La “sindrome del sopravvissuto”… sul posto di lavoro

Un’ondata di licenziamenti sta investendo la Svizzera, una situazione articolata per le persone colpite ma anche per quelle che restano in azienda. Come motivarle nonostante l’oggettiva complessità di simili situazioni?

La resilienza è la capacità degli individui di far fronte allo stress e alle avversità uscendone rafforzati, di saper resistere e di riorganizzare positivamente la propria vita e le proprie abitudini a seguito di un evento critico negativo, sia professionale quanto privato.

I produttori di cioccolato stanno tagliando migliaia di posti di lavoro, Migros vuole ridimensionarsi contraendosi di centinaia di unità, i dipendenti di Sunrise devono lasciare il loro posto di lavoro e quasi tutte le aziende del settore dei media sono oggi più che mai in fermento per non parlare dell’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS.
In azienda, nella maggior parte dei casi, pochi sanno in anticipo chi sarà colpito da un taglio o una riorganizzazione. La calma prima della tempesta è una brutta cosa; l’incertezza che precede l’annuncio di licenziamenti riguarda tutti, le voci girano e la tensione nell’aria è palpabile finché non arriva il giorno X e diventa chiaro chi deve restare e chi deve andarsene. Questo giorno è spiacevole per tutti indistintamente, anche l’esperienza della perdita del lavoro di un collega non lascia indifferenti. Per coloro che restano, un evento simile evoca emozioni contrastanti: da un lato sollievo perché la sorte li ha risparmiati ma grande senso di colpa perché la collega o il collega devono andarsene e loro no.

Nella psicologia organizzativa

Questa situazione è nota come “sindrome del sopravvissuto sul posto di lavoro”. In altre parole, chi rimane si sente un sopravvissuto: sono queste persone a dover fare i conti con la nuova situazione e la conseguente riorganizzazione dei compiti. E spesso vengono trascurati nel contesto dei licenziamenti di massa, poiché l’attenzione si concentra solo su coloro che devono andarsene; di chi resta, normalmente non si occupa nessuno.
Le sfide che attendono chi vive questa specie di lutto sono enormi, il carico di lavoro aumenta perché chi esce è solitamente assente da un giorno all’altro e coloro che rimangono devono portare a termine compiti in sospeso occupandosi a volte di progetti di cui spesso non hanno molte conoscenze. Queste persone sono anche frustrate perché i processi non funzionano più, gli errori e i ritardi aumentano e la montagna di lavoro non diminuisce come accadrebbe se tutti fossero ancora presenti. Tutto ciò riduce la motivazione delle persone; se l’umore era in generale già basso prima, ora tende a peggiorare ulteriormente. In casi estremi, si può persino arrivare al punto che coloro che sono ancora in azienda si dimettono “interiormente”, fanno solo lo stretto necessario e spesso ne consegue un esodo spontaneo di coloro che nei piani aziendali avrebbero dovuto restare.

Uno influenza l’altro

Chi rimane guarda con attenzione a come l’azienda gestisce gli esuberi. Il modo in cui viene gestito un licenziamento, una dismissione di gruppo, l’eventuale accompagnamento in transizione di carriera, sono tutti indicatori per chi rimane di quanto il datore di lavoro apprezzi e valorizzi i propri dipendenti. Se la procedura è condotta in modo equo e rispettoso, genererà fiducia tra i dipendenti rimanenti; ma questo da solo non basta; ci sono due questioni predominanti per coloro che sono rimasti: essi stanno affrontando il dolore dei loro colleghi che sono stati licenziati, e allo stesso tempo loro stessi sono ansiosi e incerti su ciò che accadrà in seguito. È importante riunire tutti e avviare una comunicazione aperta, trasparente e onesta. Coloro che restano hanno bisogno di certezze e indicazioni; la cosa migliore da fare sarebbe annunciare che non sono previste ulteriori misure riorganizzative per i prossimi dodici mesi, ad esempio. Naturalmente, questo purtroppo non è sempre possibile, soprattutto perché di solito tutto è ancora in divenire. Ma è essenziale comunicare onestamente, perché altrimenti si abbassa drasticamente la motivazione di chi resta.

La cosa peggiore che si possa fare è non dire apertamente la verità

Le persone hanno bisogno di un’ancora e di prospettive per il futuro, altrimenti restano bloccate nella paura. Lo si vede alla macchinetta del caffè in pausa: è qui che i dipendenti rimasti discutono, e ogni parola detta dai loro superiori viene ascoltata e interpretata con estrema attenzione. Se un’azienda non comunica o comunica male, le voci si diffondono e queste aumentano l’incertezza e nessuno sa più cosa sia vero. Ecco perché le aziende devono fare un annuncio chiaro, anche solo per dire quando verranno prese le prossime decisioni.

Alle persone che restano in azienda serve “resilienza”

Si tratta di quella forza interiore utile ad affrontare il cambiamento, serve anche illustrare loro le varie fasi emotive che attraversano e come uscirne. Una comprensione di cosa stia accadendo a livello psicologico aiuta a meglio controllare la propria reazione; creare una calma interiore consente una discussione obiettiva per esaminare le procedure, stabilire nuovi processi e pianificare il futuro.
I dipendenti devono poter dire la loro: in workshop di gruppo, i manager di linea possono dare ai propri collaboratori l’opportunità di essere coinvolti e di contribuire alla definizione dei nuovi processi. In particolare, i supervisori e i team leader – e non solo il top management devono dedicare del tempo ai propri collaboratori. Ascoltare le loro preoccupazioni, discuterne con loro il più possibile e prendere sul serio i loro feedback e le loro obiezioni. Perché solo chi sente di essere preso sul serio farà un buon lavoro e contribuirà a traghettare l’azienda verso il futuro.


Articolo apparso il 31.03.2024 su www.handelszeitung.ch con un’intervista di Tina Fischer a Pascal Scheiwiller, CEO di von Rundstedt & Partner Schweiz AG. Traduzione ed adattamento a cura di Marco Costantini, Managing Director von Rundstedt & Partner Lugano.

Il linguaggio del corpo

Gli esperti di comunicazione sostengono che se si chiede a qualcuno che cosa sia la comunicazione, la risposta nel 90% dei casi è: “la comunicazione è il modo in cui una persona parla, esprime i propri pensieri, bisogni, esigenze e punti di vista”.

Questo concetto in linea generale è corretto, ma la comunicazione è molto di più ed ha una componente estremamente importante che viene spesso omessa, una componente che esprime in modo molto più sincero e veritiero l’informazione che viene realmente trasmessa e non è legata né alle parole né al tipo di voce o tonalità. È sufficiente un’espressione del viso, uno sguardo, un gesto, un cambio di postura da parte del nostro interlocutore, per poterne comprendere il messaggio completo ed i relativi pensieri ed emozioni che ci sta comunicando e che non esprime per il tramite delle parole. Stiamo parlando del linguaggio del corpo o comunicazione non verbale. Chi conosce e sa leggere il linguaggio del corpo, ha il potere di comprendere fino in fondo se, il suo interlocutore crede realmente in quello che sta dicendo, se è sincero, oppure se mente spudoratamente utilizzando belle parole, bei discorsi ingannevoli, nascosti dietro a grandi sorrisi. Questo è possibile perché, questa componente della comunicazione è inconsapevole ed è pressoché impossibile controllarla, poiché sono le emozioni che prendono il sopravvento e si manifestano attraverso il corpo.  

Linguaggio del corpo ed emozione

Quando parliamo di linguaggio del corpo ci riferiamo a tutti quei micro-segnali che il nostro corpo trasmette involontariamente, che sono costituiti da gesti, postura, espressioni facciali, andatura, ecc. che mostrano le nostre emozioni. Le emozioni sono gestite dal sistema limbico che si occupa delle risposte emotive e comportamentali. Grazie al sistema limbico quando proviamo gioia, rabbia, tristezza, paura e tutte le altre emozioni, esse si manifestano nel corpo inviando segnali di cui non siamo consapevoli e che esprimono i nostri stati d’animo ed i pensieri ad essi legati.

Come interpretare il linguaggio del corpo

Per poter interpretare il linguaggio del corpo dobbiamo essere in grado di decifrare i messaggi che il nostro interlocutore ci invia. Innanzitutto, dobbiamo fare una distinzione tra linguaggio del corpo consapevole ed inconsapevole. Il primo si riferisce a quei segnali ed espressioni che utilizziamo in modo consapevole per rafforzare e veicolare la nostra comunicazione, per mantenere viva l’attenzione e/o creare empatia. Queste abilità nel comunicare vengono utilizzate spesso da politici, presentatori, oratori, formatori ecc.
Essi assumono posture erette che esprimono sicurezza, utilizzano in modo controllato le braccia e le mani, con movimenti aperti, se vogliono attrarre a sé il pubblico e allo stesso modo utilizzano posture più dominanti e movimenti di mani e braccia più secchi, chiusi e veloci se vogliono apparire incisivi ed elargire ordini.
Il linguaggio del corpo inconsapevole invece, è più comune in quanto la maggior parte delle persone, non ha le conoscenze e l’allenamento per controllare le risposte emotive del proprio corpo. Questi messaggi inconsapevoli li possiamo vedere in quasi ogni situazione della vita, gli esempi sono infiniti, ma prendiamone uno in particolare e vediamo quali sono le risposte a livello di linguaggio del corpo. Durante una riunione di lavoro il direttore comunica che l’azienda sta attraversando un periodo difficile, pertanto, a breve, se la situazione non migliora si dovrà ricorrere a tagli di personale. Questo messaggio inaspettato appena lo recepiamo ci fa inconsciamente spalancare gli occhi, dilatare le pupille, la nostra bocca si apre inspirando e tratteniamo il respiro per qualche istante, pieghiamo le spalle e corrucciamo la fronte. Tutto questo accade in modo inconscio e avviene in pochissimi istanti. Per meglio comprendere il linguaggio del corpo, vediamone alcuni esempi.

La mimica facciale

Per quanto il viso sia la parte più esposta, nasconde un mondo di messaggi di durata brevissima, ma di estrema importanza per la comprensione profonda del nostro interlocutore. A tutti è capitato di vedere una persona arrossire, impallidire o vederne il volto contrarsi. Queste sono le espressioni più evidenti e facili da notare che ci indicano in modo istantaneo l’emozione nascosta. Ma l’esperto in micro-espressioni facciali Paul Ekman ci insegna che con una buona conoscenza della materia e un po’ di pratica, è possibile decodificare tutta una serie di micro-espressioni, quei piccoli movimenti che durano pochissimi istanti e svelano le emozioni più nascoste.

  • Le sopracciglia che si sollevano per un istante e una dilatazione istantanea delle pupille, sta a significare paura.
  • Un ripiegamento degli angoli della bocca significa rimorso.
  • Un lato del labbro superiore che si incrina leggermente, significa disgusto.

Significato dei gesti

È importante premettere comunque che non possiamo basarci solo su di una micro-espressione piuttosto che su di un gesto o una postura per giudicare il nostro interlocutore, in quanto, dato che il linguaggio del corpo esprime le emozioni che stiamo provando, queste emozioni potrebbero non riferirsi a quanto detto da noi o dall’altro, ma potrebbero anche essere legate ad una sua situazione personale indipendente dal contesto. Per questa ragione è sempre importante osservare l’insieme dei messaggi che vengono trasmessi dal linguaggio del corpo di una persona ed eventualmente approfondire ponendo domande e osservandone le reazioni. Può capitare che se in una stanza fa molto caldo e un uomo si tocca la cravatta cercando di allargarla potrebbe fare questo gesto, perché ha molto caldo non perché sia in forte imbarazzo.

  • Toccarsi l’orecchio potrebbe significare che la persona sta mentendo.
  • Se quando una persona sta parlando alza leggermente la spalla, significa che non crede in quello che sta dicendo.
  • Dito puntato con sguardo opposto, maschera quello che sostiene o accusa.
  • Braccia incrociate sul petto può significare chiusura, disaccordo, ma attenzione a volte questa posizione indica anche che una persona è comoda e rilassata in quella posizione.

Postura e camminata

Infine, la lettura del linguaggio del corpo, può anche darci degli spunti sul tipo di personalità di una persona. In particolare, postura e camminata sono spesso correlati alla personalità di un individuo. Da esse possiamo capire se una persona è sicura o insicura, con una forte personalità o piuttosto debole.

  • Una postura diritta, aperta con camminata veloce a falcata, spesso indica una personalità forte e decisa.
  • Una postura diritta con movimenti morbidi, lo sguardo perso e la camminata un po’ distratta, indica una persona solare, che vive con la testa tra le nuvole e spesso è una persona molto creativa.
  • Una postura chiusa con spalle curvate in avanti, sguardo basso, passo lento che si trascina, può indicare una personalità debole, tristezza o depressione.

In conclusione

Conoscere e saper interpretare il linguaggio del corpo, oltre che essere molto utile per sé stessi, è soprattutto un fondamentale vantaggio nel mondo del lavoro, è una delle soft skills che tutti dovrebbero conoscere, poiché è la chiave per una buona comunicazione e una buona gestione delle persone, sia nei rapporti con i clienti che con i dipendenti, con i superiori e i colleghi.


Interessati ad approfondire questi temi? I prossimi 17 e 24 ottobre verranno approfonditi nel corso Cc-Ti “Il linguaggio del corpo”. Le iscrizioni sono aperte!

Articolo a cura di Luciana Mazzi, titolare di POWER LIFE ACADEMY, Lugano

Non esistono domande inutili

Chi fa domande conduce, questo è indiscutibile. Ma ciò che i dipendenti raccontano dei loro superiori durante le sessioni di formazione e coaching spesso sembra a mille miglia da questa verità.

Il Signor H. parla del suo capo, che fa costantemente domande, ma spesso H. ha l’impressione che non vengano strutturate in modo propositivo e quindi non portino a nessun esito costruttivo, per nessuno dei due.
Allora, forse, porre le “giuste” domande può rivelarsi più difficoltoso di come si possa pensare.
Facciamo un passo indietro e vediamo come si pongono i giornalisti, questi professionisti che vivono dell’arte di porre domande. Durante la loro formazione, imparano prima a porre domande e a far “aprire” le persone. Sanno che devono assolutamente trovare le informazioni chiave e che le troveranno nelle risposte degli interlocutori. Possiamo trarne ispirazione.

Essere preparati

Non basta, però, imparare a memoria un elenco di domande. Prima di lanciarsi, i giornalisti si preparano accuratamente sull’argomento che tratteranno e sullo scopo finale del loro colloquio. Sanno anticipatamente quali domande porre per mettere il loro interlocutore a suo agio, mostrano interesse per lui: l’intervistato si trova in un approccio corretto e rispettoso e collabora volentieri.

I giornalisti sanno anche come giocare sui punti interrogativi per mettere all’angolo qualcuno quando presumono, ad esempio, che ci sia uno “scheletro nell’armadio” (cioè informazioni importanti) e vogliono saperne di più (per i loro lettori). Bisogna affinare questo sesto senso, mostrare tatto, altrimenti l’interlocutore sfugge e si chiude.

Domande poste in modo scoordinato o non serio, senza empatia e con poca preparazione posso addirittura effettuare l’effetto contrario. Il nostro interlocutore mente, inventa, o porta il tema nella direzione a lui più affine, rendendo vano tutto il colloquio. Peccato!

Raccogliere informazioni? Sostenere? Controllare?

In qualità di dirigente e collaboratore all’interno dell’azienda, si combinano più funzioni e spesso vengono esercitate contemporaneamente. Le informazioni corrette sono alla base di una strategia vincente… tante occasioni per porre domande in modo mirato.

In qualità di responsabile gerarchico, porre domande aiuta ad assicurarsi che le informazioni circolino. La gestione di professionisti che spesso sono molto più preparati di voi nei propri campi di competenza, e che, attraverso le vostre domande, forniranno informazioni importanti, aggiornamenti sullo stato di avanzamento di un progetto, informazioni sul “polso di soddisfazione / critica” dei collaboratori, vi aiutano a verificare che gli obiettivi raggiunti siano in linea con quelli pianificati…

In qualità di specialista, potete, ponendo domande, verificare che la qualità di un prodotto soddisfi le aspettative e garantire l’efficienza del processo.

In qualità di mediatore, potete dimostrare il vostro interesse ponendo domande e quindi sottolineare l’identificazione e l’investimento riversato o percepito dai membri del team; le domande sono anche un valido strumento di gestione dei conflitti.

In qualità di coach, fare domande porterà a supportare lo sviluppo individuale dei collaboratori o colleghi. Chiedere informazioni sulle reciproche risorse personali e poi dare i giusti consigli, il giusto feedback, condividere una riflessione tempestiva.

In qualità di imprenditore, il quadro generale dell’organizzazione risulta più delineato. Un occhio più attento sul mercato e quindi più rappresentativo per la vostra azienda all’esterno. Le domande permettono di guadagnare la fiducia degli altri, sia internamente che esternamente, di rilevare aspetti fino ad allora sconosciuti all’interno dell’azienda e di stimolare il senso di responsabilità dei dipendenti.

In qualità di dipendente, fare domande consente, ad esempio, di assicurarsi che i passi siano in linea con gli obiettivi dell’azienda e di conoscere il margine di manovra rispetto ai processi innovativi e all’evoluzione della propria posizione.

Ognuno è chiamato a rivestire tanti ruoli in diversi contesti, funzioni e responsabilità: per ognuno di essi può essere molto utile porre la domanda giusta al momento giusto. È quindi essenziale prendersi il tempo necessario e adottare un atteggiamento aperto per ottenere risultati a volte anche inattesi.

Anche nella nostra pratica professionale dobbiamo esercitarci a porre le domande (anche a sé stessi) che ci permetteranno di raggiungere i nostri obiettivi nel rispetto dei nostri differenti interlocutori.

L’altro

Chi di noi potrebbe negare che non tendiamo a pensare di conoscere i dettagli delle cose prima ancora di porre le nostre domande? Sicuramente interroghiamo i nostri interlocutori, ma crediamo di conoscere già le risposte. Ascoltiamo prima noi stessi e poi gli altri… forse, e non con attenzione.

Tuttavia, in un mondo sempre più specializzato, non potremmo mai essere dei “tuttologi. Un collaboratore, un dipendente del servizio esterno, un conoscente persino, può rivelarsi la giusta persona di riferimento. In breve: scoprite cosa ha da dire ogni persona sul vostro cammino.

Apprezzare le risposte

Vedendo i giornalisti al lavoro sul piccolo schermo, possiamo chiederci se sarebbe possibile per noi fare lo stesso nella nostra pratica professionale. Alcuni giornalisti sono freddi e distanti. Il nostro sangue si congela nelle vene solo a vederli. Altri mostrano più calore umano e sembrano sinceramente interessati alla persona che stanno intervistando.
Dobbiamo aggiungere che ogni intervista ha le sue funzioni (vedi sopra). Sta a ognuno di noi definire l’obiettivo della conversazione. In generale, bisogna trovare un equilibrio tra prova di interesse e distanza professionale, tra cordialità e missione. Se avete imparato a porre davvero domande e domande reali, otterrete risposte più o meno utili. Considerate le risposte che vengono date come doni. Considerateli come una prova di fiducia da parte del vostro interlocutore. Non reagire alle risposte con delle critiche o rifiutandole (anche se a prima vista sembrano spiacevoli o diverse da quelle che vi attendevate).

Quando il tempo sta per scadere

Con l’aiuto di esercizio e autocritica, le persone sono in grado di destreggiarsi poi, tra le domande. La preparazione è la chiave per raggiungere questo obiettivo. Ma a volte dobbiamo condurre un’intervista sul posto, senza essere davvero in grado di rifletterci sopra e scandire una dinamica precisa. Oppure nuove informazioni cambiano il gioco proprio durante l’intervista. In questi casi, ci saranno molto utili alcune domande basilari e generali, purché ci limitiamo ad esse.

Un esempio:

  • Chiedi informazioni sull’obiettivo
  • Chiedi un aggiornamento
  • Chiedi (e ascolta) il parere del tuo interlocutore

Lo scopo di queste tre domande è quello di permettervi di avere successo anche in un territorio sconosciuto e poter comunque usufruire al meglio della situazione. In questo caso, ancora più che in altri contesti, è fondamentale ascoltare con attenzione.

Già gli antichi cinesi…

Già gli antichi cinesi dicevano che chi fa una domanda è stupido per cinque minuti, mentre chi non chiede rimane stupido per il resto della sua vita.


Fonte: WEKA, Equipe de rédaction, 13.6.22, adattamento Cc-Ti

L’arte della critica costruttiva e della “buona” comunicazione

Lo spirito critico, dal greco κριτικός (“che discerne”), è un atteggiamento riflessivo proprio di chi non accetta nessuna affermazione senza interrogarsi sulla sua validità e che considera una proposizione come vera solo quando è stata verificata, dove possibile, o quantomeno attentamente considerata. Quando pensiamo a una “critica”, però, spesso, questa parola assume con una connotazione negativa non considerando le sue diverse valenze: la critica può essere anche costruttiva (anzi lo dovrebbe essere) e volgere al miglioramento.

Cominciamo con un esempio: il vostro capo si avvicina chiedendo di preparare una presentazione per un incontro con un cliente. La consegnate. Poco dopo vi viene fornito un feedback, in cui si dice che non avete affrontato un punto che era considerato importante.

La critica

Se la mancanza sollevata nel feedback non è chiara o non la condividete, diventa costruttivo per entrambe le parti, cercare di comprendere con domande puntuali e condivisione di pensiero le reali priorità che dovevano venire espresse nel compito che era stato affidato.
Attuare poi quanto appreso renderà il lavoro più confacente alle esigenze aziendali.
Allo stesso tempo, il dirigente è tenuto ad esprimersi con modalità proattive chiare. Solo un reciproco rispetto e obiettivo comune potranno dare il risultato sperato.

Una “cattiva” gestione della critica può portare rapidamente alla nascita di un conflitto. Accettare le critiche è difficile per la maggior parte delle persone, sia professionalmente, sia socialmente. Occorre focalizzare la critica in un’ottica positiva. Spesso, permette di imparare e crescere.
François de La Rochefoucauld (scrittore e filosofo francese, 1613 – 1680) affermò: “pochi sono tanto saggi da preferire un benefico biasimo a una lode traditrice”.

Oltre a presentare il problema in modo propositivo, la critica costruttiva dovrebbe essere formulata quale spunto di miglioramento alla persona alla quale è rivolta.
Accade di frequente che le persone si sentano attaccate, anche se la critica voleva essere costruttiva, e considerano ogni osservazione come un attacco personale.
Un ottimale scambio di opinioni tiene conto di tutte queste, appunto, criticità.

Come accettare la critica costruttiva?

  • La persona e l’azione: la critica non è diretta contro di voi, ma riguarda un fatto o una situazione specifica. Quindi si consiglia di cambiare prospettiva e guardare il problema in modo obiettivo.
  • Ascoltare attentamente ciò che viene detto dal vostro interlocutore prima di reagire.
  • Essere riconoscenti: ringraziate l’interlocutore per i suoi suggerimenti e considerate quanto esposto come un supporto alla risoluzione di un problema comune.
  • Chiedere precisazioni: porre domande. Verificare di aver compreso correttamente la critica. Spesso i problemi sorgono solo a causa di incomprensioni.
  • Non difendersi: non giustificare il vostro punto di vista, ma spiegare con calma perché si è agito in un determinato modo.

La buona notizia: si può imparare

Quando si ricevono delle critiche, è consigliabile assicurarsi che “il linguaggio del corpo” non manifesti un rifiuto a priori. Evitate di incrociare le braccia sul petto e di alzare le ciglia, ancora prima di porvi in ascolto.
Se le argomentazioni del vostro interlocutore saranno comprensibili e convincenti, si potranno accettare con più facilità le critiche enunciate e attuare la proposta di miglioramento, qualora si presenti l’opportunità. Il confronto tra i metodi di gestione del problema/compito consentirà di trovare la soluzione ottimale per entrambi le parti.

Come formulare la critica costruttiva?

  • Non lasciarsi trasportare dalle emozioni: anche se qualcosa vi infastidisce, prendere tempo prima di criticare.
  • Restare obiettivi: rivolgere sempre le critiche alla situazione e non all’interlocutore.
  • Evitare i tormentoni: quando si esprime una valutazione, evitare parole come: sempre, spesso, ogni volta.
  • Mostrare comprensione: nella critica, occorrerebbe tener conto dell’altra persona, esprimendosi in modo appropriato (dicendo, ad esempio, “capisco il tuo punto di vista/argomento/approccio)”.
  • Presentare la critica in modo positivo: invece di affermare “non mi piace la tua idea“, si potrebbe cambiare prospettiva affermando: “grazie per averci esposto la tua idea. Non abbiamo ancora approfondito questo aspetto e quanto detto ci permette di abbracciare altri punti di vista”.

Relativizzare e difendersi dalle critiche ingiustificate

Può accadere che le critiche siano ingiustificate, quindi prive di fondamento. È possibile che la persona criticata accetti comunque la critica, come pure che affronti attivamente e, se necessario, vi si opponga. Ad esempio, se una persona è criticata ma non è la causa del problema, la critica è ingiustificata e questa forma di critica non è produttiva.
Chi accetta tacitamente tali situazioni rischia di diventare il “capro espiatorio” per tutte le problematiche future che possono occorrere.

Accettare una critica significa chiarire i punti erroneamente messi in discussione. È importante restare sempre al livello dei fatti e frenare le proprie emozioni. Difendersi o difendere la propria posizione, però, non significa “contrattaccare” nello stesso verso di chi ha mosso la critica.
Alcuni punti di cui tener conto:

  • Respirare: non reagire immediatamente ed emotivamente alle critiche, ma cercare di calmarsi per un momento.
  • Cercare un interlocutore: si può risolvere la discussione con chi ha mosso la critica o è meglio rivolgersi a una terza persona? Essa potrebbe fungere da mediatore.
  • Giustificare la decisione: spiegare in dettaglio e oggettivamente perché la critica è giunta al destinatario sbagliato.
  • Non essere ostinati: se si è arrabbiati a seguito di una critica, non è opportuno bloccare tutto ciò che l’interlocutore ha da dire sulla sua giustificazione.
  • Reagire in tempo: un chiarimento rapido può prevenire ulteriori critiche ingiustificate. In una situazione del genere, la gestione della critica è messa a dura prova, soprattutto se la capacità critica del proprio interlocutore non è particolarmente sviluppata.
  • Non portare rancore: la capacità di critica è caratterizzata anche dal fatto che si continui a lavorare con qualcuno, anche se si sono ricevute critiche in maniera ingiustificata.

Ma allora… è una questione di comunicazione?

La maggior parte delle persone si considera un buon ascoltatore. In realtà, gran parte delle persone non sanno ascoltare. L’entusiasmo per le proprie idee e la voglia di comunicarle non permette un vero ascolto e, quindi, non migliora la conversazione. Osservate se, in una conversazione, mostrate più entusiasmo per ciò che sentite o per i vostri pensieri. La maggior parte delle volte la voglia di parlare impedisce un ascolto attento. Seguire attivamente una conversazione è faticoso, richiede concentrazione e non porta una soddisfazione così immediata rispetto alla reazione immediata delle parole dette a fiume su di un argomento che ci sta a cuore.

Per diventare buoni ascoltatori, occorre sapere come porsi e come prestare attenzione. Uno dei metodi che si possono mettere in atto consiste nel non reagire immediatamente a ciò che viene detto, ma creare uno spazio di riflessione. Ciò impedirà ai pregiudizi o ad altre abitudini di pensiero di determinare una reazione impulsiva, che magari potrà rivelarsi errata per l’occasione. Allo stesso modo, una breve pausa può offrire l’opportunità di estrapolare dal discorso informazioni preziose, che altrimenti potrebbero andare perse. Superare le abitudini che si fossilizzano nella comunicazione interpersonale richiede degli sforzi. Quindi provate ad ascoltare attentamente il vostro interlocutore.

È utile porsi domande: sto davvero ascoltando per imparare qualcosa di nuovo o sto solo cercando una conferma della mia opinione?
Un buon indizio è la volontà di conoscere posizioni opposte. Se non si mostra una predisposizione all’ascolto attivo, almeno in linea di principio, la nostra comunicazione risulterà imparziale e chiusa.
Anche in azienda valgono gli stessi principi, per migliorare la comunicazione interna con i dipendenti occorre sviluppare ed “allenare” l’ascolto attivo.

Manifestare partecipazione per la vita dei collaboratori, valorizzare i loro interessi, renderli partecipi: 3 azioni di ascolto e coinvolgimento che incrementano la motivazione e la soddisfazione del team.

Fortunatamente si può affermare l’arte dell’ascolto può essere appresa. Un primo passo è chiedersi, durante una conversazione, se si è attenti all’interlocutore dinnanzi a noi. Se ci stiamo pensando… la risposta è: non abbastanza!
È utile iniziare dal contesto privato ed “osservarsi” quanto si ascolta durante un pasto con amici. Stabilire un primo obiettivo, come, ad esempio, cercare di ascoltare per almeno l’80% del tempo. In questo modo ci si esercita prestando attenzione all’impulso di intervenire interrompendo l’altra persona, restando in ascolto, appunto.
Anche se si affrontano temi seri (problemi personali, ecc.) è importante restare concentrati sull’altro: si tende, spesso, a imporre le proprie esperienze su quelle degli altri e poi a dare consigli frettolosamente.
Tre termini fondamentali sono compassione e comprensione, ma anche moderazione: ciò si traduce nel mettersi sullo stesso piano dell’interlocutore, porre domande se qualcosa non è chiaro, mantenere il contatto visivo, non prendere sul personale le critiche, osservare le emozioni.

Attenzione al multitasking!

Il multitasking (ossia lo svolgere più attività più o meno contemporaneamente) non solo può rendere meno efficienti, ma danneggia anche il ruolo di uditore. Per restare concentrati sul soggetto, si comincia in modo progressivo, come ad esempio non rispondendo insieme a un’e-mail mentre si parla al telefono. Si dovrebbe prestare sempre attenzione al proprio interlocutore, per valorizzarlo, per mostrare empatia, per comprendere a fondo il suo messaggio.

Panoramica delle critiche positive e negative

Fonte: WEKA 3-4.2022, adattamento Cc-Ti

Come prendere le decisioni giuste?

La vita è la somma di tutte le nostre scelte (A. Camus)

Il fatto che ogni individuo prenda in un solo giorno circa 20’000 decisioni non basta per renderci tutti degli esperti in materia di prese di posizione. A dimostrazione di questo, spesso ci risulta difficile, se non quasi impossibile, compiere alcune scelte. L’ostacolo maggiore è dato dal fatto che non si può essere certi anticipatamente, se una determinata decisione sarà “buona” o “cattiva.
Per raggiungere l’obiettivo servono metodi e tecniche appropriati, e solo essendo consapevoli di come si è giunti ad una determinata conclusione, si possono trarre insegnamenti utili da una decisione sbagliata.

Alcune scelte possono essere prese con facilità perché rappresentano esclusivamente una valutazione dei vantaggi delle diverse opzioni, altre invece sono più complesse e ci mettono di fronte a conseguenze incerte, che si verificheranno secondo una data probabilità.

Nel management: il decision making

Esistono molte scuole di pensiero e diverse correnti organizzative che suggeriscono metodi decisionali efficaci ed efficienti. Non possiamo però prediligere un vero e proprio “schema” ufficiale al quale attenersi, poiché ognuno degli strumenti esistenti possiede proprietà che possono adattarsi a modelli specifici.

È possibile, invece, identificare facilmente le fasi principali del decision making, che sono alla base del processo decisionale di base. In sintesi:

  • Definizione della situazione
  • Ricerca di alternative
  • Selezione della soluzione

A livello operativo può essere arduo prendere decisioni ponderate a causa, spesso, della mancanza di tempo da dedicare all’analisi dei problemi prima ancora di trarre le soluzioni.
Una più dettagliata e schematica impostazione del processo decisionale dovrebbe prevedere:

  1. Identificazione e descrizione del problema
  2. Analisi dei fattori che causano il problema
  3. Individuazione delle possibili strategie e soluzioni
  4. Scelta della soluzione migliore
  5. Definizione del piano di azione
  6. Individuazione delle responsabilità
  7. Implementazione della soluzione
  8. Verifica dei risultati

Uno strumento utile da correlare a questo modello di decision making è sicuramente il “registro delle decisioni”. Di cosa si tratta?

È un documento (cartaceo/ elettronico) che può essere utilizzato per tracciare tutte le decisioni prese durante lo svolgimento di un progetto/nella normale routine aziendale.
Le decisioni vengono prese in vari momenti: durante le riunioni, attraverso scambi di e-mail, durante incontri e colloqui, ecc.. . Questa traccia permette di “archiviare” in modo schematizzato quando una decisione è stata presa, chi l’ha presa e sulla base di quali elementi (data della decisione, persone che hanno partecipato alla presa della stessa o l’hanno condivisa, descrizione della tematica e della decisione, ev. informazioni complementari da conoscere).

Il metodo “FORDEC”

Un’altra metodologia degna di nota è quella sviluppata dalla NASA a supporto dell’industria aerospaziale (e poi applicata anche ad altri contesti, come nel management), denominata FORDEC. Il procedimento è semplice e consiste in una lista di controllo che può essere impiegata affidabilmente anche sotto stress; circostanza in cui è notoriamente più difficile pensare lucidamente.
Ecco come funziona e le domande della check list a cui occorre dare risposta:

F = Fatti
Quali sono i fatti? È importante non sottovalutare questo punto, rappresentando accuratamente gli avvenimenti senza emettere giudizi di valore, in modo da fornire un quadro quanto più completo possibile della situazione iniziale.

O = Opzioni
Dopo aver annotato sinteticamente i fatti, bisogna pensare alle opzioni disponibili, avendo cura di non limitarsi esclusivamente a quelle ovvie. È fondamentale prendersi il tempo necessario per scrivere idee non convenzionali, che potranno successivamente sempre essere eliminate se non ritenute idonee.

R = Rischi e benefici
Ogni possibile opzione va poi contrassegnata con due frecce (una a sinistra e una a destra). Sotto quella di sinistra vanno elencati tutti i pericoli e gli inconvenienti che quella data scelta comporterebbe, a destra invece i vantaggi e le opportunità. Così facendo è possibile confrontare il rapporto rischio/beneficio di ogni possibilità, avendo una visione d’insieme che permetta di evitare una sopravvalutazione dei pericoli e una trascuratezza delle occasioni.

D = Decisioni
Una volta raccolte tutte le informazioni bisogna prendere una decisione senza procrastinare. In caso di dubbio, si può chiedere consiglio ad una persona esterna, che può valutare la situazione con maggiore obiettività e distacco.

E = Esecuzione
A questo punto si tratta di agire tempestivamente. Una volta stabilito cosa fare va definito il come, prendendo nota dei passi concreti con i quali si vuole raggiungere l’obiettivo. Nelle decisioni di gruppo occorre inoltre chiarire le responsabilità.

C = Controllo
Il modello FORDEC non è statico nel tempo. In caso di progetti a lungo termine, bisogna controllare periodicamente se le decisioni prese sono ancora attuali e stanno avendo l’effetto sperato. In caso contrario vanno apportate delle correzioni. Va sempre considerato che nuovi fatti coincidono con una nuova check list FORDEC.


Fonte WEKA, 2021; adattamento e sviluppo Cc-Ti

La Cc-Ti propone numerosi corsi di formazione, uno dei quali è dedicato alla tematica del ‘decision making’. Questa proposta formativa è pianificata per il mese di settembre: “Prendere decisioni difficili“. Nel nostro sito web troverete tutti i dettagli.

Il Chief Happiness Officer e le organizzazioni positive

È innegabile che nel mondo delle organizzazioni è in atto un cambiamento. In questo contesto storico di grandi sfide sociali, politiche ed economiche sempre più aziende a livello mondiale perseguono, oltre ai risultati di business, degli obiettivi ad impatto sociale positivo. Fioriscono nuovi modelli di economia e di organizzazione di impresa con obiettivi sociali ed ecosistemici. Nelle università più prestigiose come Harvard, Berkeley e Yale vengono proposti corsi inerenti la “Scienza della felicità”.

In un’organizzazione felice, il team lavora per lo stesso obiettivo.

Il benessere e la felicità in azienda sono ormai diventate una necessità per le organizzazioni. Diversi studi e ricerche testimoniano come aumentare il benessere aziendale e la felicità del proprio capitale umano ha un ritorno economico importante. Una recente ricerca ha infatti dimostrato che la felicità e la soddisfazione sul lavoro dei propri collaboratori aumentano la produttività del 12% (Saïd Business School). Per le aziende che desiderano assicurarsi lunga vita e garantirsi il successo si tratta di passare dal modello organizzativo convenzionale al modello culturale delle organizzazioni positive. I vantaggi per le aziende che aderiscono a questo modello sono molteplici: oltre all’aumento della produttività aumentano anche la capacità di innovare (+300%, HRB) e il senso di appartenenza (+44%, Gallup), diminuendo allo stesso tempo il turnover. Se tutto questo non bastasse Shawn Achor (scrittore statunitense conosciuto per la sua filosofia della psicologia positiva) nel suo libro “Il vantaggio della felicità” ci conferma che, dagli studi condotti ad Harvard, la formula che da sempre ci accompagna “Sarò felice quando avrò successo” risulta errata e deve essere costituita con quella opposta: “Avrò successo quando sarò felice”.

Il Chief Happiness Officer

Ma come fare per diventare un’organizzazione positiva e coniugare così business a benessere? È qui che entra in gioco la figura del Chief Happiness Officer (CHO). Questa figura emergente accompagna organizzazioni e aziende nella trasformazione culturale necessaria. Il CHO è un esperto di organizzazioni positive e possiede le competenze e abilità necessarie per accompagnare organizzazioni, team e persone in un processo di miglioramento. Utilizza un approccio integrato che fa interagire tra loro i processi organizzativi, i comportamenti e la cultura aziendale generando coerenza. Il CHO non è quindi un ruolo puramente simbolico ma strategico, per questo motivo è importante che venga riconosciuto nella sua funzione. La sua formazione gli permette di avere una visione dell’organizzazione nella sua complessità per capire e interpretare il suo costante cambiamento. Non dimentichiamo che l’azienda è un organismo vivente in continua evoluzione.

Le organizzazioni positive

“L’organizzazione positiva è un luogo in cui le persone fioriscono in relazione con altre e ottengono risultati individuali e collettivi che hanno senso e superano le aspettative” (D. Di Ciaccio e V. Gendinari, “La Scienza delle organizzazioni positive”). Un’organizzazione positiva ha tra le priorità strategiche il benessere del proprio capitale umano e la positività. A questo punto mi sembra necessario chiarire alcuni elementi chiave della “Scienza della felicità”, delle organizzazioni positive e del CHO. Per prima cosa il capitale umano: il capitale umano non indica unicamente i collaboratori dell’azienda, come spesso erronamente si pensa, bensì tutte le persone che hanno a che fare con l’azienda: fornitori, clienti, stakeholders sul territorio. Questo significa avere una visione di insieme che permetta di scegliere, disegnare e gestire pratiche e processi che generino positività, felicità e benessere.

La definizione di felicità a cui siamo abituati a pensare è quella di un momento di piacere in relazione con fattori esterni, la teoria della felicità edonica. C’è però un’altra teoria studiata dalla Scienza della felicità, ed è la felicità eudaimonica. Una felicità cioè che può e deve essere ricercata e costruita in modo volontario, scegliendo alcune pratiche e allenandole con costanza nel tempo. È in quest’ottica che la felicità entra in azienda.

Un altro mito da sfatare è che la felicità dei collaboratori passa unicamente da quelle pratiche rivolte direttamente al loro benessere, che è sicuramente una cosa necessaria ma non basta. Bob Chapman (CEO di Barry-Wehmiller) dice: “La figura del capo è più importante per la salute di quanto lo sia il medico di base. Se miglioriamo le relazioni sul lavoro ci ammaliamo meno e ci guadagniamo tutti.”

I leader sono infatti delle figure fondamentali, non esistono organizzazioni positive senza leader positivi. Il CHO accompagna i leader a diventare leader positivi in grado di sostenere e guidare i collaboratori e l’azienda.

I leader positivi saranno poi in grado di creare relazioni di fiducia con i collaboratori, favoriranno la crescita personale e la responsabilità di ognuno. Infine anche l’idea che per realizzare questo
cambiamento occorrano grossi investimenti finanziari è da smentire. Per fare sentire i propri collaboratori partecipi, coinvolti, soddisfatti non sono necessari grossi investimenti ma bastano alcune pratiche ben calibrate e costantemente monitorate. Ricordiamoci inoltre che per innescare un cambiamento così importante è necessario procedere a piccoli passi e con tempi adeguati. Sebbene la neoplasticità del cervello sia dimostrata occorre però dagli il tempo necessario per adeguarsi. Forzare un cambiamento culturale significa andare incontro ad un fallimento.

Il CHO è preparato, conosce i livelli evolutivi e sa portare i giusti cambiamenti adeguandoli all’azienda in cui opera e ne controlla costantemente l’effetto. Se per le grandi organizzazioni occuparsi della felicità in azienda è ormai una scelta necessaria, per le piccole e medie imprese un CHO quale consulente, che operi a stretto contatto con i leader, si può rivelare una scelta vincente.


La top ten dei Paesi più felici al mondo

Le Nazioni Unite hanno stilato una classifica composta dalle Nazioni più felici al mondo, che si distinguono per condizioni di vita e felicità diffusa tra gli abitanti. È quanto emerge dal “World Happiness Report”, dove la Svizzera si classifica al terzo posto, dopo Finalandia e Danimarca. In questo documento si analizzano 158 nazioni e tiene conto di diversi fattori, quali: reddito pro-capite; aspettativa di vita; tasso di criminalità e corruzione; livello di istruzione e tasso di occupazione.


Approfondimento sul tema
Nelle risorse umane definiamo normalmente tre “pilastri” che abbracciano questa disciplina: il team building, la formazione e il benessere del dipendente. Quando questi tre elementi sono allineati possiamo parlare di «azienda felice». La Cc-Ti ha dedicato un webinar a questo tema lo scorso luglio. È possibile rivedere l’evento e approfondire quanto emerso tramite questo link.

Articolo a cura di Monica Garbani-Nerini, CHO e collaboratrice del Segretariato CFC / FSEA

Tips di ‘business etiquette’

Il giro per il mondo… per quando torneremo a viaggiare e ad interfacciarci in modo “reale” e non virtuale.

Organizzeremo viaggi d’affari e accoglieremo delegazioni provenienti da Paesi stranieri. Come comportarci?

Cina

Nei contatti di business è importante arrivare puntuale agli incontri, il ritardo potrebbe essere percepito come estremamente irrispettoso. Salutare in cinese prima di iniziare la discussione è sempre apprezzato. È consigliato, inoltre, limitarsi a salutare verbalmente, invece di stringere la mano. Abbracciarsi o baciarsi non è comune in Cina, è sufficiente un leggero cenno col capo.

Giappone

Referenti e vertici dell’azienda devono essere convinti fino in fondo della fattibilità dell’operazioni, per questo occorrono anche diversi incontri.
Nelle riunioni non bisogna sedersi in un posto qualsiasi.
Il posto che sarà assegnato è determinato in base alla posizione nella gerarchia aziendale, è tradizione mettere il “leader” alla testa del tavolo. Se siete ospite sarete guidato fino al vostro posto. Durante la riunione verranno offerte delle bevande rinfrescanti non alcoliche. Verranno proposte ai superiori prima che ai sottoposti. Non bisogna iniziare a bere prima che del “leader” designato.

Turchia

È importante evitare di essere informali, anche se si sta sviluppando un rapporto personale. Gli incontri iniziali non si concludono quasi mai con delle decisioni, ma servono per conoscersi e discutere. Non cercare quindi di limitare la discussione solo agli affari, ma aspettarsi anche alcune domande personali.
Ci si saluta con una stratta di mano tra uomini, mentre bisogna attendere che le donne tendano la mano prima di porgere la propria.

Grecia

Considerare l’importanza della società: le famiglie e gli anziani rivestono un ruolo determinante nelle gerarchie sociali. Se la puntualità non è caratteristica della cultura greca, ci si aspetta dagli stranieri che siano in perfetto orario, anche se la controparte greca potrebbe avere un ritardo.

In America Latina

È consuetudine allacciare una relazione personale prima di entrare in affari. Durante le riunioni è possibile che si parli della famiglia e di altri aspetti personali. Le small talks hanno lo scopo di conoscere il partner commerciale, farsi un’idea preliminare della persona con la quale si intende intraprendere i propri affari e costruire, possibilmente, prima un rapporto di fiducia.

Focus su creatività, flessibilità e problem solving

Ribattezzate ‘soft skills’, sono quelle abilità cognitive, relazionali e comunicative che permettono all’individuo di interagire al meglio con gli altri. Una riflessione in merito.

In un’ottica aziendale, vi sono alcune caratteristiche personali che risultano importanti poiché influenzano il modo in cui ci si interfaccia, di volta in volta, alle richieste delle persone e dell’ambiente che ci circonda. Le ‘soft skills’ sono dunque quelle peculiari abilità con cui un individuo si relaziona in modo efficace e produttivo verso gli altri. Non parliamo di competenze tecnico-specialistiche, ma del valore quale “plus” che una persona possiede in modo innato e che matura con le esperienze e allena con la pratica, in cui ricadono: l’attitudine al lavoro in team, le competenze comunicative, l’etica del lavoro, la gestione del tempo, la flessibilità, la creatività, l’empatia, e così via.

Esse risultano particolarmente attuali in ambito lavorativo e di business. Sta prendendo piede una rinnovata cultura aziendale che prevede un forte investimento sulle competenze trasversali dei collaboratori, imprescindibili per la produttività e per un più sano clima aziendale.
Vi sono anche studi che dimostrano quanto il successo di un lavoro a lungo termine dipenda dalla padronanza delle soft skills, che sostengono l’inserimento professionale e supportano l’individuo nella comunicazione e nella vita quotidiana (professionale e privata).

Un po’ di ordine

Le diverse ‘soft skills’ si possono riassumere e differenziare in due macro categorie:

  • interne: ossia il modo in cui ci si percepisce. Rientrano qui elementi come la flessibilità, la creatività, la perseveranza, la fiducia in sé stessi, il problem solving, ecc..
  • esterne: riguardano come ci si confronta con gli altri, le abilità comunicative, la capacità di lavorare in gruppo, la leadership e la gestione dei conflitti.

Come si acquisiscono?

Se pensiamo che la maggior parte del comportamento umano si apprende con l’osservazione degli altri, è possibile affermare che i nostri comportamenti siano modellati sulla base delle interazioni sociali. Esse possono essere impiegate indipendentemente dalle mansioni tecniche di una posizione lavorativa. Ciò permette alle persone di adattarsi ai diversi contesti e ambienti e fronteggiare ostacoli, cogliendo opportunità.

Usare le ‘soft skills’ oggi

Dopo aver evidenziato quanto siano importanti per il mondo del lavoro queste competenze trasversali, ed aver constatato che è possibile apprendere ad affinarle, possiamo investire nella formazione puntuale per meglio imparare ad utilizzarle. I corsi di formazione della Cc-Ti vanno in questa direzione. Ecco una carrellata delle nuove proposte formative della Cc-Ti per i prossimi mesi!