenziamento più che necessario, considerata la crescita economica, l’aumento della popolazione e il conseguente incremento dei veicoli stradali a motore in Svizzera che nel 2023 erano quasi 6,5 milioni (di cui ¾ automobili, ca. 4,8 milioni di immatricolazioni), a fronte dei circa 5,7 milioni del 2013 (nel 1950 erano 147’000…).
Centrale resta una visione complessiva e integrata della mobilità per rendere più scorrevole il traffico sia per i mezzi pubblici che per il trasporto privato, facilitando notevolmente gli spostamenti sul nostro territorio ed evitando di sostare ore fermi nel traffico congestionato. Le soluzioni alternative proposte fino a oggi, come gli impianti di limitazione dinamica della velocità o le corsie dinamiche, non sono più sufficienti in molti tratti autostradali per gestire il traffico attuale e per affrontare la crescita di quello futuro. Anche se la crescita dovesse rallentare, ipotesi poco plausibile, si può legittimamente ritenere che non vi saranno diminuzioni significative rispetto allo stato attuale delle cose. I potenziamenti mirati proposti per risolvere le criticità più gravi sono pertanto assolutamente sensati e necessari.
Questa tendenza all’aumento del traffico privato si verifica malgrado l’inalterata e, anzi, crescente passione della popolazione svizzera per il trasporto pubblico, con cifre record per il numero di chilometri percorsi dalle persone, come attestato dall’Associazione svizzera per il trasporto pubblico (www.voev.ch). Certo, il trasferimento delle merci su rotaia ha ancora un potenziale di crescita, ma è illusorio pensare di risolvere tutti i problemi del traffico puntando solo su questo elemento. Per quanto riguarda il Ticino, ci sono comunque buone notizie per il trasporto pubblico: i dati confermano che i passeggeri continuano ad aumentare. Il potenziamento dell’offerta di tre anni fa sta dando i suoi frutti, con un 2023 da record e anche il 2024 si preannuncia in crescita. In ottica dei finanziamenti futuri a livello cantonale, a fine maggio è stata presentata la richiesta di stanziamento di un credito quadro per il finanziamento delle prestazioni di trasporto pubblico per il quadriennio 2025-2028, pari a 462,1 milioni di franchi, di cui 358,3 milioni a carico del Cantone e 103,8 milioni a carico dei Comuni.

Anche molte aziende si sono da tempo attivate con misure puntuali messe in campo per cercare di contenere il traffico nell’ottica di una mobilità sostenibile, attraverso iniziative come il car pooling, il car sharing, sconti per collaboratori per l’abbonamento arcobaleno o navette aziendali.

L’automobile si conferma comunque ancora il mezzo preferito dagli svizzeri per gli spostamenti quotidiani. La complementarità menzionata in precedenza permette di ponderare quale sia il mezzo di trasporto più idoneo per una determinata tratta e, spesso, l’automobile gioca ancora un ruolo cruciale. Fare in modo che il traffico scorra senza intoppi sulle autostrade significa quindi anche alleggerire le città e i comuni, verso i quali spesso si riversano i flussi rallentati sulla rete nazionale. Le code interminabili si ripercuotono infatti direttamente sulla viabilità delle strade cantonali, mettendo in difficoltà regioni intere.
I dati pubblicati a metà giugno da USTRA sono chiari: con un aumento del 22,4% rispetto all’anno precedente, gli incolonnamenti in Svizzera hanno raggiunto un valore record nel 2023, totalizzando 48’807 ore, di cui l’86,7% imputabile a problemi di congestione della rete. Numeri che confermano la necessità di un aumento della capacità della rete autostradale.

Il Ticino non è direttamente toccato dalla votazione del 24 novembre 2024, ma è importante comunque sostenere progetti infrastrutturali che ci concernono anche solo in maniera indiretta, perché è un atto di solidarietà con le altre regioni svizzere e di coerenza nell’ambito della politica dei trasporti auspicata.
Del resto, l’importanza per i ticinesi del trasporto privato è dimostrata non solo dall’elevato numero di veicoli immatricolati (324’508 nel 2022), ma anche dall’età media delle automobili, che in Ticino è di 8,9 anni a fronte dei 10 anni della media nazionale. Un parco veicoli meno “vecchio” di quello degli altri cantoni, non male per una regione considerata povera…

Per maggiori informazioni, continuare ad approfondire il tema con l’articolo «Un tempo, le strade erano un “arricchimento del paesaggio”»

«Non solo business…»

L’economia per la società

La nostra società sta vivendo una fase di cambiamenti epocali. L’innovazione tecnologica avanza a un ritmo vertiginoso, trasformando il panorama lavorativo: vecchi mestieri scompaiono, mentre nuove competenze emergono. Questo progresso tecnologico non solo rivoluziona l’economia, ma ridisegna profondamente il tessuto sociale, creando opportunità inedite ma anche nuove sfide.

Di fronte a queste trasformazioni, diventa ad esempio imprescindibile ripensare il nostro sistema formativo e colmare la mancanza di manodopera qualificata in molti settori, specialmente in vista dell’imminente pensionamento della generazione dei baby boomer. La necessità di formazione continua e aggiornamento diventa essenziale per restare al passo con i tempi, mantenere la competitività in un contesto internazionale sempre più agguerrito e severo e quindi poter garantire che si possano creare posti di lavoro a beneficio di tutta la collettività.

Il ruolo delle aziende

Ma oggi il ruolo atavico delle aziende, cioè, detto in maniera diretta, ottenere profitto per poter investire e creare posti di lavoro in un’ottica “win-win” per tutti non è più considerato sufficiente.

Dalle aziende si esige un ruolo differenziato, più ampio, che favorisca anche fattori ambientali e sociali, oltre che economici. Elementi richiesti dal mercato, dalle filiere stesse, da chi valuta la propria collocazione lavorativa e dalla politica.

Connotazioni all’apparenza più complesse, ma che in realtà spesso le aziende possiedono e perseguono già, anche inconsapevolmente, nel proprio percorso etico sotto il capitolo della “Responsabilità sociale delle aziende” (o anche CSR secondo la denominazione inglese), concetto tutt’altro che nuovo o vacuo per gli imprenditori.

Nel contesto della CSR, che qualcuno a torto considera come mera operazione di marketing emergono, in realtà da tempo, molteplici comportamenti “virtuosi” (termine abusato e che non utilizziamo con piacere, ma che rende l’idea…), che dimostrano inequivocabilmente il già fattivo impegno dell’economia per la società, ben più ampio di quello tradizionale citato all’inizio del capitolo. Un’evoluzione sostanziale, purtroppo ancora troppo poco percepita nel sentire comune, come ha dimostrato la recente votazione cantonale sulla riforma fiscale. Occasione per gli oppositori alla riforma, dati i carenti argomenti, di rispolverare un noto slogan, secondo cui le aziende “rubano”. Senza distinzioni, verità assoluta tipica del pensiero unico di stampo totalitario.

Frutto d’ignoranza (nel senso etimologico del termine, cioè di mancanza di conoscenza della realtà) e/o di malafede. La campagna di votazione spiega molto ma non può giustificare tutto e le menzogne, gli attacchi personali e gli insulti si sono qualificati da soli. È di fondamentale importanza ribadire alcuni temi concreti, magari meno noti, che vedono le imprese in prima fila e spesso anche promotrici di tematiche e pratiche non direttamente legate alla loro attività di base, ma rilevanti per tutta la società, senza dimenticare comunque che il risvolto economico non può e non deve essere considerato un peccato. Del resto, anche chi continua a voler soppesare con diffidenza il mondo imprenditoriale, converrà che è meglio contare su aziende sane che prosperano e possono contribuire al benessere comune, piuttosto che su società fallimentari e a carico della collettività. A meno di credere ciecamente nel potere taumaturgico dello Stato di sostituirsi all’economia, ma questa è un’altra questione.

La responsabilità sociale delle imprese

Come detto in precedenza, questo concetto può declinarsi in molte maniere e concretizzarsi con differenti modalità. Comportamenti quotidiani, magari non immediatamente visibili, ma che hanno un risvolto rilevante sul benessere di chi lavora nell’azienda. Per far emergere questa realtà, abbiamo sviluppato, con il supporto scientifico della SUPSI e in collaborazione con il Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE) un modello online di rapporto di sostenibilità, accessibile tramite il link: www.ti-csrreport.ch.

Proprio per dare modo alle aziende di evidenziare, in maniera semplice e diretta, i vari ambiti nei quali il loro impegno va ben oltre quella che gli scettici chiamano pura realizzazione del profitto (che per molti resta comunque ancora e sempre “lo sterco del diavolo”). I dati sono inequivocabili: le aziende ticinesi si collocano a un livello superiore nella media nazionale e manifestano attenzione verso il tema, sulla base proprio dei valori e delle convinzioni della dirigenza stessa. Le misure concrete vanno dalla mobilità aziendale alle buone pratiche.

Ne sono state rilevate ben 138 in 32 diversi ambiti. I dati sono riferiti al periodo pre-pandemico e risultano dalla nostra inchiesta congiunturale del 2020 (link: https://www.cc-ti.ch/risultati-inchiesta-cong-2019-2020/).

Data l’accelerazione di nuove forme lavorative, come lo Smart Working, proprio da quanto vissuto durante la pandemia, i dati oggi sono senz’altro ancora superiori.

Conciliabilità tra lavoro e famiglia

Tema importante nel contesto della CSR e non si può certo dire che le aziende ticinesi non contribuiscano a questa causa. Al di là delle applicazioni pratiche nelle singole imprese, che variano ovviamente a seconda delle dimensioni aziendali e della possibilità di flessibilità organizzativa, è giusto rilevare che l’economia cantonale ha versato, negli anni fra il 2019 e il 2023, qualcosa come 91 (novantuno) milioni di franchi nell’apposito fondo cantonale creato con la riforma fisco-sociale entrata in vigore nel 2018. Mezzi destinati all’assegno parentale e alle misure sulla conciliabilità lavoro-famiglia e più particolarmente al sostegno alla spesa di collocamento dei figli, ai servizi e alle strutture di accoglienza e la sensibilizzazione delle aziende. Oltre alle misure di sostegno ai familiari curanti.

Un impegno sostanziale, fatto anche di sacrificio e consapevolezza, e quando si utilizza la parola “ladri” riferendosi alle aziende magari sarebbe opportuno ridimensionare pregiudizi e “slogan” populisti in virtù di una lettura fattuale e includente della realtà. Questo non per assolvere sempre e comunque il mondo imprenditoriale in toto, che deve assumersi determinate responsabilità. Del resto, sono gli imprenditori stessi a chiedere un certo rigore quando si tratta di dimostrare il fare impresa correttamente.

Reintegrazione professionale

Dal 2012 collaboriamo con l’Ufficio dell’Assicurazione Invalidità dell’Istituto delle assicurazioni sociali nell’ambito della manifestazione “Agiamo Insieme” (www.cc-ti.ch/agiamo-insieme-2024), momento dedicato alla reintegrazione professionale di persone con problemi di salute. Persone che hanno ricostruito con successo la propria carriera lavorativa unendo la propria resilienza e il supporto di aziende del territorio.

Questo gratificante binomio tra azienda e collaboratore viene raccontato attraverso testimonianze e video-reportage, dimostrando quanto l’impegno congiunto (persona, famiglia, azienda, economia e Istituzioni) possa essere premiante per tutti.

Una collaborazione fra pubblico e privato che dimostra come vi sia una volontà comune di andare ben oltre il solo interesse economico, ma una vera sensibilità per le persone e il territorio. Vero che la collaborazione con lo Stato in questo contesto è fondamentale, ma vedere aziende di ogni settore, dall’industria ai servizi, determinate a predisporre importanti misure non solo organizzative ma anche sostanziali, modificando gli spazi di lavoro, per agevolare i collaboratori con difficoltà a poter svolgere la propria attività lavorativa, è solo uno degli esempi che contraddice il presunto disimpegno dell’economia dalla realtà sociale.

Sentenziare è una cattiva abitudine non solo ticinese, ma sul nostro territorio siamo particolarmente abili, purtroppo, a disprezzare o sminuire quanto di buono viene fatto e ignorare scientemente iniziative di questo tipo dimostra quanto sia ancora impervio il cammino verso un confronto basato sui fatti e non sul puro confronto ideologico.

Le imprese non solo contribuiscono allo sviluppo sostenibile, ma hanno tutte le qualità e l’interesse a posizionarsi come entità innovative, responsabili e competitive sul mercato. Questo approccio olistico si allinea alle preferenze dei consumatori e alle tendenze normative in evoluzione, favorendo il successo a lungo termine. Il rispetto è molto spesso un’utopia, ma non va dimenticato che l’economia siamo tutti noi, persone e aziende costituiscono un tutt’uno. La differenza tra parlarne e sparlarne è alla base di chi siamo e vogliamo essere. Potrebbero bastare anche solo cinque minuti senza preconcetti per ricostruire un dibattito sensato, basato su cose concrete e non su basse insinuazioni.

Sostenibilità: la CSDDD europea in breve

La direttiva sulla dovuta diligenza in materia di sostenibilità delle imprese (CSDDD/CS3D), entra in vigore il 25 luglio 2024 e richiederà alle imprese con sede nell’Unione europea (UE) e alle imprese extra-UE con attività nel mercato comunitario di gestire con attenzione gli impatti sociali e ambientali lungo l’intera catena di approvvigionamento.

Dopo un lungo iter negoziale, terminato con l’approvazione finale del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024, la Direttiva (UE) 2024/1760 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 giugno 2024, relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità – più comunemente nota come CSDDD o CS3D – è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’UE il 5 luglio 2024 ed entra in vigore il 25 luglio 2024. Per essere pienamente applicabile, entro due anni dovrà essere recepita nel diritto nazionale degli Stati membri.

Oggetto e ambito di applicazione

La CSDDD richiederà alle imprese di adottare misure per prevenire, mitigare o ridurre al minimo gli impatti sui diritti umani e sull’ambiente che potrebbero derivare dalle attività che svolgono e dalle catene del valore a cui partecipano. Trattasi in particolare di attività a monte quali la progettazione, l’estrazione, l’approvvigionamento, la fabbricazione, il trasporto, l’immagazzinamento e la fornitura di materie prime, prodotti o parti dei prodotti e lo sviluppo del prodotto o del servizio, nonché di attività dei partner commerciali a valle, tra cui la distribuzione, il trasporto e l’immagazzinamento del prodotto, laddove i partner commerciali svolgano tali attività per l’azienda o a nome dell’azienda.

Il processo di attuazione del dovere di diligenza (due diligence) dovrà seguire le seguenti fasi:

  • integrazione della due diligence nelle politiche e nei sistemi di gestione;
  • individuazione e valutazione degli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente;
  • prevenzione e attenuazione degli impatti negativi potenziali e arresto degli impatti negativi effettivi e minimizzazione della relativa entità;
  • riparazione degli impatti negativi effettivi;
  • istituzione e mantenimento di un meccanismo di notifica e di una procedura di reclamo;
  • monitoraggio dell’efficacia della propria politica e delle misure di due diligence ogni 12 mesi; 
  • comunicazione delle proprie attività di due diligence pubblicando sul sito web una dichiarazione annuale.

Entro il 31 marzo 2027, la Commissione adotterà gli opportuni atti delegati relativi al contenuto e ai criteri per la rendicontazione.

Tempistiche di applicazione

Gli Stati membri dell’UE dovranno recepire la CSDDD nel rispettivo diritto nazionale entro il 26 luglio 2026.

Le disposizioni della direttiva saranno in seguito applicate secondo le seguenti tempistiche:

  • dal 26 luglio 2027 la CSDDD si applicherà alle aziende europee con oltre 5’000 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale superiore a 1,5 miliardi di euro così come ad aziende estere con un fatturato netto di oltre 1,5 miliardi di euro generato nell’UE o a società madri di un gruppo che, su base consolidata, ha raggiunto tale soglia;
  • dal 26 luglio 2028 si applicherà alle aziende europee con oltre 3’000 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale superiore a 900 milioni di euro così come ad aziende estere con un fatturato netto di oltre 900 milioni di euro generato nell’UE o a società madri di un gruppo che, su base consolidata, ha raggiunto tale soglia;
  • dal 26 luglio 2029 si applicherà a tutte le società europee con oltre 1’000 dipendenti e un fatturato netto a livello mondiale superiore a 450 milioni di euro, alle aziende estere con un fatturato netto di oltre 450 milioni euro generato nell’UE o a società madri di un gruppo che, su base consolidata, ha raggiunto tale soglia così come ad aziende che hanno stipulato o sono società madri di un gruppo che ha stipulato accordi di franchising o di licenza nell’UE in cambio di diritti di licenza (royalties) con società terze indipendenti, qualora tali diritti ammontino a oltre 22,5 milioni di euro nell’UE e il fatturato netto generato risulti essere superiore a 80 milioni di euro.

Le soglie indicate dovranno essere raggiunte dall’azienda per due esercizi finanziari consecutivi.

Autorità di vigilanza e sanzioni

Ogni Stato membro dell’UE istituirà un’autorità di vigilanza per verificare che le imprese rispettino gli obblighi previsti dalla Direttiva. Esse potranno avviare indagini, condurre ispezioni e imporre sanzioni, anche pecuniarie, alle aziende inadempienti. Le sanzioni pecuniarie potranno arrivare fino al 5% del fatturato netto mondiale della società in questione. Le autorità nazionali saranno coordinate a livello comunitario dalla cosiddetta “Rete europea delle autorità di vigilanza”.

Verde a metà…

quando la realtà è un’altra

Il greenwashing – neologismo inglese che generalmente viene tradotto come ecologismo di facciata o ambientalismo di facciata – è una pratica ingannevole adottata da alcune aziende, organizzazioni o individui che si presentano come ambientalmente responsabili o impegnati nella sostenibilità senza però attuare effettivamente cambiamenti significativi nelle loro operazioni o nei loro prodotti. Le tattiche di greenwashing possono includere l’uso di etichette fuorvianti, affermazioni vaghe o esagerate sui benefici ambientali, la messa in evidenza iniziative eco-friendly minori mentre si minimizzano pratiche più dannose per l’ambiente, e la distrazione dalle questioni ambientali attraverso campagne di marketing o PR. L’obiettivo del greenwashing è spesso quello di attirare i consumatori ambientalmente consapevoli e migliorare l’immagine pubblica di un’azienda senza compiere sforzi sostanziali verso una sostenibilità autentica.
Questa pratica può minare la fiducia nelle iniziative ambientali e rendere più difficile per i consumatori fare scelte informate sui prodotti e servizi che acquistano. Inoltre, le aziende che adottano questa pratica rischiano di compromettere la loro reputazione nel lungo termine.

Le tecniche di greenwashing possono variare e possono essere sottili o evidenti. Ecco alcune delle più comuni:

  • etichette ingannevoli: le etichette che suggeriscono che un prodotto sia “naturale” o “ecologico” senza fornire dettagli specifici sulle pratiche effettive possono essere fuorvianti.
  • affermazioni generiche: dichiarazioni vaghe come “rispettoso dell’ambiente” o “verde” senza fornire prove concrete o dettagli sulle pratiche sostenibili utilizzate.
  • spot pubblicitari suggestivi: campagne pubblicitarie che utilizzano immagini di natura o animali senza correlarle direttamente al prodotto o al servizio promosso.
  • sponsorizzazioni ambientali: finanziare eventi o organizzazioni ambientaliste per creare l’illusione di supporto alla sostenibilità, anche se l’azienda non sta effettivamente adottando pratiche eco-friendly.
  • imballaggi “verdi”: utilizzare imballaggi con colori o immagini evocative della natura senza necessariamente riflettere un impegno reale per la sostenibilità.
  • compensazione delle emissioni di carbonio: affermare di compensare le emissioni di carbonio senza ridurle effettivamente o senza trasparenza sulle pratiche utilizzate per compensare.
  • falsi marchi di certificazione: utilizzare marchi di certificazione che possono sembrare legittimi ma che non sono verificati da enti credibili o che non corrispondono effettivamente alle pratiche sostenibili.
  • ’highlighting’ di iniziative minori: mettere in evidenza piccole iniziative sostenibili, come l’utilizzo di materiali riciclati per una piccola parte di un prodotto, mentre si trascurano gli impatti ambientali più significativi.

Queste sono solo alcune delle tecniche – purtroppo – più conosciute ed utilizzate, che vengono classificate come “greenwashing”.
È importante però, per le aziende, adottare pratiche trasparenti e responsabili per evitare di incorrere in queste “insidie”, promuovendo invece un autentico impegno verso la sostenibilità.

In conclusione, alcuni spunti di riflessione:

  • Incoraggiare una comunicazione aperta e chiara delle pratiche aziendali fornendo informazioni dettagliate sulle iniziative sostenibili adottate dall’azienda e garantire la trasparenza sulle azioni ambientali, sociali ed economiche.
  • Ottenere certificazioni credibili, cercando riconoscimenti tangibili da enti terzi affidabili che confermino le pratiche sostenibili dell’azienda, dimostrando impegno e conformità agli standard ambientali. La vostra Cc-Ti, grazie alla piattaforma ti-csrreport.ch, può sostenervi in questo ambito.
  • Sostenere le affermazioni con dati concreti, evitando asserzioni troppo generiche o esagerate e fornire prove tangibili che supportino le dichiarazioni di sostenibilità dell’azienda.

Non sarà il riconoscimento “green” ad assicurare un rafforzamento della reputazione, bensì la vera messa in atto di processi e pratiche in accordo con il rispetto per l’ambiente e con la tutela degli aspetti in ambito sostenibile.

Un tempo, le strade erano un “arricchimento del paesaggio”

In autunno, gli Svizzeri voteranno sul piano di ampliamento delle autostrade.
Ma le strade veloci non sono sempre state un ostacolo nel nostro paese.
In passato la loro costruzione è stata addirittura acclamata; anche dai politici di sinistra.

© Staatsarchiv Luzern

L’anno è il 1955. Winston Churchill si dimette da Primo Ministro britannico. La Repubblica Federale della Germania Ovest diventa uno Stato sovrano. L’Unione Sovietica e sette Paesi dell’Europa orientale firmano il Patto di Varsavia. In Svizzera viene inaugurata la prima autostrada, o almeno un tratto di questa. L’inaugurazione ha avuto luogo l’11 giugno a sud di Lucerna, grosso modo dove oggi sorge la birreria Eichhof.
Era lunga circa quattro chilometri e si snodava tra Lucerna ed Ennethorw. In un supplemento speciale del quotidiano cattolico conservatore Vaterland, il titolo dell’epoca recitava: “Questa opera pioneristica segna una pietra miliare nella costruzione delle strade svizzere”. Si leggeva poi che quel giorno veniva inaugurata “l’apertura della prima linea ferroviaria Zurigo-Baden”. Il nuovo tratto autostradale non ha né guardrail né bretelle di accesso e uscita e non ci sono nemmeno limiti di velocità! In compenso, è provvista di passaggi pedonali e mezzi trainati da cavalli o biciclette vi possono circolare liberamente, come scrive Alexander Rechsteiner nel suo blog per il Museo Storico Nazionale. In quel periodo, la Confederazione non era ancora responsabile della costruzione delle strade, ma sostenne il progetto da 8 milioni di franchi nella misura del 60 %.

La “Berner Marsch” viene suonata per Grauholz

In generale, la costruzione di autostrade in Svizzera è iniziata relativamente tardi. Nel 1950 circolavano solo 147’000 automobili. In seguito, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, questo numero è aumentato in modo significativo grazie alla crescente prosperità, moltiplicandosi per tre volte e mezzo nel giro di dieci anni.
Nel Paese si sente quindi un’atmosfera di rinnovamento. Le autostrade sono viste come un motore economico, un segno di progresso e di sviluppo tecnico. Un degrado della natura? Al contrario. Nel 1955, il “Vaterland” si compiaceva del “tracciato armonioso” della nuova superstrada, che aveva “veramente arricchito il paesaggio”. Oggi questo tratto di strada fa parte della rete europea tra Amsterdam e Roma, conosciuta come E35. Qualche anno dopo, si sente dire la stessa cosa. “L’autostrada si inserisce perfettamente nel magnifico paesaggio bernese”, disse allora l’ex consigliere federale Hans Peter Tschudi (†) nel 1962 a proposito della Grauholz bernese. La „Berner Marsch“ viene suonata e poco dopo viene aperta al traffico la Strada Nazionale 1, oggi la A1. Ecco come la NZZ descrisse l’evento. Il socialista H.P. Tschudi è convinto che “le opere dell’uomo non danneggino l’immagine della nostra patria”.

“Kölliken ringrazia per l’autostrada”

Naturalmente, anche all’epoca si levarono voci critiche. Nel complesso, tuttavia, prevaleva uno stato d’animo positivo quando si trattava di costruire strade. Sui ponti si possono ad esempio leggere frasi come “Kölliken ringrazia per l’autostrada”. Gli appartamenti che si affacciavano sulle autostrade poterono persino essere affittati a prezzi particolarmente vantaggiosi: è quanto sostiene di aver scoperto il comico Mike Müller, che nel 2015 ha sviluppato il tema dell‘A1 in un progetto teatrale.
Il governo federale diventa responsabile per la costruzione di autostrade solo dal 1960. Questo cambiamento è stato preceduto nel 1956 da un’iniziativa popolare presentata dall’ACS e dal TCS, il cui scopo era migliorare la rete stradale. L’iniziativa prevedeva tra l’altro che la metà di tutte le entrate derivanti dall’imposta sugli oli minerali e sui carburanti doveva essere utilizzata per costruire strade per la circolazione delle automobili. Nel 1958, una controproposta della Confederazione fu accettata con l’85% dei voti favorevoli.
Negli anni successivi vennero fatti grandi investimenti: si aggiungevano continuamente nuovi tratti e, giusto in tempo per l’esposizione nazionale Expo 64, la Svizzera francese ebbe la sua prima autostrada con il tratto tra Ginevra e Losanna. La maggior parte delle autostrade fu invece costruita tra il 1965 e il 1975. Nel 1980, oltre l’80% della rete autostradale era già a quattro corsie. Le opere fondamentali di questo periodo furono l’apertura del tunnel del San Bernardino alla fine del 1967 e, naturalmente, il tunnel stradale del Gottardo, completato il 5 settembre 1980 dopo dieci anni di lavori.

Limiti di velocità? Neanche per sogno

Con l‘aumento del traffico, aumenta anche il numero di vittime della strada. Nel 1970 si contarono 1’700 vittime della circolazione. La ragione principale fu la mancanza di barriere anticollisione centrali e di limiti di velocità. All’inizio degli anni ‘60, il Consiglio federale non era ancora favorevole all’introduzione di limiti di velocità sulle autostrade. L’attuale limite massimo di velocità di 120 km/h è in vigore solo dal 1985, mentre prima, su alcuni tratti, era possibile viaggiare anche a 130 km/h. Resta il fatto che il numero di vittime della strada è costantemente diminuito dopo il triste primato del 1970. Secondo l’Ufficio federale di statistica, il numero di vittime nel 2023 si attesta a 236. Oggi la rete stradale nazionale si sviluppa su 2’254 chilometri. Negli ultimi anni la stessa ha subito una serie di adeguamenti della capacità a causa di vari colli di bottiglia che hanno causato lunghi ingorghi: i principali sono la terza canna del tunnel di Baregg (2004), l’allargamento a sei corsie del tratto di A1 tra Härkingen e Wiggertal (2015) e l’apertura della terza canna del Gubrist (2023). La tangenziale ovest con il tunnel dell’Uetliberg (2009) è particolarmente importante per la regione di Zurigo.

La rete autostradale è sull’orlo del collasso

Per quanto importanti per il trasporto di merci e persone, le autostrade svizzere sono oggi giorno molto contestate, come dimostra il referendum contro il progetto del loro ampliamento. La situazione è che dal 2010 “il numero di ore passate fermi in colonna sulle strade nazionali è più che raddoppiato, e questo a causa degli ingorghi causati da sovraccarico delle infrastrutture”, come evidenziato dall’Ufficio federale di statistica sul suo sito web. In concreto, nel 2022, gli svizzeri hanno trascorso quasi 40’000 ore bloccati in ingorghi.
Rispetto al 2021, questo rappresenta un aumento del 23 %. Le ragioni sono chiare: negli ultimi anni la Svizzera è diventata ancora più attraente come luogo in cui vivere e lavorare, e la popolazione è quindi in crescita. Alla fine di giugno 2023, in Svizzera vivevano più di nove milioni di persone. Nel 1995 erano ancora solo sette milioni. La rete autostradale oggi non riesce a tenere il passo con questa crescita demografica. A titolo di confronto, dal 1990 è cresciuta solo del 25%, mentre nello stesso periodo il volume di traffico è aumentato del 130%.
Riuscite ad immaginare di poter viaggiare da Berna a Zurigo il lunedì sera senza trovarvi almeno una volta in una colonna di veicoli? È impossibile.
È così che la storia della rete stradale nazionale svizzera ha avuto un inizio entusiasmante, che per lungo tempo ha permesso alla Svizzera di crescere economicamente, ma che nel frattempo è diventato uno dei pomi della discordia per la politica che si esprime sul tema in modo assai emotivo. Una cosa deve essere chiara: la scelta che saremo chiamati fare non riguarda l’ampliamento della rete autostradale. Si tratta semplicemente di salvarla dal collasso.

La scelta dell’auto non basta

Acquistare un’automobile a propulsione elettrica non significa solamente scegliere la marca, il modello, il colore e gli optional. Occorre pure preoccuparsi del sistema da utilizzare per la ricarica elettrica della batteria. Con veicolo a propulsione termica, benzina o diesel che sia, per fare il pieno di carburante ci si reca semplicemente presso una delle numerose stazioni di rifornimento sparse sul territorio e, in pochi minuti, il pieno è fatto. Con l’auto elettrica non funziona così.

O meglio, potrebbe anche funzionare in questa maniera, infatti le colonnine di ricarica pubbliche sono disponibili e ben ripartite sul territorio e quindi a disposizione per la ricarica dell’auto. Ma come sappiamo per ricaricare parzialmente o totalmente la batteria occorre più di qualche minuto e quindi il tempo che il proprietario di un’auto elettrica deve investire per fare il pieno risulterebbe non sopportabile.

Una soluzione naturalmente esiste, è pratica e addirittura impegna meno tempo per il pieno al proprietario dell’auto. È la ricarica a domicilio. Ecco che quindi, acquistando un veicolo elettrico è indispensabile pure acquistare, se non già disponibile, un sistema di ricarica da installare nel proprio box o parcheggio di casa. In questa maniera l’auto elettrica può tranquillamente essere ricaricata nei momenti in cui non viene utilizzata e il proprietario non deve preoccuparsi di investire il proprio tempo libero per fare il pieno. Naturalmente tutto questo richiede un’installazione dell’infrastruttura di ricarica adatta alle proprie esigenze e possibilità.

La situazione abitativa della popolazione svizzera è molto variegata e va dai proprietari di case unifamiliari fino agli inquilini che abitano in condomini gestiti da amministrazioni immobiliari o dai proprietari dello stabile abitativo. Ogni situazione personale richiede una soluzione specifica che non può semplicemente essere ridotta all’acquisto di una wallbox da collegare alla presa elettrica di casa. Anche in questo ambito la tecnologia ha fatto passi da gigante e il mercato offre soluzioni più o meno valide.

Innanzitutto, va specificato che utilizzare un caricatore per batteria da collegare alla normale presa elettrica di casa è assolutamente sconsigliato ed addirittura pericoloso. Le normali prese domestiche non sono progettate per sopportare dei carichi di corrente relativamente elevati e per diverse ore in modo continuato. Il rischio è quello di provocare un incendio per surriscaldamento della presa. Occorre quindi acquistare una stazione di ricarica da collegare in maniera adeguata direttamente all’impianto elettrico o comunque tramite una presa progettata a questo scopo. La scelta poi della stazione di ricarica richiede pure attenzione. Sul mercato ne esistono principalmente di due tipi: le stazioni “non intelligenti” e quelle “intelligenti”. Le prime le possiamo classificare come dei semplici fornitori di energia elettrica che si occupano di fornire sempre il massimo della corrente elettrica richiesta dal veicolo per caricare la batteria di trazione. La seconda invece prevede la possibilità di adeguare l’erogazione di corrente in base alla disponibilità offerta dall’impianto elettrico di casa senza sovraccaricarlo o di fornire maggiore potenza quando ad esempio splende il sole e l’impianto fotovoltaico genera una maggiore quantità di energia elettrica disponibile tra l’altro a costo zero.

Un altro aspetto fondamentale di questa tecnologia, se applicata in modo corretto, è quello di non sovraccaricare la rete pubblica di distribuzione dell’energia elettrica mettendo in crisi l’intero sistema di approvvigionamento. Si, perché un problema che, con il continuo aumento delle vetture con necessità di
ricarica della batteria di trazione, sarà quello del sovraccarico che, in alcuni momenti della giornata, per esempio alla sera quanto buona parte della popolazione rientra dal lavoro e approfitta di caricare la propria auto, si verificherà sempre più spesso.

Le possibili soluzioni per evitare blackout elettrici o limitazione della ricarica delle auto, sono principalmente due:

  • il potenziamento spropositato della rete di distribuzione dell’energia elettrica con investimenti miliardari o
  • una gestione intelligente dell’energia elettrica disponibile grazie alla ripartizione del carico e allo sfruttamento della sovrapproduzione in particolare delle fonti di energia rinnovabile.

Tra le due è sicuramente più sensato puntare sulla seconda soluzione. In questo caso ogni singolo automobilista con un piccolo investimento può dare il suo contributo installando una colonnina di ricarica intelligente e connessa e, nel prossimo futuro, con l’installazione di una colonnina bidirezionale che permette di trasformare l’auto con batteria di trazione da semplice mezzo di trasporto a powerbank per lo stoccaggio e la messa a disposizione in caso di necessità dell’energia accumulata nei momenti di sovrapproduzione.

Tornando alla considerazione iniziale e partendo dal principio che per ogni veicolo elettrico in circolazione ci deve essere una stazione di ricarica privata a disposizione, oltre alla scelta della nuova auto occorre scegliere il giusto impianto di ricarica. L’importante è non accontentarsi della prima offerta di una wallbox “stupida”, magari meno costosa, ma richiedere una consulenza tecnica professionale e lungimirante che offra soluzioni durevoli nel tempo e adattabili alle mutate esigenze di una mobilità moderna e sostenibile.


Articolo a cura di Marco Doninelli, Responsabile mobilità Cc-Ti