Dare più senso al lavoro

Il tema della sostenibilità è centrale per la Cc-Ti, ne abbiamo parlato a più riprese, organizzando eventi, corsi e scrivendo numerosi approfondimenti. Vi proponiamo un’intervista a Heinz Zeller, Head of Sustainability and Logistics di Hugo Boss, che presenta il punto di vista di una grande azienda del settore della moda, dove la sostenibilità incide molto sulla reputazione del marchio. Inoltre la responsabilità ambientale e sociale è uno stimolo all’innovazione. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e rileggete anche la posizione della Cc-Ti in merito.

Signor Zeller, per quale motivo Hugo Boss ha creato il reparto “sustainability” di cui è il responsabile?

I primi passi sono stati fatti più di dieci anni fa. Allora il tema erano i rischi sociali nella supply chain come pure la possibile presenza di sostanze pericolose nei vestiti e per questo abbiamo iniziato a consultare degli esperti della sostenibilità. Poi nel 2012 era pronta la nostra road map della sostenibilità aziendale integrata concernente coerentemente ogni reparto, sia l’intera supply chain, lo sviluppo dei prodotti, sia le risorse umane ed il facility management.

Dove inizia esattamente la vostra sostenibilità?

Le persone desiderano che inizi all’origine, cioè dalla materia prima. Un compito esigente; ma lo stiamo realizzando. Inoltre abbiamo già iniziato a realizzare pienamente la sostenibilità per quanto attiene la produzione di cotone. Dopodiché anche i nostri imballaggi sono diventati più piccoli, con materiali certificati che sono sia decomponibili che riciclabili.

Cosa incide di più per Hugo Boss, la sostenibilità sociale o quelle ambientale?

In sostanza rispondo per tutto il settore della moda: prima viene la sostenibilità sociale, poi subito dopo il benessere degli animali, ancor prima dell’impatto ambientale. Ma importanti sono tutti e tre gli aspetti. Rinunciamo ad ogni prodotto di pelliccia, usiamo soltanto delle pelli ma che non siano di provenienza” esotica”. Riguardo le piume usiamo solamente materiali certificati per garantire una protezione massima degli animali. Abbiamo abbandonato anche la lana di angora.

Ovviamente il settore della moda è sotto stretta osservazione dagli animalisti ed ambientalisti.

Abbiamo discusso ampiamente sia con le categorie citate sia con tutti gli altri stakeholder e abbiamo loro dimostrato i nostri sforzi riguardo la sostenibilità. Dopo vari incontri e discussioni abbiamo potuto implementare delle misure condivise e l’intensa attenzione degli interessati menzionati è diminuita. Integrare la sostenibilità è un importante passo strategico.

Come stabilisce l’equilibrio della sostenibilità sociale e ambientale con le esigenze economiche?

Cerchiamo una collaborazione a lungo termine con diverse istituzioni o organizzazioni e ditte specializzate per sviluppare delle soluzioni innovative. Inoltre trasformiamo, per esempio, l’impatto ambientale in cifre finanziarie cioè ci chiediamo quanto grande o piccolo sia un tale impatto in termini di costi monetari. E così possiamo capire sia gli impatti e sia gli investimenti necessari per diminuire fenomeni negativi riguardo la sostenibilità.

Spesso si sente la seguente affermazione: chi trascura la sostenibilità avrà degli svantaggi economici pesanti.

Piuttosto direi che oggigiorno la sostenibilità significa un cambiamento necessario di pensiero. Nel settore della moda è necessario per i marchi: c’è il bisogno di un’alta qualità legata alla sostenibilità che da parte sua nel frattempo è ben radicata nelle teste della popolazione. Perciò ci vuole un’innovazione il cui stimolo è, appunto, la sostenibilità. Questa da più senso al lavoro, ai prodotti.

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future.

Come si definirebbe questo senso?

I migliori talenti cercano sempre un senso nel lavoro che fanno. Vogliono avere delle visioni incentivanti del loro lavoro di cui, per essere concreti, fa parte proprio la sostenibilità. Questa implica una vita migliore in ogni senso.

Lei è anche responsabile della logistica di Hugo Boss. In quale misura questa può migliorare la sostenibilità ambientale dell’intera impresa?

Le faccio un esempio che concerne il trasporto di materiale dalla Cina: usiamo la nave o l’aeroplano? Nel mezzo di queste due soluzioni si trova il treno che è più costoso della nave ma anche più veloce e molto meno costoso dell’aeroplano – ed il suo impatto ambientale è basso. Alla fine una soluzione ideale per l’ambiente, dopo un investimento iniziale, porta spesso anche a notevoli risparmi economici, cioè riguardo gli operating costs.

Le grandi aziende hanno senz’altro i fondi per realizzare conseguentemente la sostenibilità. Le PMI invece fanno spesso fatica a trovare mezzi e risorse.

Aziende che vengono fondate oggigiorno sovente già nascono, per così dire, con l’idea della sostenibilità indipendentemente dalla loro grandezza. Il settore della moda può contribuire alla sostenibilità, fra l’altro, anche tramite la digitalizzazione che riduce il tempo per realizzare delle collezioni, con meno impatti ambientali grazie ad un minor e più preciso uso dei materiali. Studi del mondo economico hanno evidenziato che un leader nella sostenibilità diventa più facilmente un leader dell’innovazione e sopravvive a lungo termine.

Qual è la sua visione della sostenibilità futura?

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future. E tutto ciò, fra l’altro, per la sopravvivenza delle aziende nel mondo economico.

Lavoro: trasformazione sociale e digitale

Vogliamo riproporvi la nostra posizione sul tema della trasformazione sociale in relazione alle nuove forme di lavoro. Si parla di generazione X e Y, di baby-boomers, ma anche di formazione e digitalizzazione. Un mondo che cambia e che offre spunti per nuove opportunità per le aziende.

Un famoso adagio recita che il lavoro nobilita l’uomo. Oggi diremmo piuttosto che, almeno in parte, l’uomo trasforma il lavoro e che lo rende o cerca di renderlo in qualche modo più consono alle esigenze di vita, attuali che si sono pure profondamente trasformate negli ultimi decenni. La definizione di lavoro è mutata fortemente nel tempo, come spiegato nell’articolo “Per una nuova cultura del lavoro” apparso su Ticino Business di maggio 2017, anche se resta uno dei perni centrali della vita, sia per le nuove leve che per chi ha già molti anni di esperienza sul campo. Ma il mondo del lavoro, da sempre in trasformazione, sta conoscendo mutamenti repentini e sono nati, stanno nascendo e nasceranno nuovi modelli di lavoro sempre più diversificati, grazie o a causa delle molte possibilità offerte dalla tecnologia. In questo contesto è ovviamente di particolare attualità la questione demografica, con le sue importanti implicazioni sull’aspetto previdenziale. Molte possibilità, molte innovazioni, ma paradossalmente una situazione complessiva che rischia di essere sempre più complicata e caratterizzata dall’esigenza di soluzioni “su misura”, non solo per le aziende ma anche per le lavoratrici e i lavoratori.

I baby-boomers e le nuove leve

Recentemente è stato pubblicato il nuovo documento dell’Ufficio cantonale di statistica (USTAT) denominato “Scenari demografici per il Cantone Ticino e le sue regioni, 2016-2040,” il quale ci fa riflettere su come si presenta e come evolverà la struttura della popolazione nel nostro Cantone. Fa riflettere il fatto che la popolazione ticinese invecchierà e attorno al 2035 la generazione del baby-boom si ritroverà nella fascia degli ultrasessantacinquenni. Essi saranno quindi già in pensione, oppure potranno continuare a lavorare secondo i nuovi modelli di lavoro che si stanno delineando in questi anni. In pratica tra 20 anni potremmo avere una eterogeneità di età di persone al lavoro che probabilmente non si è mai vista nella storia! Perché accanto a una parte di loro ci saranno la generazione Y (nati tra il 1982 e il 1996), che nel 2035 avranno tra i 40 e 50 anni, e le nuove leve della generazione Z.

Per trarre il maggior numero di vantaggi da questi cambiamenti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa.

Le nuove generazioni intendono il lavoro diversamente

Il quadro è quindi quello di una crescente diversità di età sul posto di lavoro e questo implica, già adesso, una varietà di modelli lavorativi. Il concetto dello stesso posto di lavoro per una vita e sempre a tempo pieno è oramai sempre più rimesso in discussione oggigiorno. E non solo per la vera o presunta precarietà, ma anche per la volontà delle lavoratrici e dei lavoratori. La tecnologia ha avuto un grande impatto sulle società e forse la generazione Y è la prima che ha interiorizzato così profondamente le possibilità che essa fornisce. Quella che un tempo era solo precarietà, oggi viene vista anche come flessibilità, con un’accezione positiva nel senso di una nuova possibilità di organizzare la propria vita e di svilupparsi in maniera poliedrica. Senza negare che vi siano problemi in questo processo di cambiamento, non va dimenticato il rovescio positivo della medaglia che ci sta portando verso modelli di lavoro sempre più diversificati e individualizzati. Questo porterà anche i datori di lavoro ad affrontare nuove sfide. Occorrerà pensare in maniera diversa per attrarre e mantenere i giovani talenti. Al contempo bisognerà trovare un equilibrio interno di gestione tra loro e i colleghi di generazioni diverse, abituati a un modo di approcciarsi al lavoro magari più tradizionale. La gestione di nuovi modelli di lavoro, e nuovi modelli di business in generale, è un compito affascinante ma al contempo molto impegnativo per le aziende, perché la rimessa in questione di molte cose date per acquisite è molto profonda e tocca tanti ambiti.

Una nuova cultura aziendale

Per riuscire a cavalcare e non subire questi cambiamenti e per trarne il maggior numero di vantaggi per tutti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa. Questo va ben oltre la gestione del tempo parziale o del lavoro flessibile, c’è la necessità di ragionare, nel limite del possibile dell’attività condotta dalla propria azienda, a modi diversi di intendere la presenza sul luogo di lavoro e gli orari in cui esso viene svolto. Si può pensare a forme di collaborazioni diverse con i propri collaboratori come l’attività di free-lance, o concedere che essi possano svolgere più incarichi. Anche la possibilità di congedi che vanno oltre gli stop classici come quelli per maternità saranno necessari per motivare e mantenere in azienda le nuove generazioni. Si lavorerà più a lungo ma in modo probabilmente diverso. Come Cc-Ti siamo coscienti che quanto sopra esposto non è di facile attuazione e dipende da moltissimi fattori, avantutto le strutture aziendali e i modelli di business, che sono molto differenti da azienda a azienda, anche nello stesso settore. Specialmente in contesto caratterizzato da continui e repentini mutamenti e un aumento della concorrenza globale. Ma siamo fiduciosi che le aziende sapranno raccogliere anche questa sfida, come hanno dimostrato di saper fare in tempi recenti gestendo al meglio gravi crisi. Certo è che anche il contesto politico generale deve rendersi conto dei mutamenti e aprirsi a soluzioni nuove, senza arroccarsi sulla difesa a oltranza di modelli ampiamente superati dalla realtà del terreno. Non si tratta di far saltare tutte le regole, anzi. Ma quelle che ci sono devono corrispondere alle esigenze reali espresse da chi lavora.

Il valore della formazione

Abbiamo sempre considerato la formazione una parte importante della vita di ogni azienda. Non a caso da anni offriamo ai nostri associati la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di corsi per migliorare le conoscenze del proprio capitale umano. Ma il valore che assumerà la formazione negli anni a venire travalica quanto considerato in passato e assumerà una rilevanza ancora più strategica. Questo perché collaboratrici e collaboratori dovranno costantemente rimanere al passo ad esempio con l’evoluzione tecnologica, per sfruttarne al meglio le potenzialità. Il gioco di squadra fra datori di lavoro e dipendenti è fondamentale in quest’ottica, soprattutto per la generazione nata prima degli anni ‘80. Mentre per le nuove leve l’attenzione per l’acquisizione di competenze tecniche sarà una spinta importantissima per la considerazione e la soddisfazione verso il proprio lavoro.

Le sfide legislative e previdenziali

Abbiamo un diritto del lavoro pensato per un mondo che è già molto cambiato. Si veda ad esempio le “nuove” regole della Seco sul modo in cui si deve registrare il tempo di lavoro. Esse sono sì frutto di un compromesso, ma sono già vecchie perché pensate per modelli di business più rigidi di ciò che sta avvenendo sul terreno. Disposizioni coraggiose e al passo con i tempi avrebbero dovuto essere di altro tenore. Il che non significa sdoganare abusi o liberalizzare in modo selvaggio, bensì tenere conto del fatto che l’economia oggi è molto più complessa e ha esigenze di operatività ben diverse rispetto a qualche anno fa. Ovviamente in questo contesto va ripensato anche il metodo di finanziamento della previdenza, tema di grande attualità non solo in Svizzera ma in tutto il mondo occidentale. La riforma 2020 su cui si voterà prossimamente pensa al futuro assumendo che le nuove generazioni faranno come le precedenti, solo più a lungo. E questo è probabilmente un punto debole della riflessione. Si lavorerà più a lungo, forse, ma comunque in modo diverso e questo purtroppo non è stato preso in considerazione. Come si farà con i “buchi contributivi” magari dati da un periodo di stop oppure per un periodo lavorativo all’estero, che con la moderna mobilità potrà essere sempre più frequente? Tanti quesiti che i 70 franchi in più di rendita proposti per l’AVS non potranno risolvere. La previdenza professionale, ma soprattutto quella facoltativa del terzo pilastro dovranno probabilmente assumere maggiore importanza, ma definire come è, occorre ammetterlo, un compito assai arduo.

La gestione del cambiamento sarà fondamentale

Le nuove forme di lavoro saranno trainate da cambiamenti di ordine demografico e sociologico importante e l’unico punto fermo che al momento si può intravvedere è che ci saranno probabilmente sempre meno punti fermi. Sembra un paradosso, ma è così e non è per forza solo negativo. In questo senso la gestione del cambiamento in azienda sarà vieppiù un tema caldo per dirigenti e collaboratrici e collaboratori. Imparare ad accettare il mondo che cambia e muoversi con lui è sicuramente una buon via per mantenersi al passo con i tempi. Essere in sintonia con il momento storico in cui si vive è quindi un obbiettivo da tenere bene in vista per la navigazione nelle acque imprevedibili dei nostri giorni.

Interessati ad approfondire maggiormente il tema?
Scaricate il dossier tematico sulle nuove forme di lavoro, pubblicato sull’edizione di maggio 2017 di Ticino Business, cliccando qui.

“La sostenibilità deve essere parte del modello di business”

Intervista a Glauco Martinetti, Presidente Cc-Ti e CEO Rapelli SA

Occuparsi di sostenibilità porta vantaggi economici per le aziende. Per questo la Cc-Ti da tempo approfondisce il tema della responsabilità sociale e ambientale, a cui ha dedicato eventi, corsi e seminari. Tutto questo è sottolineato nell’intervista, che vi riproponiamo, al Presidente Cc-Ti e CEO della Rapelli SA Glauco Martinetti. Ritrovate anche la nostra posizione sulla RSI direttamente al seguente link.

Signor Martinetti, ci sono tre aspetti della sostenibilità per una azienda: quello ambientale, sociale e non da ultimo quello economico. Come farli sviluppare in sintonia?

Non è evidente. Ma le aziende che sono molto attente all’ambito sociale lo sono anche nel contesto ambientale e di solito hanno anche un successo economico. In tale modo si trova quasi automaticamente un equilibrio. Non è una regola, ma mi sembra che colui che è molto attento all’ambito sociale ha dei collabollatori motivati. E chi fa molta attenzione alla tematica ambientale di solito risparmia soldi, e questo porta anche ad una sostenibilità economica.

Quali sono i vantaggi della sostenibilità per le imprese?

Nell’ambito sociale la sostenibilità porta veramente ad una buona motivazione del collaboratore. Una conseguenza poi è la fidelizzazione dello stesso verso l’azienda. Il discorso ambientale invece evoca nei consumatori attenti, e ce ne sono sempre di più, una fidelizzazione al prodotto e quindi dei volumi di vendita buoni, costanti – e appunto sostenibili.

La conclusione sarebbe che oggigiorno la sostenibilità è decisiva per il successo economico.

E proprio così. Per i clienti che apprezzano molto il prodotto si va sempre di più da un semplice prodotto di consumo verso, se si può dire, una religione. Un consumatore inizia a diventare un fan e alla fine, come nel caso dello smartphone, sembra diventare una specie di evangelista del prodotto, dicendo agli altri che devono assolutamente acquistarlo.

Quindi chi trascura la sostenibilità fronteggerà degli svantaggi pesanti?

Guardando i modelli di business futuri credo che la sostenibilità vi debba far parte in modo considerevole. Non credo che oggigiorno un’azienda possa non prestare attenzione alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica perché altrimenti l’attività aziendale viene resa più difficile.

Le aziende devono trovare un equilibrio tra i contesti sociale, economico ed ambientale per puntare al successo.

A quale punto siamo in Ticino rispetto alla Svizzera tedesca per esempio?

Dal mio punto di vista personale gli svizzeri tedeschi hanno una sensibilità, soprattutto ambientale, un po’ più sviluppata, ma il Ticino sta recuperando.

Cosa possono fare concretamente le aziende per migliorare il loro approccio verso la sostenibilità?

Molto dipende dal settore. Ma ritengo che per prima cosa sia necessario scegliere se iniziare dal lato sociale o ambientale. Nella mia azienda la scelta è stata facile: iniziare dalla sostenibilità ambientale per poi passare alla sostenibilità sociale. E alla fine questo ha garantito una sostenibilità economica.

Impiego a tempo parziale, lavoro interinale, telelavoro, job-sharing, lavoro su chiamata, freelance: tutti questi sembrano di diventare i tipici modelli di lavoro per via della digitalizzazione. Ma sono anche sostenibili?

Non penso che questi modelli siano per forza non sostenibili. Sono modelli voluti da parecchie persone. Conosco, per esempio, diverse coppie di amici che non lavorano entrambi a tempo pieno perché sia la moglie che il marito lavorano a tempo parziale ed accumulano i loro redditi. Questo risponde ovviamente ad un bisogno e quindi credo che i menzionati modelli di lavoro possano avere anche una buona sostenibilità sociale.

Questi nuovi modelli di lavoro concerneranno verosimilmente le imprese piuttosto grandi.

Qui il punto centrale è l’organizzazione. Come riesco ad inserire delle persone che lavorano a percentuali e orari differenti nel sistema produttivo? Non incide tanto la grandezza dell’azienda, ma il grado di organizzazione del lavoro. Sia una PMI sia una grande aziende dovrebbero essere molto ben organizzate a questo riguardo.

Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.

E in quanto al dumping salariale e al lavoro nero? Aumenteranno tali problemi a causa della digitalizzazione o verranno meglio controllati grazie alla crescente coscienza di sostenibilità sociale?

A mio avviso la digitalizzazione porta anche ad una maggiore trasparenza. E questa non credo porti verso il dumping, anzi. Se c’è più trasparenza sul mercato del lavoro si è più lontani dalle logiche di dumping e del lavoro nero. Credo che il mondo che sta per arrivare sarà un mondo più flessibile e più trasparente a riguardo delle condizioni di lavoro. E quindi anche più sostenibile, proprio grazie alla digitalizzazione.

A proposito della digitalizzazione e sostenibilità sociale: gli over 50 saranno anche in futuro svantaggiati nella ricerca di un lavoro?

Attualmente abbiamo un gap culturale che, a seconda della formazione, può iniziare all’età di cinquanta o sessant’anni. Ciò significa: una persona che ha seguito delle formazioni accademiche probabilmente oggi a cinquanta anni non rischia di essere esclusa dal mercato del lavoro proprio per via della digitalizzazione, anzi le sue competenze sono in linea con quanto richiesto dal mercato. Mentre una persona coetanea con una scolarizazzione molto bassa rischia invece di esserne fuori. Credo quindi che oltre all’età incida molto il grado di formazione delle persone.

Sembra quindi che la sostenibilità sociale dipenda anche molto dalla formazione continua.

Questo è un punto determinante. La formazione continua a livello aziendale, ma anche del singolo individuo, è un elemento centrale della sostenibilità sociale perché permette ad una persona di tenersi continuamente al passo con i tempi.

Cosa può fare la Cc-Ti concretamente per la sostenibilità in generale?

Il ruolo della Cc-Ti è innanzitutto quello di spiegare ai nostri associati l’importanza della tematica e il suo valore strategico. La Camera stessa offre dei corsi pratici in cui si parla sempre di più di sostenibilità e di best practices ed organizza anche degli eventi per incentivare la discussione sul tema. Si tratta quindi di mostrare in concreto che la sostenibilità è importante in tutti gli ambiti, come abbiamo fatto recentemente a Stabio.

Dal suo punto di vista qual è stato il messaggio principe di tale evento?

Abbiamo presentato un’ azienda di moda e una dell’alimentare e evidenziato il fatto che si può parlare di sostenibilità in mondi totalmente differenti. Il nostro compito è quello di spiegare l’importanza e gli aspetti positivi della sostenibilità per le aziende.

E rendere più sensibile anche il mondo della politica?

Credo che la politica abbia capito benissimo. Ma non possiamo scaricare alla politica un compito che è prettamente aziendale. La responsabilità sociale è un compito che dobbiamo portare avanti noi. E le aziende stanno davvero facendo il loro dovere, andando sempre di più in questa direzione. La sostenibilità è davvero un tema trattato dalle aziende.

Di sostenibilità aziendale e strategia d’impresa si è parlato nell’evento della Cc-Ti dello scorso maggio, rileggete i dettagli cliccando qui.

L’economia non cresce all’ombra dei muri ma solo con il libero commercio

a cura di Alessio Del Grande

Vi riproponiamo un articolo che sottolinea l’importanza del libero mercato quale elemento imprescindibile per garantire il benessere ed il successo della nostra economia. Questo concetto è stato chiarito a più riprese dalla Cc-Ti. Vi ricordiamo che qui potete leggere i diversi approfondimenti di un dossier dedicato al tema, già pubblicato su Ticino Business di aprile 2017.

Dalle Americhe all’Europa, dall’Asia all’Africa, negli ultimi sedici anni gli Stati hanno costruito 28mila chilometri di muri (il doppio del diametro della terra) per difendere i loro confini dalle ondate dei migranti o da altre minacce vere o presunte che siano. Nello stesso tempo molti governi hanno istituito dazi, barriere doganali o restrizioni varie al libero commercio per proteggere le loro economie. Negli Stati Uniti, sono state introdotte, dal 2008 ad oggi, ben 1084 misure protezionistiche, in media un provvedimento ogni quattro giorni; in Russia 488; in Argentina 328; nel Regno Unito 252; in Germania 236; in Italia 207; in Francia 202. Neanche le grandi economie emergenti si sono sottratte alla frenesia neo protezionistica con l’India e la Cina che hanno adottato rispettivamente 588 e 200 misure che limitano il libero commercio. Non per nulla dalla dichiarazione finale del G20, che si è tenuto a Baden nel marzo scorso, è persino scomparsa la tradizionale dichiarazione d’impegno nella lotta al protezionismo. Sembra così cadere nel vuoto l’appello del World Ecomic Forum, secondo cui il dimezzamento delle attuali barriere doganali aumenterebbe il commercio mondiale del 15% e il Pil globale del 5% con grandi benefici per tutti i paesi e le loro popolazioni. Paradossalmente questa stretta contro il libero scambio è avvenuta proprio nel momento in cui la connettività globale, con la costruzione di grandi collegamenti stradali interstatali, di nuovi porti e aeroporti, pipeline, elettrodotti e cablaggi sottomarini per internet, che si estendono da un continente all’altro, ha ridisegnato la geografia di un pianeta le cui economie nazionali sono sempre più interdipendenti. Sono queste grandi infrastrutture, più che le vecchie mappe con confini politici e i proclami isolazionistici di alcuni governi, a dirci in che direzione sta andando veramente il mondo. È la nascente “civiltà dei network globali” – come la definisce l’economista e analista geopolitico Parag Khanna, nel suo saggio “Connectographi- le mappe del futuro ordine mondiale” – che darà un potente impulso al commercio internazionale su cui si svilupperà l’economia del ventunesimo secolo. “La rivoluzione della connettività globale è cominciata- ricorda Khanna-, già oggi la ragnatela planetaria delle infrastrutture include, calcolando per difetto, 64 milioni di chilometri di autostrade, 2 milioni di chilometri di oleodotti e gasdotti, 1,2 milioni di chilometri di ferrovie, 750mila chilometri di cavi internet sottomarini che collegano i tanti centri nevralgici, per popolazione ed economia, del mondo. Al contrario abbiamo solo 250mila chilometri di confini internazionali. E secondo alcune stime l’umanità costruirà più infrastrutture nei prossimi quarant’anni che nei quattromila passati”.

L’espansione del commercio internazionale porta benefici per tutti.

Insomma, il mondo reale dell’economia si va riconfigurando per facilitare i crescenti flussi di materie prime, di persone, merci, capitali, idee e dati. Una trasformazione epocale che sta avvenendo sotto i nostri occhi che va seguita con attenzione, come giustamente ha fatto la nostra Camera di commercio proponendo, il 23 marzo scorso, con la Giornata dell’Export 2017, una riflessione ad ampio raggio sul tema “EU-economy: geopolitics impact on business”, di cui potete ritrovare qui l’approfondimento (e la puntata di Zoom, andata in onda su Teleticino). “La prossima ondata di mega infrastrutture transcontinentali e intercontinentali – osserva l’economista – sarà ancora più ambiziosa: un’autostrada interoceanica attraverso l’Amazzonia, da San Paolo al porto peruviano di San Juan de Marcona sul Pacifico; ponti che collegheranno la Penisola Arabica all’Africa; un tunnel dalla Siberia all’Alaska; cavi sottomarini che attraverseranno il Polo Nord , posati sul fondale artico, connetteranno Londra a Tokyo; reti elettriche capaci di trasferire l’energia solare dal Sahara all’Europa. L’enclave britannica di Gibilterra sarà l’ingresso di una galleria che, sotto il Mediterraneo, arriverà a Tangeri, in Marocco, da dove una nuova ferrovia ad alta velocità si estenderà lungo la costa fino a Casablanca”. È con la costruzione di queste grandi reti infrastrutturali, che vede protagonisti grandi gruppi privati o partnership tra agenzie interstatali e privati, con un ruolo preponderante della Cina, che si va consolidando il mondo delle supply chain, ovvero le filiere economiche transnazionali che rappresentano le nuove catene del valore per la crescita di ogni paese. “Un ecosistema completo e complesso di produttori, venditori e consumatori che trasformeranno materiale grezzo (dalle risorse naturali alle idee) in beni e servizi, erogati alla gente in qualsiasi parte del mondo” scrive Khanna. Un ecosistema che renderà ancora più rapido e agevole in ogni angolo del mondo l’incontro tra domanda e offerta. È la concretizzazione su scala planetaria della teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, che vedeva nell’espansione del commercio internazionale grandi benefici per tutti. Difatti, con l’apertura dei mercati ogni Paese si specializza in quelle produzioni dove ha più vantaggi rispetto agli altri, ne conseguono un aumento della produttività, una riduzione dei costi e la possibilità di acquistare a prezzi più convenienti merci e servizi da chi li produce più a buon mercato. Con vantaggi finali non indifferenti anche per tutti i consumatori.

La rivoluzione della connettività globale impone un radicale ripensamento del concetto di confine.

È questo il planisfero reticolare delle supply chain, in cui si intrecciano e si sovrappongono vecchi e inediti flussi commerciali, che fa assomigliare la Terra alla grande rete di internet. Un mondo dove “l’offerta di tutto può incontrare domanda di tutto”, che avrà nell’economia digitale (tema principale dell’edizione di marzo di Ticino Business, di cui potete leggere gli approfondimenti cliccando su questo link) la sua interfaccia planetaria. Ma la rivoluzione della connettività globale impone un radicale ripensamento del concetto di confine e della vecchia geografia politica tratteggiata dalla sovranità statuale. Già oggi trecento cavi internet sotto gli oceani avvalgono la Terra in una rete attraverso cui passa il 99% di tutto il traffico intercontinentale di dati. Un flusso incessante di notizie e di informazioni sulla produzione di beni e servizi, sulla loro distribuzione, sulle attività finanziarie, su consumi, servizi, gusti, tendenze, idee, innovazioni, sui flussi di merci e persone. Un’ingente massa di dati che cresce ogni hanno del 40%, che viene immagazzinata, strutturata e rielaborata, diventando la materia prima vitale nella ridefinizione delle strategie aziendali, nella gestione innovativa dei servizi collettivi, si pensi solo ai trasporti o all’assistenza sanitaria, così come per la produzione-fruizione di beni immateriali, dalla cultura all’intrattenimento. Ecco bisogna pensare anche a tutto questo quando in Svizzera, ma in particolare nel nostro cantone, si insiste sulla necessità di garantire un accesso capillare ai servizi di banda ultra larga per internet su tutto il territorio nazionale. A metà marzo il Consiglio nazionale ha approvato un’iniziativa cantonale ticinese che va in questa direzione. Un primo e importante passo avanti, visto il peso che vanno acquistando le tecnologie digitali per tutta l’economia svizzera.

La nuova frontiera della formazione

a cura di Alessio Del Grande

Il tema della digitalizzazione è molto rilevante per la Cc-Ti, tanto che nel corso del 2017 ci siamo chinati a più riprese su quest’argomento, affrontandolo da diversi punti di vista. Con questo articolo, già apparso su Ticino Business, si parla di istruzione, innovazione e digitalizzazione.

L’espressione “Industry 4.0” venne usata per la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover. Sono passati solo pochi anni, ma quella che è stata definita la “quarta rivoluzione industriale” è una realtà che sta già cambiando radicalmente non solo il mondo della produzione e della distribuzione di beni e servizi, ma anche il nostro modo di vivere e di relazionarci con gli altri. “Consideriamo, ad esempio, le possibilità, praticamente illimitate, di connettere miliardi di persone attraverso i dispositivi mobili, generando una capacità di elaborazione, archiviazione e accesso alle informazioni senza precedenti. Oppure pensiamo per un attimo all’incredibile convergenza di invenzioni tecnologiche in campi quali l’intelligenza artificiale, la robotica, l’Internet delle cose, la realizzazione di veicoli autonomi, la stampa tridimensionale, la nanotecnologia, la biotecnologia, la scienza dei materiali, l’immagazzinamento di energia e il quantum computing, solo per citarne alcuni” ricorda nel suo saggio «La quarta rivoluzione industriale» Klaus Schwab, fondatore e Presidente del World Economic Forum di Davos. Molte attività lavorative, in particolare quelle ripetitive e manuali, sono state già automatizzate, altre lo saranno quanto prima. Ma dalla crescente convergenza tecnologica in un’economia digitalizzata, nasceranno altre professioni. Cambierà persino il concetto tradizionale di “manodopera qualificata”, ossia quella con conoscenze e abilità ben definite all’interno di una professione, e “si darà maggiore enfasi – scrive Schwab – alla capacità della forza lavoro di adattarsi continuamente e apprendere nuove competenze e approcci in una varietà di situazioni”. Sarà, dunque, la formazione una delle più importanti sfide della nuova rivoluzione industriale. Una sfida a cui le imprese ticinesi si stanno preparando anche con l’associazione ICT per la formazione professionale e che su scala nazionale vede già operativa l’iniziativa “Digital Switzerland”.

Istruzione e innovazione vanno rivalorizzate per il mondo del lavoro di domani.

L’apprendimento continuo come nuovo imperativo per sopravvivere nell’epoca dell’automazione, è stato il tema di una lunga inchiesta pubblicata nel gennaio scorso dall’Economist. Il settimanale sottolineava che nei Paesi ricchi il legame tra apprendimento e guadagni tende a seguire una semplice regola: più formazione durante i normali studi e nei primi anni di attività professionale, per poi raccogliere risultati corrispondenti, in termini retributivi, nel corso della propria carriera. Una regola che oggi non basta più, visto che ad ogni anno supplementare di istruzione e formazione, secondo molti studi, è associato ad un aumento dell’8-13% nei guadagni orari. Non si tratta però solo di guadagnare di più, ma di formarsi continuamente per conservare il posto di lavoro. “Le conoscenze apprese a scuola, non sono quelle che porteranno alla pensione” sottolineava un articolo del febbraio scorso di Bilan, citando l’avvertimento lanciato dal CEO della Philps durante un dibattito all’ultimo World Economic Forum. Se i lavori costituiti da attività di routine, facili da automatizzare, sono in declino, cresce invece il numero d’impieghi che richiedono una maggiore abilità cognitiva. Per rimanere competitivi, e per dare a tutti i lavoratori, poco o altamente qualificati che siano, le migliori possibilità di successo, bisogna offrire una formazione su tutto l’arco della carriera professionale, suggeriscono gli esperti sentiti dall’Economist. In questa direzione si stanno muovendo molti Paesi, testando nuove strade non solo per i contenuti e le finalità dell’apprendimento, ma anche per favorire l’accesso alla formazione permanente. Come Singapore che sta investendo ingenti risorse per fornire ai suoi cittadini dei “crediti di apprendimento”, dei voucher che permettono di accedere alla formazione, fornita da centri autorizzati, durante tutta la vita lavorativa. Ed è ancora Singapore a vantare un altro approccio innovativo con l’iniziativa “SkillsFuture”: gli imprenditori sono invitati a indicare le trasformazioni che si attendono nei prossimi anni nelle loro attività, per tracciare così una mappa delle nuove competenza di cui avranno bisogno le imprese. Grandi gruppi internazionali e molti centri specializzati stanno sperimentando progetti e percorsi formativi in cui le nuove tecnologie della comunicazione hanno un ruolo chiave per l’apprendimento, l’aggiornamento e il perfezionamento professionale online, come anche per la condivisione su scala internazionale conoscenze e competenze.
Le nuove tecnologie, sottolineava anche Bilan, dovrebbero rendere l’apprendimento più efficace e accessibile. Il patrimonio di dati e saperi disponibile in rete offre la possibilità di un’istruzione mirata, mentre con le grandi piattaforme digitali si facilita il collegamento tra persone con differenti livelli di conoscenza, consentendo l’insegnamento e il tutoraggio peer-to-peer. È stata la giusta combinazione tra istruzione e innovazione, notava l’Economist, che nei decenni passati ha generato ricchezza e prosperità nei Paesi avanzati. Una combinazione che oggi va rivalorizzata, perché se la formazione non riesce a tenere il passo con l’evoluzione tecnologica, il risultato sarà la disuguaglianza sociale, con le fasce più deboli della popolazione che saranno emarginate dal mercato del lavoro. La formazione professionale sinora è stata efficace nel garantire l’inserimento nel mondo del lavoro, ma si fa poco per aiutare le persone ad adattarsi ai cambiamenti nel mondo del lavoro.

Se le conoscenze apprese a scuola non sono quelle che porteranno alla pensione, la formazione è un atout che va perseguito durante tutta la carriera professionale, integrandosi con l’evoluzione tecnologica e la digitalizzazione.

“Oggi è necessario insegnare ai bambini come studiare e pensare, privilegiando quella metacognizione che permetterà loro di acquisire più competenze nel corso della vita”. Nel suo studio “New vision for education” la Singularity University, un laboratorio di talenti e di start-up con sede nella Silicon Valley, indica le quattro competenze fondamentali della formazione orientata al futuro:

  • la comunicazione, abilità fondamentale per il lavoro di squadra e lo sviluppo del pensiero critico;
  • la creatività, fantasia e immaginazione non solo per essere in grado d’inventare nuovi oggetti, ma anche per trovare modi alternativi nell’affrontare e risolvere i problemi;
  • la collaborazione, per lavorare assieme su obiettivi comuni, utilizzando al meglio le competenze dei colleghi;
  • il pensiero critico o costruttivo, per valutare a fondo ogni situazione tenendo presenti punti di vista diversi e facendo i giusti collegamenti tra più informazioni.

Su questo capitale di abilità cognitive sarà incardinato il lavoro che genererà più valore, coinvolgendo conoscenze trasversali e qualità caratteriali, con una contaminazione continua tra sapere teorico e pratica concreta. Poiché istruzione e formazione sono un bene i cui benefici si estendono a tutta la società, i Governi hanno un ruolo fondamentale, non semplicemente per spendere di più, ma soprattutto per spendere saggiamente. Un ruolo che sarà ancora più efficace coinvolgendo imprese e sindacati, come insegnano le esperienze maturate in Gran Bretagna e in Danimarca, Paese quest’ultimo dove ai disoccupati vengono offerti ben 258 corsi di formazione professionale per aiutarli a reinserirsi nel mondo del lavoro.

Interessati al tema della digitalizzazione? Qui potete scaricare il nostro approfondimento e rileggete anche il resoconto dell’evento “L’economia del futuro è digitale” tenutosi il 26 aprile scorso.

I controlli all’esportazione: sanzioni e beni a duplice impiego

Nel commercio internazionale sono numerose le variabili da tenere in considerazione quando si intende vendere dei prodotti o dei servizi: rischio controparte, contrattualistica, modalità di pagamento, spedizione e resa, formalità doganali, ecc. Tra i vari elementi non vanno assolutamente trascurati gli strumenti internazionali di controllo delle esportazioni, peraltro strettamente correlati tra di loro: le normative sui beni a duplice impiego (dual use) e le informazioni aggiornate sulle sanzioni internazionali.

A livello internazionale – citando la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) – “il controllo delle esportazioni è disciplinato da quattro regimi non obbligatori sotto il profilo del diritto internazionale (gruppo Australia, gruppo dei fornitori nucleari, regime di non proliferazione nel settore missilistico e intesa di Wassenaar). L’obiettivo di questi regimi internazionali consiste nell’impedire la diffusione di armi di distruzione di massa e dei loro sistemi vettori nonché nell’evitare l’accumulo destabilizzante di armi convenzionali”. In questo contesto, la Svizzera non è solo membro di tutti e quattro i regimi di controllo ma ha anche ratificato la convenzione sulle armi chimiche, la convenzione sulle armi biologiche e tossiniche e il trattato di non proliferazione nucleare. In tale modo – sempre citando la SECO – “la Svizzera adempie agli interessi di diritto costituzionale, di politica estera e di sicurezza, e rafforza la legittimità della propria economia privata”.

Il campo d’applicazione dei controlli all’esportazione sulla carta risulta essere chiaro e ben concertato, ma occorre tenere presente la celere evoluzione verso il digitale. È di stretta attualità il tema della cyber security e delle tecnologie di supporto. La realtà ci mostra che i controlli si stanno muovendo per esempio verso la regolamentazione di tutto ciò che riguarda l’esportazione e l’intermediazione di beni per la sorveglianza di Internet e delle comunicazioni mobili. Sul fronte delle sanzioni, la Svizzera rispetta le misure coercitive non militari adottate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Come riferisce la
SECO, si tratta essenzialmente di “misure cosiddette «di embargo», principalmente a carattere economico, volte a limitare gli scambi commerciali, di servizi o di tecnologia ma anche le transazioni finanziarie con un paese o un gruppo di paesi, in vista di motivare i destinatari delle sanzioni a un determinato comportamento”.

Più flessibili e autonome, invece, le sanzioni UE in merito alle quali il Consiglio federale decide caso per caso. Si pensi a mo’ d’esempio al caso della Russia dove al di là del materiale bellico la Svizzera si è limitata alla notifica all’autorità di determinati merci o servizi diretti verso questo Paese. Lapalissiano ma rilevante ricordare che anche in questo ambito i cambiamenti di indirizzo del Governo federale sono in linea con le mutate dinamiche geopolitiche.

Infine è essenziale sottolineare che queste misure, come la partecipazione a sanzioni economiche, devono assolutamente rimanere in linea con la politica estera di neutralità della Confederazione. Un elemento attrattivo fondamentale della “Swiss Way”. L’auspicio è naturalmente che la Svizzera possa mantenere un approccio autonomo e neutrale di verifica puntuale delle misure da mettere in atto – a parte le misure volute dalla comunità internazionale – in modo da poter mantenere la propria reputazione di Paese super partes nell’interesse della comunità internazionale, ma anche della sovranità nazionale che raccoglie sia le istituzioni internazionali

Monica Zurfluh, responsabile S-GE per la Svizzera italiana
Marco Passalia, responsabile Servizio Export Cc-Ti

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Un po’ di San Marino in Ticino

Lunedì 19 giugno 2017 la Cc-Ti ha accolto una delegazione proveniente da San Marino, guidata da Massimo Ghiotti, Direttore della Camera di commercio della Serenissima Repubblica. Oltre che da rappresentanti della Camera di commercio sammarinese, la delegazione era formata da un rappresentante della Segreteria di Stato per gli affari esteri, affari politici e giustizia, e da un rappresentante della Segreteria di Stato per l’Industria, Artigianato e Commercio, Lavoro, Cooperazione e Telecomunicazioni.

La delegazione si è dapprima recata alla Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Cantone Ticino (Cc-Ti) per un incontro con i suoi rappresentanti. Ad accogliere i Sammarinesi, Cristina Maderni (Vicepresidente della Cc-Ti, Presidente dell’Ordine dei Commercialisti del Cantone Ticino e Presidente della Federazione Ticinese delle Associazioni di Fiduciari), Andrea Ghiringhelli (Membro dell’Ufficio Presidenziale della Cc-Ti), Luca Albertoni (Direttore della Cc-Ti) e Chiara Crivelli (responsabile International Desk della Cc-Ti). Durante l’incontro sono stati trattati diversi temi in maniera molto pragmatica e concreta, tra i quali le peculiarità dei rispettivi sistemi economici, l’attrazione di investimenti, della promozione e dell’internazionalizzazione e le specificità delle associazioni/ordini professionali di avvocati e commercialisti.

In seguito, la delegazione si è recata a Manno per una visita del Tecnopolo Ticino, progetto sviluppato e gestito dalla Fondazione Agire su mandato della Divisione dell’economia. Il Presidente della Fondazione Agire, Prof. Giambattista Ravano, ha presentato il centro e fornito delle informazioni dettagliate sul suo funzionamento. La delegazione ha seguìto in modo particolare questo incontro poiché anche a San Marino si sta sviluppando un Parco Scientifico Tecnologico. Durante la discussione sono state inoltre valutate delle possibili sinergie tra i due enti. Il gruppo ha poi avuto modo di visitare due aziende presenti al Tecnopolo: Pastelle Media Sagl e Oculox Technology Sagl, due start-up estremamente interessanti e innovative.

La Cc-Ti attribuisce grande importanza all’accoglienza di delegazioni estere in Ticino, un’ottima occasione per presentare il nostro territorio e, al medesimo tempo, sviluppare la rete di contatti con l’estero.

La responsabilità sociale oggi – dossier tematico

Un recente studio della Supsi ha evidenziato una crescente attenzione delle aziende ticinesi per la responsabilità sociale delle imprese. Una consapevolezza sempre più diffusa perché la Rsi è vista dagli imprenditori come un fattore competitivo e non come un costo. Un valore aggiunto che permette all’azienda, ha sottolineato la ricerca della Supsi, di acquisire indubbi vantaggi: migliorare la sua immagine pubblica, essere più in sintonia con la sensibilità dei clienti, accedere più facilmente al credito, attirare più talenti e profili qualificati, avere personale più motivato e maggiore creatività da parte dei collaboratori. Col risultato anche di una più efficiente gestione dei rischi e dei costi.

Di Rsi si è parlato ancora nel convegno organizzato lo scorso maggio dalla Camera di commercio, che ha offerto la significativa esperienza di due importanti imprese del cantone: la Hugo Boss che si è soffermata sull’impegno di un grande marchio della moda per la tutela dell’ambiente e dei lavoratori anche in Paesi dove questi valori sono poco rispettati, e la Rapelli che ha proposto l’interessante modello adottato dall’impresa alimentare per il risparmio energetico e la drastica riduzione dell’impatto ambientale.

Ma cos’è la Rsi?

Quando si parla di responsabilità sociale delle imprese non si intende solo l’impatto ambientale delle attività produttive, ma anche le condizioni di lavoro dei dipendenti, il rispetto dei diritti umani, la trasparenza e altre garanzie che valorizzano la tradizionale funzione sociale delle imprese in un determinato territorio. In sostanza si tratta di tutte quelle misure che un imprenditore adotta volontariamente, al di là delle prescrizioni della legge, per migliorare la reputazione sociale dell’impresa e la soddisfazione dei suoi collaboratori. Da noi non mancano di certo le imprese che spontaneamente hanno orientato la loro strategia sulla tutela ambientale, il risparmio energetico, la mobilità sostenibile, sulle misure per conciliare meglio lavoro e famiglia o su prestazioni sociali e formative che premiano l’impegno del personale. Elemento fondamentale di questa vocazione sociale è la libera scelta, volontaria, dell’imprenditore e non imposta dallo stato, è una consapevolezza che deve diffondersi dal basso e non essere prescritta dall’alto. Tantomeno si può elevare la Rsi a criterio distintivo di un’azienda la cui valutazione selettiva di virtuosità spetta allo stato, con tutti i rischi che ciò comporta. Altrimenti si scade nelle regolamentazioni invasive, nell’intervento intrusivo dello stato che può pregiudicare la libertà d’impresa e mettere in pericolo la capacità stessa di un’azienda di fare profitti, ossia le basi della sua sopravvivenza. E, purtroppo, è quello che sta accadendo in Ticino.

Elemento fondamentale di questa vocazione sociale è la libera scelta, volontaria, dell’imprenditore e non imposta dallo stato, è una consapevolezza che deve diffondersi dal basso e non essere prescritta dall’alto.

Salvaguardare le imprese

Nel nostro cantone la Rsi è ormai una definizione a largo spettro, per cui dalle aziende si pretende di tutto e di più. Si pretende che esse suppliscano alle mancanze o ai fallimenti della politica: non ci sono sufficienti asili nido, e a prezzi accessibili, per favorire l’impiego di madri che vorrebbero lavorare e, allora, dovrebbero essere le aziende a dotarsi di asili nido; le strade sono intasate dal traffico anche perché, contro ogni logica pianificatoria, sono rimaste quelle di trent’anni fa, ma si puniscono le imprese con una tassa sui posteggi che dovrebbe spingerle a ripensare la mobilità dei dipendenti; se in Ticino il costo della vita è troppo alto perché la struttura dei prezzi, come dappertutto in Svizzera, è irrigidita da accordi cartellari e da esosi costi obbligatori, si vorrebbe che gli imprenditori pagassero salari non inferiori ai 3700- 4000 franchi, a prescindere dalle capacità e dalla produttività del dipendente; ci sono troppi disoccupati e allora non si può assumere chi si vuole, chi serve davvero all’impresa, ma i senza lavoro indicati dagli uffici di collocamento; se in assistenza ci sono tante persone sole con figli o con una scarsa formazione, dovrebbero essere le aziende a farsene carico e non lo stato che dovrebbe, invece, offrire loro altre opportunità di formazione e percorsi diversi per il reinserimento nel mondo del lavoro; un’azienda per essere ritenuta innovativa non basta che migliori processi produttivi e prodotti, che investa per essere competitiva, non basta che abbia successo sul mercato, no, prima di tutto, deve rispettare alcuni criteri fissati dallo stato. Ci si lamenta per la disoccupazione, ma si rifiutano o si bloccano importanti insediamenti industriali, per centinaia di posti di lavoro, perché qui le fabbriche devono essere tutte high-tech per decreto.

Tutto ciò è la prosecuzione con altri mezzi di quella strisciante criminalizzazione delle imprese che nel cantone ha suscitato sentimenti di manifesta ostilità per le attività imprenditoriali. È il frutto velenoso della mancanza di una vera cultura liberale su cui si è innestato il devastante “primanostrimo”. Quel pensiero politico e sociale ormai dominante che si è autoalimentato per anni con insistenti campagne su una presunta emergenza disoccupazione. Un martellamento continuo, a furia di ribadirla, ripeterla, sottolinearla questa emergenza è diventata una verità autoreggente, che resiste persino alla prova inconfutabile dei fatti, che indicano invece una netta diminuzione della disoccupazione e una espansione della base occupazionale. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il Ticino si collochi oggi al quarto posto tra i cantoni per la crescita del Pil dal 2000 al 2015, che negli ultimi dieci anni i posti a tempo pieno siano aumentati del 15,7%, e non sono certo tutti per i frontalieri, che siano anche cresciuti quelli qualificati, passando da 1 impiego su 5 a 1 su 3, e che la disoccupazione, sia che la si misuri coi dati Seco che con quelli Ilo, è nettamente regredita.

Ci si lamenta per la disoccupazione, ma si rifiutano o si bloccano importanti insediamenti industriali, per centinaia di posti di lavoro, perché qui le fabbriche devono essere tutte high-tech per decreto.

La vera responsabilità sociale delle imprese

Il dilagante primanostrismo ha però prodotto una falsa rappresentazione della realtà che è diventata percezione collettiva, innescando nella politica un riflesso condizionato, per cui si sostiene qualsiasi proposta, persino le più balorde, per blindare il mercato del lavoro e proteggere la manodopera indigena.

In questo clima ci si è appropriati di un concetto quale la Rsi, per stravolgerlo e utilizzarlo come un piede di porco per scardinare quel che resta della libertà e economica e della libertà d’impresa. Dimenticando che le aziende sono la fonte principale dello sviluppo e dell’occupazione e che se esse affondano, affonda tutta la società.

Le imprese non sono “vacche da mungere” con tasse e imposte o da impastoiare con compiti e obblighi che nulla hanno a che fare con la loro funzione naturale, che è quella di creare profitto fornendo beni e servizi richiesti dal mercato. Perché solo se un’azienda crea profitto è in grado di investire per restare competitiva, di salvaguardare i posti di lavoro, di crescere assumendo nuovi dipendenti, di pagare i salari ai suoi collaboratori e le imposte allo Sato. Il profitto non è, dunque, solo il giusto premio per l’imprenditore che rischia il suo capitale, ma è ricchezza per tutti.

Fare profitti è questa la prima e vera responsabilità sociale delle imprese, che andrebbe tutelata e incoraggiata e non ostacolata con vincoli e imposizioni d’impronta statalista che snaturano la sua missione originaria. Perciò, la Rsi come autentica strategia di valorizzazione aziendale e sociale è un obiettivo che riguarda non solo gli imprenditori ma tutti, dipendenti, consumatori, classe politica e sindacati, e che può essere concretizzato attraverso il partenariato sociale e non imponendolo per legge.

Le imprese non sono “vacche da mungere” con tasse e imposte o da impastoiare con compiti e obblighi che nulla hanno a che fare con la loro funzione naturale, che è quella di creare profitto fornendo beni e servizi richiesti dal mercato.

Per approfondire il tema della sostenibilità, qui di seguito trovate diversi contenuti quali approfondimenti tematici.

Dossier responsabilità sociale 2017 completo
La responsabilità sociale non si impone per legge
La sostenibilità deve essere parte del modello di business
È inevitabile trovare l’equilibrio tra sostenibilità ed economia
Dare più senso al lavoro
La responsabilità sociale delle imprese non è una moda ma un comportamento
I diritti dell’uomo un compito dello stato
Responsabilità sociale d’impresa e strategia aziendale

Nuove forme di lavoro per un mondo in continua evoluzione – dossier tematico

Per una nuova cultura del lavoro

Da almeno quarant’anni economisti e sociologi analizzano e descrivono le trasformazioni del mondo del lavoro nel passaggio dal fordismo al post fordismo. Ossia il grande salto dalla produzione di massa incentrata sul vecchio modello industriale della fabbrica, che con i suoi ritmi scandiva anche i tempi della vita sociale, all’irrompere delle nuove tecnologie con la diversificazione produttiva, la flessibilità e il just in time. Un cambiamento radicale accelerato dagli effetti congiunti della globalizzazione e dalla diffusione planetaria delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che ha interconnesso non solo i mercati mondiali delle merci e dei capitali, ma anche quelli delle idee, delle competenze e delle professionalità. Spingendo la capacità d’innovazione, la competitività e la concorrenza internazionale verso livelli sempre più alti.

La svolta epocale

Su questa rivoluzione si è saldamente innestata la nuova economia digitale che sta ulteriormente trasformando la produzione di beni e servizi, la loro distribuzione e gli stili di vita, mentre i paesi avanzati sono oggi contrassegnati dal progressivo invecchiamento della popolazione, dall’aumento dell’occupazione femminile e dall’impiego crescente di manodopera immigrata. Inoltre, in questi paesi, ed è la prima volta che accade nella storia dell’umanità, si trovano a convivere ben quattro generazioni, un grande accumulo di risorse, esperienze e intelligenze dalle potenzialità enormi. Un solo esempio: la possibilità di dilazionare l’età di pensionamento impiegando i dipendenti più anziani nel tutoraggio dei giovani al primo impiego, senza appesantire le condizioni di lavoro dei primi, favorirebbe la trasmissione dell’esperienza professionale e darebbe anche un sostanzioso contributo alle casse del sistema pensionistico.

In questa movimentata topografia dei cambiamenti produttivi e sociali cambiano anche i modelli di lavoro. Termini come lavoro atipico, alternativo, interinale, immateriale, telelavoro, lavoro autonomo di terza generazione, job sharing e lavoro ibrido, cioè quello fatto di manualità, informatica e robotica, sono ormai parole correnti e non solo nel linguaggio degli specialisti. La cosiddetta gig economy, che non è semplicemente quella dei lavoretti, ma del lavoro on demand, cioé quando c’è richiesta, e la sharing economy, l’economia della condivisione, hanno ampliato e diversificato l’offerta di merci e servizi, allargando anche la base occupazionale, grazie all’incontro più veloce tra domanda e offerta di lavoro e al taglio dei costi di transazione.

Se Uber ha scosso dalle fondamenta il trasporto urbano, intaccando le solide rendite di posizioni dei tassisti e delle aziende pubbliche, decine di start up gestiscono con successo, e grande soddisfazione dei clienti, la galassia dei servizi a domicilio, dalle pulizie di casa alle riparazioni domestiche, dalla consegna di cibi pronti a quella della biancheria lavata e stirata in lavanderia. È tutto un mondo e un modo di vivere che si sta trasformando sotto i nostri occhi.

Termini come lavoro atipico, alternativo, interinale, immateriale, telelavoro, lavoro autonomo di terza generazione, job sharing e lavoro ibrido, cioè quello fatto di manualità, informatica e robotica, sono ormai parole correnti e non solo nel linguaggio degli specialisti.

Il Ticino che guarda indietro

Eppure in Ticino quando si parla di lavoro e di occupazione si ragiona, in larga parte, come un secolo fa. Qui la flessibilità è spacciata ancora come precarizzazione dell’occupazione e i nuovi modelli di lavoro sono solo sinonimi di nuove modalità di sfruttamento, quando in realtà essi corrispondono alle mutate esigenze produttive imposte da mercati dominati da una concorrenza sempre più agguerrita. Si è cominciato anni fa a contestare il lavoro su chiamata e l’outsourcing e si è arrivati a criticare ferocemente persino l’aumento degli impieghi a tempo parziale, quando da sempre si è invocato il part-time, anche da sinistra, come la grande opportunità per le donne di ritornare sul mercato del lavoro conciliando meglio gli impegni professionali con quelli famigliari.

Recentemente sono finiti nel mirino le agenzie di lavoro interinale, considerate vere e proprie centrali di sfruttamento che alimenterebbero il dumping salariale.   Poco importa se esse permettono a centinaia di giovani di accedere più rapidamente al mercato del lavoro, e acquisire le prime indispensabili esperienze, o se rappresentano una possibilità in più offerta ai disoccupati per rimettersi in pista e riconquistarsi, magari, un posto fisso. E importa ancora meno il fatto che le agenzie di impiego interinale forniscono un servizio essenziale nell’economia moderna, ossia soddisfare in maniera rapida e mirata un fabbisogno temporaneo di manodopera necessaria per dei picchi produttivi o per urgenze lavorative, per sostituire altri lavoratori, per mansioni a breve termine e tante altre necessità per le quali nessuno assumerebbe qualcuno a tempo indeterminato.

Nonostante queste agenzie siano rigorosamente regolate dalla legge e garantiscano un salario minimo anche nei settori dove non c’è un contratto collettivo, in Ticino c’è chi le vorrebbe mettere al bando. Per intanto ci si accontenta di penalizzarle pesantemente con la nuova legge sulle commesse pubbliche.

Si è cominciato anni fa a contestare il lavoro su chiamata e l’outsourcing e si è arrivati a criticare ferocemente persino l’aumento degli impieghi a tempo parziale, quando da sempre si è invocato il part-time, anche da sinistra, come la grande opportunità per le donne di ritornare sul mercato del lavoro conciliando meglio gli impegni professionali con quelli famigliari.

Nuovi modelli di lavoro

Un recente studio europeo (Eurofound) ha classificato nove grandi tipologie di nuovi modelli di lavoro ormai diffusi in tutto l’Occidente: employee sharing,  gli stessi lavoratori assunti da un un gruppo di diversi imprese; job sharing, lavoro ripartito tra più dipendenti; temporary management, manager impiegati per specifici progetti; casual work, lavoro intermittente; telelavoro; voucher-based work, prestazioni pagate con un voucher che copre retribuzione e contributi sociali, portfolio work,  autonomi che lavorano per diversi clienti; crowd employment, piattaforme online che mettono in contatto domanda e offerta di lavoro per progetti complessi; collaborative employment, lavoratori freelance e micro imprese che collaborano tra di loro.

Si tratta di modalità d’impiego nate spontaneamente dalle trasformazioni economiche e sociali odierne, che presentano indubbi vantaggi per l’accesso al mercato del lavoro, ma anche molti aspetti poco chiari dal profilo della tutela dei lavoratori, che legislatori, sindacati e imprese dovrebbero affrontare assieme per definire una normativa adeguata ai tempi. Ma la realtà è questa. Basta pensare che negli Usa la crescita netta dei posti di lavoro negli ultimi dieci anni, nove milioni in più, è dovuta esclusivamente a modalità alternative d’impiego che escono dagli schemi tradizionali.

Una realtà che se da un lato richiederà anche una nuova cultura aziendale e del lavoro, dall’altro impone l’impegno comune della politica e delle parti sociali per adeguare il vecchio diritto del lavoro ad un mondo che è del tutto diverso. Solo così e pensando soprattutto anche a modelli più efficienti, e meno dispersivi, di Welfare si potranno affrontare le sfide poste da queste grandi trasformazioni: la formazione continua, la previdenza professionale, la mobilità e la discontinuità lavorativa, l’accesso all’impiego per i più giovani.

Per approfondire il tema delle nuove forme di lavoro, qui di seguito trovate diversi contenuti quali approfondimenti tematici.

Il mondo del lavoro è sempre più dinamico e polivalente
Il valore della flessibilità
Il futuro si crea adesso
La gente deve cambiare atteggiamento
Lavoro: trasformazione sociale e digitale

Ripensare il proprio modello di business: il vantaggio competitivo di domani

Molte PMI a causa del superfranco continuano a subire una forte pressione sui margini e hanno quasi esaurito il potenziale per l’ottimizzazione dei loro processi e gli strumenti per investire in altre innovazioni di prodotto. Mega-tendenze quali la globalizzazione, i cambiamenti demografici, la sostenibilità, la digitalizzazione e la mobilità stanno cambiando il mondo e l’economia globale, facendo emergere nuovi concorrenti: ne sono un esempio Apple, il rivenditore di musica che non ha venduto un solo CD, Uber, l’impresa di taxi che non possiede automobili o AirBnB, l’azienda che affitta abitazioni senza aver mai piantato un mattone. Il mondo del business viene completamente rivoltato e le PMI che operano a livello internazionale non possono cullarsi nella falsa sicurezza che proprio il loro settore venga risparmiato.

Che fare quindi?

Dopo anni di miglioramento dell’efficienza e dei prodotti, le imprese svizzere attive a livello internazionale giungono sempre più ai limiti del potenziale di ottimizzazione, in taluni comparti la pressione sui margini continua però ad essere presente. È importante quindi superare il modo di pensare secondo la logica aziendale tradizionale. Prendendo ad esempio Apple, Uber o AirBnB, il vantaggio competitivo internazionale del futuro risiede in un modello commerciale intelligente.

Se, in parole povere, i modelli di business descrivono il funzionamento di un’impresa, il modo in cui si devono realizzare gli utili e, in particolare, quali esigenze dei clienti debbano essere soddisfatte, per attuare un modello commerciale innovativo servono soprattutto creatività e un pensiero fuori dagli schemi. Il punto di partenza è dato dalle esigenze dei propri clienti e dalla possibilità di apportare un plusvalore in un modo nuovo, più efficiente o più interessante, in ognuno dei mercati di riferimento, di offrire loro una nuova esperienza, di distinguersi dalla concorrenza e di generare ulteriori fonti di guadagno. Bisogna in particolare riflettere sui seguenti punti: quale vantaggio offre il mio prodotto o servizio ai clienti? Come viene generato tale vantaggio e quale valore aggiunto porta con sé? Qual è il mio modello di ricavi? In realtà non c’è bisogno di reinventare la ruota, è sufficiente guardarsi attorno, dare un’occhiata anche ad altri settori e conoscere le loro soluzioni sul mercato. Lasciatevi ispirare.

Come?

Il Forum del commercio estero svizzero che Switzerland Global Enterprise terrà il prossimo 18 maggio alla Fiera di Zurigo può essere una prima occasione. Tra le varie testimonianze, ad esempio, troviamo quella dell’azienda Elite SA di Aubonne (associata alla Camera di commercio vodese e a S-GE), produttrice di materassi, ci piace particolarmente: l’attuale CEO ha lavorato in precedenza nel settore automobilistico e ha portato con sé l’idea del «leasing». I pregiati materassi sono stati dotati di sensori e da allora vengono noleggiati agli alberghi, che pagano solo se effettivamente un cliente ci dorme sopra. In questo modo gli alberghi risparmiano notevoli investimenti, realizzando così un vantaggio per il cliente in modo più interessante. Nel contempo Elite SA riceve informazioni su come i clienti utilizzano il suo prodotto e su come migliorare ulteriormente i suoi materassi. Con questo modello di business la PMI della Svizzera romanda opera con successo anche a livello europeo.

Siamo convinti che anche in Ticino molte aziende stiano compiendo passi simili. Ci farebbe molto piacere se si mettessero in contatto con noi così da poterle promuovere e renderle fonte d’ispirazione per altre PMI del Cantone.

Monica Zurfluh, responsabile S-GE per la Svizzera italiana
Marco Passalia, responsabile Servizio Export Cc-Ti

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