Conoscere meglio le disposizioni legali sulla Swissness

Il 1° gennaio di quest’anno è entrata in vigore la nuova Legge Federale che regola lo “swiss made”, la cosiddetta Swissness. Abbiamo riassunto alcuni dettagli utili inerenti questa normativa.

L’obiettivo della Swissness, nell’ambito della Legge federale sulla protezione dei marchi e delle indicazioni di provenienza (Legge sulla protezione dei marchi, LPM), entrata in vigore il primo gennaio scorso, era quello di consolidare il valore della designazione “svizzera” nel contesto dei mercati internazionali, dato che tale designazione è importante per la vendita di prodotti e servizi elvetici.

Nel settembre 2015 il Consiglio Federale ha adottato la Swissness, che è poi entrata in vigore ad inizio 2017. I nuovi criteri puntano sul miglioramento dell’indicazione di provenienza «Svizzera» e della croce svizzera a livello nazionale e agevolano l’attuazione del diritto all’estero. Il tutto ha un duplice intento: preservare il valore della Swissness e combatterne gli abusi.

Il valore economico della Swissness è innegabile e molto elevato, portando numerosi vantaggi competitivi alle aziende che ne fanno uso, occorreva però una chiara normativa che ne regolasse l’uso e prevenisse gli abusi, sia in ambito nazionale che internazionale. Si devono dunque rispettare vari criteri legati alla provenienza di prodotti e servizi, così come l’uso della croce svizzera. La legge prevede dei criteri precisi per determinare la natura svizzera di un prodotto o servizio elvetico. Questi criteri regolano non solo l’uso di un’indicazione di provenienza sull’imballaggio di un prodotto, o per un servizio, ma valgono in egual misura per l’ambito della pubblicità.

Per i prodotti industriali 2 condizioni cumulative devono essere adempiute per poter utilizzare lo “Swiss Made”: almeno il 60% del costo totale deve essere generato in Svizzera e l’attività che ha dato al prodotto le sue caratteristiche essenziali deve svolgersi in Svizzera (ad esempio l’assemblaggio di un macchinario). Nel calcolo dei costi totali occorre tener conto anche dei costi relativi alla ricerca e sviluppo.

Si punta al miglioramento dell’indicazione di provenienza «Svizzera» e della croce svizzera a livello nazionale, agevolando l’attuazione del diritto all’estero.

Per le derrate alimentari, sono 2 le condizioni cumulative che devono essere adempiute: almeno l’80% del peso delle materie prime o degli ingredienti che le compongono devono provenire dalla Svizzera. Per il latte ed i prodotti lattieri questa proporzione arriva fino al 100% e la trasformazione che ha conferito al prodotto le sue caratteristiche essenziali deve svolgersi in Svizzera (ad esempio la trasformazione del latte in formaggio). La legislazione prevede diverse eccezioni al criterio dell’80%, al fine di tener conto delle realtà di cui devono tenere le industrie trasformando le materie prime, che spesso non sono reperibili in Svizzera. Per le prestazioni di servizio, la sede dell’azienda deve essere in Svizzera e la società deve essere realmente amministrata dalla Svizzera. Attenzione a non confondere le regole della “Swissness” (basate sulla proprietà intellettuale) e le regole sull’origine della merce (diritto doganale). Si tratta di regole diverse, i cui criteri non collimano.

Utilizzo della croce svizzera

La croce svizzera può essere utilizzata, come era in passato, per i servizi svizzeri, e anche per i prodotti svizzeri, a condizione ovviamente che rispettino tutte le condizioni legali.

Domande in merito a questo tema? Vi segnaliamo innanzitutto il recente dossier tematico dedicato alla Swissness.
Potete sempre contattarci per informazioni sull’applicazione della normativa “Swissness”: Tel. +41 91 911 51 11, info@cc-ti.ch

Reinserimento professionale: una nuova intesa per facilitare il rientro sul posto di lavoro

Anche la Cc-Ti, da sempre attenta alle questioni sociali nell’ambito lavorativo, ha sottoscritto quest’intesa volta a mantenere i posti di lavoro per persone in difficoltà ed a facilitare il reinserimento professionale nel mondo del lavoro. Si tratta di temi sensibili che ci stanno molto a cuore, come lo dimostra, ad esempio, il premio Agiamo Insieme, che organizziamo annualmente con l’Ufficio delle Assicurazioni Sociali, valorizzando le imprese che si distinguono nel reinserimento professionale dei collaboratori che hanno subito un danno alla salute.

L’Istituto delle assicurazioni sociali del Dipartimento della sanità e della socialità con l’Ufficio AI, le associazioni economiche, l’Ordine dei medici e l’agenzia Suva del Cantone Ticino collaborano strettamente per facilitare il più possibile il reinserimento professionale delle persone inabili al lavoro. A garanzia di un intervento efficace hanno definito alcuni principi che sono stati presentati il 1° giugno scorso a Vezia in occasione di una tavola rotonda, alla quale ha partecipato anche il Direttore del Dipartimento della sanità e della socialità Paolo Beltraminelli. Con la propria firma, si impegnano a rispettare tali principi e a collaborare per offrire ai lavoratori colpiti da malattia o infortunio un rapido e sicuro reinserimento nel processo lavorativo. Alcune ricerche dimostrano che dopo un’incapacità lavorativa di sei mesi le probabilità di reinserimento sono circa dimezzate. Per questo è fondamentale che le persone malate o infortunate ricevano un’assistenza tempestiva dal proprio contesto socio-professionale, al fine di rientrare in azienda nel più breve tempo possibile. L’obiettivo è ridurre le assenze dal lavoro e i costi della salute grazie a un accordo di collaborazione a cui hanno aderito le associazioni mantello del Canton Ticino, ovvero la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Cantone Ticino (Cc-Ti), l’Associazione Industrie Ticinesi (AITI), l’Ordine dei medici (OMCT), la Società Svizzera Impresari Costruttori (SSIC-TI) nonché l’Ufficio AI Ticino e l’agenzia Suva Bellinzona. Le parti coinvolte nel progetto sottoscrivono un accordo di collaborazione vincolante, già siglato da due datori di lavoro operanti in settori diversi (FFS e Migros Ticino).

La comunicazione tra le parti è decisiva

Un’incapacità al lavoro comporta problemi non solo per il datore di lavoro, ma anche per i medici curanti e l’assicurazione sociale competente. Il datore di lavoro desidera avere informazioni il più possibile trasparenti circa il rientro dell’infortunato; d’altro canto, i medici curanti spesso non conoscono a sufficienza le condizioni di lavoro del paziente per poter stabilire il grado di incapacità al lavoro. Per questo la comunicazione tra le parti è fondamentale per ridurre i giorni di assenza di una persona. Come afferma l’Avv. Monica Maestri, Capo dell’ufficio cantonale dell’assicurazione invalidità, «il dialogo tra il medico curante e il datore di lavoro è decisivo per il rientro del lavoratore sul posto di lavoro. Spesso le difficoltà sono dovute ad una mancanza di informazioni e hanno come conseguenza la lunga inattività del paziente. Conoscendo il medico curante la situazione reale lavorativa della persona infortunata e possibili alternative professionali offerte dall’azienda, egli può valutare al meglio la capacità lavorativa del proprio paziente e favorirne il reinserimento».

In caso di problematiche alla salute o malattia dei dipendenti, la comunicazione tra le parti coinvolte è fondamentale per ridurre i giorni di assenza di una persona.

I principi definiscono l’ambito della collaborazione

La documentazione elaborata congiuntamente descrive gli ambiti essenziali della collaborazione. Ad esempio, specifica in dettaglio quali informazioni riportare sul certificato di incapacità lavorativa, come determinare l’incapacità al lavoro nella pratica o quali informazioni supplementari si possono fornire al datore di lavoro in aggiunta al certificato di incapacità lavorativa. Con la propria firma, i soggetti coinvolti si impegnano a rispettare i principi stabiliti durante il lavoro quotidiano. Si può così presupporre che la collaborazione tra le parti interessate contribuirà a ridurre l’insorgere di malintesi e, quindi, il numero di assenze. «Lo spirito dell’accordo è proprio quello di sburocratizzare il processo di reinserimento di una persona infortunata o malata. Questo è possibile grazie ad una comunicazione diretta tra medico curante e datore di lavoro che si effettua nell’interesse del paziente, ma sempre nel rispetto dei ruoli di ognuno. Lo scopo finale è quello di evitare la cronicizzazione per preservare forze lavorative che sono la prima risorsa di un’impresa in modo da contenere costi sociali che si riverserebbero comunque sulle aziende», spiega Roberto Dotti, Direttore della Suva Bellinzona.

Interessati a saperne di più?
Contattateci per maggiori informazioni.
Il Signor Gianluca Pagani è a vostra disposizione (Tel. 091 911 51 11).

Swissness: la forza di una cultura d’impresa e di uno stile imprenditoriale – dossier tematico

a cura di Alessio del Grande

Con questo contributo, cerchiamo di capire quali siano le basi su cui poggia il successo della “Swissness”, intesa non solo a livello giuridico, ma nell’ampia accezione del termine, ossia come modo di fare impresa svizzero, che già racchiude in sé la capacità di adattamento e la creatività che ha permesso al nostro tessuto di reinventarsi.

Nella sua allocuzione per il Primo Agosto, il Cancelliere della Confederazione Walter Thurnherr, parlando sul praticello del Grütli, ricordava il valore storico e simbolico del Patto del 1291, ma avvedutamente sottolineava che la specificità elvetica, ossia la storia del successo politico ed economico del Paese, è nata nel XIX secolo. Quando la Svizzera si è dotata di una costituzione moderna e un mercato unico con l’abolizione delle dogane fra i Cantoni e l’unificazione di pesi e misure. Assieme al principio della neutralità, che risparmierà alla Confederazione l’immane tragedia di due guerre mondiali, sono queste le basi che faranno di un piccolo Stato del tutto privo di materie prime, una potenza economica grazie all’ingegno imprenditoriale e al lavoro della sua popolazione. Da anni ormai la Svizzera è giudicata tra le Nazioni più innovative del mondo. Anche l’ultima graduatoria del Centro per la ricerca economica europea, che ha analizzato 35 Stati, piazza la Svizzera al primo posto nella classifica internazionale dell’innovazione. In rapporto al numero di abitanti è tra i Paesi che vanta più brevetti, i più alti indici di competitività e, inoltre, nel 2016 ha confermato l’ottava posizione nel Nation Brands Index, che misura la reputazione che hanno nel mondo 50 Paesi di ogni continente. La storia di questo successo è racchiusa nella parola “Swissness”, un marchio oggi protetto dalla legge che regola il “Made in Switzerland”.

La Cc-Ti approfondirà, nell’abito delle attività previste per il Centenario (riassunte ed illustrate sul nostro sito) questo tema, con un evento dedicato nel corso dell’autunno.

Il successo della Swissness

Sui mercati internazionali Swissness è sinonimo di qualità, precisione, affidabilità e innovazione. Evoca l’immagine di un sistema-Paese stabile, efficiente, agile nel reagire alle crisi e aperto al mondo. Swissness non è, dunque, soltanto un marchio commerciale che, stando alle stime federali, genera di per sé stesso un plusvalore di 5,8 miliardi all’anno, è soprattutto una cultura e uno stile imprenditoriale che contraddistinguono il fare impresa in Svizzera. Non si spiega se non con questo forte spirito imprenditoriale (di gran lunga superiore alla media europea secondo il Global Entrepreneurship Monitor), il fatto che una Nazione di appena 8,5 milioni di abitanti vanti oltre 300mila piccole e medie imprese, un’incredibile presenza di multinazionali, una potente, e sempre invidiata, piazza finanziaria, una fitta rete di centri di ricerca di eccellenza mondiale con il più alto tasso di trasferimento di tecnologia al sistema produttivo.

È questa solida cultura d’intraprendere, così connaturata alle tradizioni del Paese, che ha permesso alle aziende elvetiche di reggere le ripetute crisi economiche di quest’ultimo decennio e, dal gennaio del 2015, di sostenere anche i pesanti contraccolpi dell’abolizione della soglia minima del cambio tra franco ed euro. Situazioni di crisi trasformate dalla determinazione degli imprenditori in nuove opportunità di crescita. Investendo ancora nell’innovazione, nonostante i margini ridotti di autofinanziamento a causa del franco forte, razionalizzando e ottimizzando i processi produttivi, cercando nuovi sbocchi di mercato e nuovi fornitori. E le esportazioni rossocrociate sono riprese a volare, toccando nel primo semestre di questo anno livelli record.

Per i nostri imprenditori, la Swissness è la cultura d’impresa consapevole verso apertura ed innovazione.

Una vera cultura d’impresa

Per i nostri imprenditori, Swissness è una cultura d’impresa consapevole che per misurarsi con il mondo è necessario aprirsi verso esso e che per primeggiare bisogna restare sempre tra i migliori. È la profonda convinzione che la competitività non la si conquista una volta per tutte, che essa è, invece, un traguardo che si sposta continuamente in avanti. È l’orgoglio di fare sempre e meglio, d’innovare per proporre nuovi prodotti e servizi e guadagnarsi il meritato riconoscimento dei mercati. Un’etica del lavoro radicata su un territorio vissuto non come spazio chiuso, ma quale luogo necessariamente aperto allo scambio di esperienze, saperi e competenze. È quella cultura del rischio e della responsabilità che al pretendere antepone l’intraprendere. Ma la fortuna della Swissness è saldamente ancorata anche ad un ordinamento liberale che ha riconosciuto e tutelato la libertà d’impresa e le opportunità d’impiego per tutti grazie ad un mercato del lavoro flessibile. Si è alimentata con la pace del lavoro e il dialogo tra le parti sociali, rifuggendo, però, da ogni tentazione corporativistica. Si è sviluppata attingendo ad un sistema formativo che gli altri Paesi ci invidiano, sebbene sia giunto il momento di ricalibrarlo sulle grandi trasformazioni indotte dall’economia digitale. E in un Paese che guadagna un franco su due commerciando con l’estero, è prosperata sulla vocazione cosmopolita della Svizzera che ha attirato qui lavoratori, ingegni e talenti da ogni parte del mondo. La Swissness ha anche beneficiato di una stabilità politica che ha sempre rassicurato gli imprenditori e di un rigore nella gestione del bilancio nazionale che può vantare un rapporto tra debito pubblico e PIL del 32,6%, rispetto all’83,6% della media europea. Un Paese, quindi, con i conti in ordine, non costretto, come accade altrove, a spremere cittadini e imprese per rassestare le casse pubbliche con un fisco da rapina.

Orientati al successo: Swissness è sinonimo di qualità, precisione, affidabilità e innovazione.

Una deriva pericolosa

Molti di questi vantaggi e valori su cui è cresciuto il nostro Paese, oggi sono rimessi in discussione da una deriva istituzionale e culturale che minaccia pesantemente la libertà economica, diritto riconosciuto dalla Magna Carta sin dal 1874 quando era definito “libertà di commercio e d’industria”. L’eccesso di leggi, regolamenti e vincoli amministrativi, la burocrazia ipertrofica che, dalla produzione ai servizi, ha ormai colonizzato qualsiasi attività, lo statalismo pervasivo, l’assistenzialismo, la frenesia redistributiva e, non da ultimo, un diffuso populismo che ha contagiato buona parte del Paese con il virus del protezionismo e dell’isolazionismo, stanno mettendo a dura prova il nostro sistema economico e le fondamenta stessa della libera concorrenza su cui esso si è retto sino ad oggi. È stato lo stesso Consigliere federale Schneider-Ammann a ricordare, pochi mesi fa, che la sola Confederazione produce ogni anno 140 pagine di nuove leggi e, secondo l’Unione Svizzera delle Arti e Mestieri, questa furia regolamentatrice costa alle PMI, le piccole e medie imprese, circa 60 miliardi di franchi all’anno, ossia quasi il 10% del PIL nazionale. E alle normative federali andrebbero aggiunte quelle cantonali e comunali. Uno studio di UBS, già nel 2014 calcolava che in quell’ultimo decennio la raccolta ordinaria del diritto si era arricchita di 12mila pagine solo a livello federale, raggiungendo 66mila pagine di leggi; nello stesso anno il Forum economico mondiale avvertiva che la burocrazia statale era uno dei principali problemi per le aziende in Svizzera. Un altro studio del Credit Suisse, nel 2015 certificava che per una PMI su tre l’ostacolo maggiore agli investimenti erano le eccessive regolamentazioni. Un regolamentarismo forsennato a cui si è spesso accompagnato un uso distorto degli istituti della democrazia diretta: da sinistra per sollecitare ulteriormente l’interventismo statale e per redistribuire la ricchezza senza preoccuparsi di come produrla e accrescerla; da destra per fomentare campagne contro gli stranieri, erigendo vincoli e barriere che stanno ingessando il mercato del lavoro, con grave pregiudizio per l’autonomia delle imprese e la libertà economica. Una profonda regressione che stravolge il DNA di un Paese cresciuto su un ordinamento liberale e che rischia di scoraggiare l’impegno e lo spirito innovativo degli imprenditori che hanno portato la Swissness a primeggiare sui mercati mondiali.

Il dossier sulla Swissness quale cultura d’impresa è pubblicato sull’edizione di settembre di Ticino Business. Esso si compone di 4 articoli:

Swissness: la forza di una cultura d’impresa e di uno stile imprenditoriale
Conoscere meglio le disposizioni legali sulla Swissness
Il successo svizzero fra tradizione e sfide nuove
Campanello d’allarme per la Svizzera

 

Il Progetto RESTART per il ricollocamento dei disoccupati del settore commerciale

La Cc-Ti è impegnata nel sostegno fattivo al collocamento di persone in cerca d’impiego con un profilo professionale quale impiegato di commercio. Questo grazie al progetto RESTART, ed alla collaborazione con l’OCST. Ecco maggiori dettagli su questo specifico progetto.

RESTART è un percorso di sostegno intensivo al collocamento destinato a persone in cerca d’impiego con profili professionali del settore commerciale (impiegati di commercio). Questo progetto è gestito dal Centro di Formazione Professionale OCST (CFP-OCST) su mandato dell’Ufficio misure attive (UMA) della Sezione del Lavoro del Canton Ticino e accoglie annualmente nelle tre sedi di Lugano, Locarno e Porza fino a 450 persone. Ogni assicurato è affiancato a tempo pieno da un team di coach, formatori e consulenti, che lo seguono da vicino per un mese al massimo. Ne valutano il profilo, le competenze e l’atteggiamento, sostenendolo nell’elaborazione di un piano d’azione, nella redazione di un dossier di candidatura, nella preparazione dei colloqui di lavoro, nell’analisi e valorizzazione delle competenze e nelle tecniche di ricerca impiego.

Il 6 ottobre 2016 ha preso avvio una collaborazione tra la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino (Cc-Ti) e il CFP-OCST, al fine di favorire l’integrazione nel mondo del lavoro delle persone iscritte in disoccupazione in Ticino.

Questo servizio rappresenta una soluzione vantaggiosa per tutti gli attori in gioco, creando una situazione win-win. Le aziende possono far capo a personale qualificato residente, di cui sono state verificate competenze e attitudini; le persone in cerca d’impiego possono cogliere maggiori opportunità di rientrare nel mondo del lavoro; lo Stato può mettere a frutto gli investimenti nelle politiche attive del mercato del lavoro grazie alla collaborazione con le organizzazioni del mondo del lavoro.

Principali vantaggi per le aziende

Il servizio offerto dal programma RESTART è gratuito. Il coach RESTART diventa una forma di “garante” nei confronti delle aziende interessate al servizio di selezione offerto dal Centro di Formazione Professionale OCST. In questo senso, l’azienda in cerca di personale non deve fare altro che inviare la propria richiesta al Segretariato centrale RESTART e nel giro di poche ore riceverà un feedback, corredato dal dossier di candidatura dei potenziali candidati, verificato e selezionato dal coach responsabile. All’azienda viene inoltre data facoltà di mettere alla prova il/la candidato/a con la formula dello stage orientativo o della prova di lavoro di 3-5 giorni, con copertura assicurativa completa. Non da ultimo, in alcuni casi, qualora il profilo risultasse essere adeguato, le aziende interessate all’assunzione dei nostri candidati potrebbero beneficiare di incentivi previsti dalla legge, tramite l’Ufficio Regionale di Collocamento. Qualora le aziende associate alla Cc-Ti fossero alla ricerca di personale con un profilo commerciale più o meno qualificato, possono scegliere di rivolgersi al Segretariato RESTART, inviando possibilmente una job description ai contatti: Tel. 091 940 29 06, restart@cfp-ocst.ch

Trasparenza assicurata

Nel caso in cui il CFP-OCST non fosse in grado di segnalare profili in linea con le job description ricevute dalle aziende in cerca di personale, informerà tempestivamente queste ultime, le quali potranno quindi procedere alla selezione del personale attraverso altri canali.

Siamo a vostra disposizione qualora voleste approfondire la tematica e il progetto presentotavi.
Per ulteriori dettagli in merito, è possibile contattare Roberto Klaus, Direttore SSIB, klaus@cc-ti.ch

“È inevitabile trovare l’equilibrio tra sostenibilità ed economia”

Se una azienda vuole avere successo a lungo termine dovrebbe prendere in considerazione le nuove generazioni, afferma Simone Pedrazzini, Consulente in Sostenibilità dell’azienda Quantis. Per i giovani la  sostenibilità è parte integrante della vita quotidiana. Eccovi un’intervista che affronta la tematica della responsabilità sociale delle imprese, argomento molto caro alla Cc-Ti, di cui continuiamo a parlare con spunti sempre differenti. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e la nostra posizione sulla RSI.

Signor Pedrazzini, quali circostanze hanno reso possibile la fondazione della ditta Quantis, la quale si occupa della comunicazione dei contenuti di sostenibilità?

Non siamo nati sotto l’ottica della comunicazione bensì sotto quella della quantificazione di metriche legate alla sostenibilità. Quantis è stata fondata quale start up del politecnico di Losanna, con un background scientifico, che oggi valorizziamo anche con il supporto alle aziende per la comunicazione.

Secondo Lei, quale tipo di sostenibilità è più importante per le aziende, quella ambientale o quella sociale?

In generale dipende dal settore. Noi ci muoviamo piuttosto nella sfera ambientale con lo scopo di calcolare e valutare in maniera oggettiva l’impatto delle attività aziendali. Penso che gli strumenti quantitativi a disposizione del campo della sostenibilità ambientale siano più sviluppati perché il legame con quello che viene svolto nel mondo fisico è più immediato.

Ma verosimilmente questo non è l’unico motivo per dare tanta importanza alla sostenibilità ambientale.

I dirigenti delle ditte concordano sul fatto seguente: se voglio avere una vera strategia aziendale mi conviene avere una fotografia completa della situazione ambientale ed anche sociale al fine di essere a conoscenza in modo completo del ciclo intero.

Da quali settori provengono le imprese che si rivolgono a voi?

Siamo attivi in tutti gli ambiti economici. Tradizionalmente il settore degli alimentari si ritrova più frequentemente degli altri perché il campo agroalimentare richiama molto l’attenzione pubblica. Questo perché ci tocca tutti da vicino ed ha quindi un’alta componente emotiva.

E al di fuori del campo agroalimentare?

Oggigiorno i settori sono molto variegati: la gamma si estende dal tessile alla telecomunicazione e alla logistica. Senza dimenticare l’ambito dei servizi, penso per esempio al settore finanziario o a quello dei grandi eventi sportivi.

 Sembra essere una tendenza molto in voga.

Sicuramente la sensibilità è aumentata, anche perché un possibile incidente in questo campo può avere grandi ripercussioni sulle aziende. Nel passato era prerogativa quasi esclusiva dei grandi gruppi multinazionali anticipare lo sviluppo in questo campo. Mentre oggigiorno anche le PMI si posizionano bene nella tematica della sostenibilità, questo anche perché molto spesso riforniscono le grandi aziende. La sostenibilità inizia ad essere vista come un vantaggio competitivo, se affrontata in maniera proattiva permette di migliorare anche il posizionamento economico.

Se la sostenibilità viene affrontata in maniera proattiva permette di migliorare anche il posizionamento economico.

Perché le aziende fanno fatica a comunicare efficacemente la loro attenzione verso il campo della sostenibilità?

Vedo due aspetti che sono decisivi a questo proposito. Per prima cosa c‘è il rischio del cosiddetto green washing cioè di una sostenibilità ambientale soltanto superficiale che si dimostra molto spesso quale problema fondamentale. In secondo luogo esistono delle realtà con base solida riguardo agli sforzi di sostenibilità e la sensibilizzazione, ma c`è il problema della complessità: come semplificare i messaggi senza snaturare il contenuto che rispecchia complessivamente una situazione di solito non semplice?

Ma da ogni situazione risulta una verità piuttosto semplice.

Se voglio comunicare i miei sforzi di sostenibilità in maniera ampiamente comprensibile debbo fare i tre passi della proposizione tematica, della prova e del posizionamento. Ma a parte queste tre “p” devo raccontare qualcosa alla gente che le dia la voglia di, in un certo modo, sognare. Le nuove generazioni vogliono associarsi ad una vita in cui la sostenibilità viene incentivata, è proprio così. I giovani tendono ad essere coinvolte in belle storie che però sono vere e oggettive.

Trova esista un buon compromesso tra la sostenibilità ambientale e quella economica?

È inevitabile trovare questo equilibrio. Mi capita di poter lavorare con persone che ne sono convinte sin dall’inizio. Ma a quelle che sono molto pragmatiche devo dimostrare le positive conseguenze economiche della sostenibilità.

Quali sarebbero?

Miglior posizionamento del brand, dialogo sincero e trasparente con il cliente finale in modo da fidelizzarlo e conquista di nuovi mercati sensibili alla tematica. E non da ultimo, citerei anche la capacità di attirare nuovi dipendenti, visto che i talenti delle nuove generazioni vogliono mettersi a disposizione di aziende che possano avere un’influenza positiva sulla società.

Lei certamente ha una visione della sostenibilità futura.

Per me la sostenibilità rimane tale qual è: bisogna cambiare il ritmo per evitare il peggio. Dobbiamo affrettarci perché gli obiettivi da raggiungere sono ambiziosi ed il tempo corre. Per ridurre l’aumento della temperatura globale per esempio bisogna reagire adesso.

Imprese familiari, un patrimonio da valorizzare

testo a cura di Alessio Del Grande

Si è tenuta lo scorso giugno l’assemblea dell’AIF Ticino, l’Associazione che raggruppa le imprese familiari, ossia le aziende il cui capitale appartiene da generazioni ad una famiglia. Un’occasione importante per ricordare il peso e il ruolo di una realtà imprenditoriale che per il Cantone, come del resto per tutta la Svizzera, rappresenta l’ossatura del sistema economico.
Basta pensare che da sole le 67 aziende ticinesi affiliate all’AIF hanno registrato nel 2016 un fatturato di quasi 2 miliardi di franchi, impiegando 3’800 collaboratori. Sebbene il 62% circa delle imprese del nostro Cantone e il 78% su scala nazionale abbiano una struttura familiare, si tratta di una realtà che, purtroppo, è spesso sottovalutata, se non ignorata, dal mondo politico.
Eppure negli anni più duri di questa ultima crisi, quelli che vanno dal 2008 al 2015, con i contraccolpi dell’abbandono del cambio fisso tra franco-euro, sono state soprattutto queste imprese a salvaguardare in Svizzera i livelli occupazionali, fronteggiando problemi e difficoltà non da poco per continuare ad investire nell’innovazione e restare competitive.
Le aziende “family business”, che in Ticino sono il principale contribuente per il fisco, costituiscono un articolato tessuto economico molto diversificato che si estende ad ogni settore produttivo. Si va da esercizi commerciali storici con oltre un secolo di attività, all’industria che dà lavoro a centinaia di persone, dalla piccola azienda artigianale o agricola con pochi dipendenti al gruppo bancario e alla grande multinazionale come la Rochedella famiglia Hoffmann. Per la loro stessa natura, connotata dall’impronta familiare, queste imprese possono vantare un più forte legame con il territorio in cui hanno costruito la loro storia, con le comunità locali, con i propri dipendenti, i fornitori e i clienti. Il nome della famiglia contrassegna, insomma, una cultura imprenditoriale che evidenzia un forte senso di responsabilità sociale. Anche quando hanno una chiara vocazione internazionale, esse non trascurano quelle radici territoriali in cui continuano ad identificarsi. Oltre che un fattore decisivo per la stabilità economica, sono quindi anche un potente motore di crescita e coesione sociale.

Le imprese familiari si distinguono per una cultura imprenditoriale che evidenzia una forte responsabilità sociale.

Per gli investimenti più che all’indebitamento ricorrono all’autofinanziamento, lavorano dunque con i propri soldi, secondo una logica che va ben al di là del “corto terminismo” della redditività immediata, orientandosi invece sul lungo periodo, pensando alla generazione futura per garantire la continuità aziendale. Ma l’enorme potenziale delle imprese familiari è oggi mortificato da una politica federale sempre meno liberale, da una burocrazia ancora più invasiva, da restrizioni e vincoli amministrativi che ne limitano la competitività e le prospettive di crescita. E, come ha ricordato il Professor Marco Bernasconi all’assemblea dell’AIF, sono pesantemente penalizzate da una pressione fiscale che in Ticino colpisce in modo particolare questo modello aziendale, con un’aliquota sulla sostanza del 3,5 per mille, vale a dire la stessa del 1950, mentre quella sul reddito è scesa dal 18% al 17% soltanto per effetto della tassazione annuale. Un quadro sconfortante per un patrimonio economico e sociale che andrebbe invece valorizzato e sostenuto, sia nella successione generazionale, che rappresenta sempre uno dei momenti più delicati e complessi per queste imprese, sia nel salto tecnologico imposto dalla nuova economia digitale che sta trasformando radicalmente la produzione di merci e servizi.

Esportazioni record nel primo semestre del 2017

di Monica Zurfluh, responsabile S-GE per la Svizzera italiana e Marco Passalia, vice direttore e responsabile Export Cc-Ti

Il commercio con l’estero continua ad essere il fiore all’occhiello dell’economia elvetica. Ne sono la dimostrazione le statistiche divulgate dall’Amministrazione federale delle dogane relative ai primi sei mesi di quest’anno.

La prima metà del 2017 ha fatto segnare un notevole progresso sia nel campo delle esportazioni (+ 4,4%) sia in quello delle importazioni (+ 4,8%). Mentre le prime toccano un livello record, le importazioni fanno registrare il più alto valore degli ultimi 8 anni. In ambedue le direzioni di traffico i prodotti chimici e farmaceutici hanno contribuito considerevolmente alla crescita globale. La bilancia commerciale chiude con un surplus di 19 miliardi di franchi.

Gli Stati Uniti trascinano i mercati

In esportazione, l’evoluzione positiva è stata segnata nei tre principali mercati. In particolare nell’America del Nord, gli Stati Uniti hanno avuto un balzo del 7% e l’Asia ha progredito del 6%. Le vendite in questo continente hanno registrato 1.3 miliardi di franchi. Con una progressione di un quinto, le cifre d’affari con la Cina hanno raggiunto un nuovo record. Singapore e la Corea del Sud hanno anche marcato una crescita a due cifre mentre il Giappone si è, per così dire, limitato a un +9%. Il Medio Oriente è invece caduto nelle cifre rosse con un -16%. Il continente europeo si è limitato a un +4%, di cui le nazioni più performanti sono state la Germania (+7%), imitata dal Belgio (+9%), seguite da Austria e Italia (+5%).

L’evoluzione positiva è stata segnata nei tre principali mercati. In particolare nell’America del Nord, gli Stati Uniti hanno avuto un balzo del 7% e l’Asia ha progredito del 6%.

Pioggia di primati per le esportazioni

Nel primo semestre del 2017 la crescita delle esportazioni è stata registrata per i due terzi dai prodotti chimico-farmaceutici. Questi ultimi hanno infatti segnato un +7% raggiungendo un livello storico. Gli altri settori trainanti dell’export, ovvero quello delle macchine e dell’elettronica, come anche l’orologeria, hanno avuto una stagnazione. Dopo però tre mesi di cifre negative, gli orologi svizzeri sono riusciti a fermare l’emorragia che li attanagliava da mesi.

L’orologeria sembra uscire dalla spirale negativa

Come indica anche la Federazione dell’industria orologiera svizzera (FH) in un comunicato stampa sui dati del primo semestre dell’anno, dopo mesi difficili, il settore si è progressivamente adattato al nuovo contesto nel quale dovrà evolvere. Le conseguenze negative sui mercati hanno in effetti fatto spazio a un re-indirizzamento, che si è già tramutato in una netta ripresa. Se le esportazioni orologiere svizzere non mostrano dappertutto il medesimo dinamismo, globalmente s’iscrivono in una tendenza stabile che mostra la fine di un periodo negativo. Secondo la FH, tale stabilità non sarà però attesa prima della fine dell’anno.

Durante i primi sei mesi del 2017, le esportazioni di orologi si sono attestate a 9.5 miliardi di franchi. Paragonando i risultati dello stesso periodo con l’anno precedente, vi è stata una leggera variazione del +0.1%. La Cina e il Regno Unito sono i Paesi che hanno trainato in positivo le cifre e che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa evoluzione.

Sempre secondo la Federazione svizzera dell’orologeria, con un buon secondo trimestre (+3%), l’obiettivo per l’anno 2017 è così già raggiunto. La situazione resta comunque fragile localmente. Gli Stati Uniti non hanno preso parte alle cifre positive e alcuni mercati europei o asiatici sono ancora sotto stretta osservazione. La previsione per il 2017 resta dunque prudente, ma cela un certo ottimismo.

Pioggia di primati per le esportazioni

Nel primo semestre del 2017 la crescita delle esportazioni è stata registrata per i due terzi dai prodotti chimico-farmaceutici. Questi ultimi hanno infatti segnato un +7% raggiungendo un livello storico. Gli altri settori trainanti dell’export, ovvero quello delle macchine e dell’elettronica, come anche l’orologeria, hanno avuto una stagnazione. Dopo però tre mesi di cifre negative, gli orologi svizzeri sono riusciti a fermare l’emorragia che li attanagliava da mesi.

L’orologeria sembra uscire dalla spirale negativa

Come indica anche la Federazione dell’industria orologiera svizzera (FH) in un comunicato stampa sui dati del primo semestre dell’anno, dopo mesi difficili, il settore si è progressivamente adattato al nuovo contesto nel quale dovrà evolvere. Le conseguenze negative sui mercati hanno in effetti fatto spazio a un re-indirizzamento, che si è già tramutato in una netta ripresa. Se le esportazioni orologiere svizzere non mostrano dappertutto il medesimo dinamismo, globalmente s’iscrivono in una tendenza stabile che mostra la fine di un periodo negativo. Secondo la FH, tale stabilità non sarà però attesa prima della fine dell’anno.

Durante i primi sei mesi del 2017, le esportazioni di orologi si sono attestate a 9.5 miliardi di franchi. Paragonando i risultati dello stesso periodo con l’anno precedente, vi è stata una leggera variazione del +0.1%. La Cina e il Regno Unito sono i Paesi che hanno trainato in positivo le cifre e che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa evoluzione.

Sempre secondo la Federazione svizzera dell’orologeria, con un buon secondo trimestre (+3%), l’obiettivo per l’anno 2017 è così già raggiunto. La situazione resta comunque fragile localmente. Gli Stati Uniti non hanno preso parte alle cifre positive e alcuni mercati europei o asiatici sono ancora sotto stretta osservazione. La previsione per il 2017 resta dunque prudente, ma cela un certo ottimismo.

Il futuro si crea adesso

Quest’interessante approfondimento che vi riproponiamo è stato pubblicato sull’edizione di Ticino Business di maggio 2017 e si inserisce nel discorso delle nuove forme di lavoro, già affrontato a più riprese dalla Cc-Ti, a cui abbiamo dedicato numerosi articoli e dossier.

Nuovi sistemi di transazione nel commercio di materie prime

Il commercio di materie prime è uno dei settori di punta che stanno trainando l’economia elvetica. Un ambito ai più forse sconosciuto, ma che genera il 3,5% del PIL nazionale. Dopo Ginevra e Zugo, Lugano ricopre un centro riconosciuto a livello mondiale dove hanno sede le maggiori aziende di commodity trading, attive soprattutto nel commercio di acciaio, petrolio, oro ma anche soft commodities come il grano. La professione di trader di materie prime è forse una delle più vecchie al mondo. I “traders” – i “commercianti” – hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite quotidiane. Che si tratti del nostro caffè, del cacao consumato dai più giovani, dal cotone di cui sono fatti i nostri vestiti, o dell’energia che ci dà calore o elettricità, niente di tutto ciò sarebbe possibile senza il lavoro dei commercianti in materie prime.

Un’innovativa rivoluzione digitale

Anche in questo settore è in atto un ulteriore e fondamentale cambiamento che porterà a nuove forme di lavoro. È infatti recente la dichiarazione del co-fondatore di Mercuria Marco Dunand, durante il Forum Economico di Davos il cui tema principale era proprio la digitalizzazione, di aver utilizzato con successo la tecnologia “blockchain” in alcune operazioni. “L’industria energetica dovrà mirare ad una sempre maggiore digitalizzazione nella produzione di petrolio, nella raffinazione e nel trasporto”, ha dichiaratore alla Reuters Dunand. Secondo il CEO della società petrolifera, il concetto che si cela dietro l’operazione è abbastanza semplice e cercheremo di spiegarlo in poche righe anche ai non addetti ai lavori. Oggi, quando il carico viene spedito, il capitano della nave deve timbrare in tre copie la cosiddetta polizza di carico (bill of lading), che poi viene spedita via posta in diverse direzioni. Anche per via raccomandata, questi documenti possono circolare per oltre un mese prima di giungere al destinatario finale, malgrado magari la merce debba essere pagata entro 30 giorni. Un tale sistema si rivela arcaico e ormai superato ai tempi di internet e di un mondo che viaggia nell’immediato. Il sistema blockchain permette di rendere tutto più veloce e tempestivo, facendo inoltre risparmiare denaro.

Un’operazione vantaggiosa

La transazione di Mercuria ha coinvolto una spedizione cargo di petrolio greggio africano che è stato venduto per tre volte durante il suo cammino verso la Cina. Muovendo le transazioni verso una versione privata della blockchain, una copia criptata della polizza di carico è stata inviata al venditore, mentre la piattaforma della banca olandese ING ha verificato che i documenti pertinenti erano conformi allo “smart contract” che aveva definito i termini della transazione. Il tempo medio impiegato dalla banca per completare il suo compito durante la transazione è stato di 25 minuti, contro le 3 ore che ci si impiegherebbe con i metodi tradizionali. Secondo il CEO di Mercuria, l’azienda ha così risparmiato circa il 30% sui costi della transazione.

I sistemi interbancari di pagamento sembrano stiano per subire una profonda trasformazione e i clienti richiedono una maggior sicurezza informatica.

Una grande alleanza spinta verso il futuro

I sistemi interbancari di pagamento sembrano stiano per subire una profonda trasformazione. I sistemi SWIFT sono obsoleti e i clienti richiedono una sempre maggior sicurezza informatica. Grazie al blockchain, un sistema di messaggeria e di registrazione a crittografia sicura in una banca dati comune, si possono effettuare operazioni tra investitori e imprese senza l’aiuto di terzi. Tale rivoluzione non sembrerebbe però minacciare l’esistenza stessa delle banche che già oggi hanno provveduto a fondare l’Enterprise Ethereum Alliance, un’alleanza che raggruppa circa una trentina di aziende tra cui grandi gruppi bancari come UBS, Credit Suisse, JP Morgan e ING, oltre a colossi dell’high tech come Microsoft e Intel, grandi aziende dell’energia e dell’informazione, tra cui Thomson Reuters, e startup. L’obiettivo di questa organizzazione, fondata lo scorso 28 febbraio, è la creazione di una versione standard del software Ethereum che potrà essere utilizzato in tutto il mondo per tenere traccia dei dati e dei contratti finanziari. Questa nuova alleanza, sotto il cappello di un’associazione senza scopo di lucro, è parte di un più vasto movimento che vuole utilizzare la tecnologia blockchain introdotta con la criptomoneta Bitcoin che nel 2009 fu proprio il primo prototipo di questa nuova tecnologia.

Come funziona?

Il blockchain utilizza un sistema simile a quello che ha permesso la creazione di Wikipedia, che si basa su un sistema decentralizzato e che permette di memorizzare dati senza però fare affidamento a un server centrale. Questa tecnologia risulta quindi essere molto più difficile da violare per gli hacker. Dopo il successo dei Bitcoin, la vera rivoluzione è avvenuta nel 2014 quando vi è stato lo sviluppo degli smart contract, i “contratti intelligenti”, ovvero software “scritti” su un blockchain, quindi una piattaforma comune, che verificano automaticamente tutte le condizioni prestabilite.

La nave verso la Cina, senza intoppi cartacei

Tornando al caso di Mercuria, l’introduzione di blockchain ha permesso di passare la merce dal compratore al mittente al venditore senza procedere attraverso i diversi documenti cartacei delle polizze di carico. Il CEO e co-fondatore di Mercuria Dunand ha dichiarato che se l’intero processo di transazione del commercio di petrolio si basasse interamente sulla tecnologia blockchain e sugli smart contract, il sistema potrebbe diventare più sicuro e i costi associati alle transazioni fisiche e al loro finanziamento potrebbero diminuire. Il caso di Mercuria non è isolato, anche Trafigura, con Natixis e IBM stanno lavorando su una soluzione blockchain per gestire le transazioni di greggio nel mercato statunitense. Il futuro quindi si sta creando adesso.

Se l’intero processo di transazione del commercio di petrolio si basasse interamente sulla tecnologia blockchain e sugli smart contract, il sistema potrebbe diventare più sicuro.

Nuove forme di lavoro?

Tali cambiamenti tecnologici portano in sé una profonda trasformazione della professione. Ciò non significa che diminuendo il supporto bancario nelle transazioni su blockchain verrebbero meno posti di lavoro nel settore. Vi sarà piuttosto un processo di trasformazione e disintermediazione che porterà a nuove forme di servizi e di consulenze. Serviranno inoltre nuove conoscenze, anche per gli aspetti legali, inerenti i contratti intelligenti e le loro implicazioni. Insomma, un nuovo modo di commerciare le materie prime, e non solo, che avrà ripercussioni su tutti i settori collegati. In effetti, lo ricordiamo, il commodity trading genera indirettamente lavoro per altre professioni altamente qualificate che ruotano attorno a competenze ben specifiche: spedizioni, trasporti, finanziamento delle operazioni, assicurazioni dei rischi, problematiche giuridiche, conoscenze di lingue straniere e così via.

La professione del futuro
Se alcuni metodi di lavoro, come quello della blockchain cambieranno il sistema delle transazioni, la professione del trader rimarrà molto ambita. Le aziende sono sempre alla ricerca di nuovi talenti offrendo prospettive e opportunità professionali interessanti. La Lugano Commodity Trading Association (LCTA) propone un certificato in studi avanzati (CAS) per tutte le persone interessate ad entrare a far parte di questo interessante settore. La terza edizione ha preso avvio questo mese di maggio e darà sicuramente la possibilità a nuove leve di entrare nel settore. Per maggior informazioni: www.lcta.ch/cas-commodity-professional.

Dare più senso al lavoro

Il tema della sostenibilità è centrale per la Cc-Ti, ne abbiamo parlato a più riprese, organizzando eventi, corsi e scrivendo numerosi approfondimenti. Vi proponiamo un’intervista a Heinz Zeller, Head of Sustainability and Logistics di Hugo Boss, che presenta il punto di vista di una grande azienda del settore della moda, dove la sostenibilità incide molto sulla reputazione del marchio. Inoltre la responsabilità ambientale e sociale è uno stimolo all’innovazione. Ritrovate qui il resoconto dell’evento sulla RSI e la strategia aziendale dello scorso mese di maggio, e rileggete anche la posizione della Cc-Ti in merito.

Signor Zeller, per quale motivo Hugo Boss ha creato il reparto “sustainability” di cui è il responsabile?

I primi passi sono stati fatti più di dieci anni fa. Allora il tema erano i rischi sociali nella supply chain come pure la possibile presenza di sostanze pericolose nei vestiti e per questo abbiamo iniziato a consultare degli esperti della sostenibilità. Poi nel 2012 era pronta la nostra road map della sostenibilità aziendale integrata concernente coerentemente ogni reparto, sia l’intera supply chain, lo sviluppo dei prodotti, sia le risorse umane ed il facility management.

Dove inizia esattamente la vostra sostenibilità?

Le persone desiderano che inizi all’origine, cioè dalla materia prima. Un compito esigente; ma lo stiamo realizzando. Inoltre abbiamo già iniziato a realizzare pienamente la sostenibilità per quanto attiene la produzione di cotone. Dopodiché anche i nostri imballaggi sono diventati più piccoli, con materiali certificati che sono sia decomponibili che riciclabili.

Cosa incide di più per Hugo Boss, la sostenibilità sociale o quelle ambientale?

In sostanza rispondo per tutto il settore della moda: prima viene la sostenibilità sociale, poi subito dopo il benessere degli animali, ancor prima dell’impatto ambientale. Ma importanti sono tutti e tre gli aspetti. Rinunciamo ad ogni prodotto di pelliccia, usiamo soltanto delle pelli ma che non siano di provenienza” esotica”. Riguardo le piume usiamo solamente materiali certificati per garantire una protezione massima degli animali. Abbiamo abbandonato anche la lana di angora.

Ovviamente il settore della moda è sotto stretta osservazione dagli animalisti ed ambientalisti.

Abbiamo discusso ampiamente sia con le categorie citate sia con tutti gli altri stakeholder e abbiamo loro dimostrato i nostri sforzi riguardo la sostenibilità. Dopo vari incontri e discussioni abbiamo potuto implementare delle misure condivise e l’intensa attenzione degli interessati menzionati è diminuita. Integrare la sostenibilità è un importante passo strategico.

Come stabilisce l’equilibrio della sostenibilità sociale e ambientale con le esigenze economiche?

Cerchiamo una collaborazione a lungo termine con diverse istituzioni o organizzazioni e ditte specializzate per sviluppare delle soluzioni innovative. Inoltre trasformiamo, per esempio, l’impatto ambientale in cifre finanziarie cioè ci chiediamo quanto grande o piccolo sia un tale impatto in termini di costi monetari. E così possiamo capire sia gli impatti e sia gli investimenti necessari per diminuire fenomeni negativi riguardo la sostenibilità.

Spesso si sente la seguente affermazione: chi trascura la sostenibilità avrà degli svantaggi economici pesanti.

Piuttosto direi che oggigiorno la sostenibilità significa un cambiamento necessario di pensiero. Nel settore della moda è necessario per i marchi: c’è il bisogno di un’alta qualità legata alla sostenibilità che da parte sua nel frattempo è ben radicata nelle teste della popolazione. Perciò ci vuole un’innovazione il cui stimolo è, appunto, la sostenibilità. Questa da più senso al lavoro, ai prodotti.

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future.

Come si definirebbe questo senso?

I migliori talenti cercano sempre un senso nel lavoro che fanno. Vogliono avere delle visioni incentivanti del loro lavoro di cui, per essere concreti, fa parte proprio la sostenibilità. Questa implica una vita migliore in ogni senso.

Lei è anche responsabile della logistica di Hugo Boss. In quale misura questa può migliorare la sostenibilità ambientale dell’intera impresa?

Le faccio un esempio che concerne il trasporto di materiale dalla Cina: usiamo la nave o l’aeroplano? Nel mezzo di queste due soluzioni si trova il treno che è più costoso della nave ma anche più veloce e molto meno costoso dell’aeroplano – ed il suo impatto ambientale è basso. Alla fine una soluzione ideale per l’ambiente, dopo un investimento iniziale, porta spesso anche a notevoli risparmi economici, cioè riguardo gli operating costs.

Le grandi aziende hanno senz’altro i fondi per realizzare conseguentemente la sostenibilità. Le PMI invece fanno spesso fatica a trovare mezzi e risorse.

Aziende che vengono fondate oggigiorno sovente già nascono, per così dire, con l’idea della sostenibilità indipendentemente dalla loro grandezza. Il settore della moda può contribuire alla sostenibilità, fra l’altro, anche tramite la digitalizzazione che riduce il tempo per realizzare delle collezioni, con meno impatti ambientali grazie ad un minor e più preciso uso dei materiali. Studi del mondo economico hanno evidenziato che un leader nella sostenibilità diventa più facilmente un leader dell’innovazione e sopravvive a lungo termine.

Qual è la sua visione della sostenibilità futura?

Dobbiamo avere delle idee chiare sull’impatto sociale ed ambientale per il benessere delle generazioni future. E tutto ciò, fra l’altro, per la sopravvivenza delle aziende nel mondo economico.

Lavoro: trasformazione sociale e digitale

Vogliamo riproporvi la nostra posizione sul tema della trasformazione sociale in relazione alle nuove forme di lavoro. Si parla di generazione X e Y, di baby-boomers, ma anche di formazione e digitalizzazione. Un mondo che cambia e che offre spunti per nuove opportunità per le aziende.

Un famoso adagio recita che il lavoro nobilita l’uomo. Oggi diremmo piuttosto che, almeno in parte, l’uomo trasforma il lavoro e che lo rende o cerca di renderlo in qualche modo più consono alle esigenze di vita, attuali che si sono pure profondamente trasformate negli ultimi decenni. La definizione di lavoro è mutata fortemente nel tempo, come spiegato nell’articolo “Per una nuova cultura del lavoro” apparso su Ticino Business di maggio 2017, anche se resta uno dei perni centrali della vita, sia per le nuove leve che per chi ha già molti anni di esperienza sul campo. Ma il mondo del lavoro, da sempre in trasformazione, sta conoscendo mutamenti repentini e sono nati, stanno nascendo e nasceranno nuovi modelli di lavoro sempre più diversificati, grazie o a causa delle molte possibilità offerte dalla tecnologia. In questo contesto è ovviamente di particolare attualità la questione demografica, con le sue importanti implicazioni sull’aspetto previdenziale. Molte possibilità, molte innovazioni, ma paradossalmente una situazione complessiva che rischia di essere sempre più complicata e caratterizzata dall’esigenza di soluzioni “su misura”, non solo per le aziende ma anche per le lavoratrici e i lavoratori.

I baby-boomers e le nuove leve

Recentemente è stato pubblicato il nuovo documento dell’Ufficio cantonale di statistica (USTAT) denominato “Scenari demografici per il Cantone Ticino e le sue regioni, 2016-2040,” il quale ci fa riflettere su come si presenta e come evolverà la struttura della popolazione nel nostro Cantone. Fa riflettere il fatto che la popolazione ticinese invecchierà e attorno al 2035 la generazione del baby-boom si ritroverà nella fascia degli ultrasessantacinquenni. Essi saranno quindi già in pensione, oppure potranno continuare a lavorare secondo i nuovi modelli di lavoro che si stanno delineando in questi anni. In pratica tra 20 anni potremmo avere una eterogeneità di età di persone al lavoro che probabilmente non si è mai vista nella storia! Perché accanto a una parte di loro ci saranno la generazione Y (nati tra il 1982 e il 1996), che nel 2035 avranno tra i 40 e 50 anni, e le nuove leve della generazione Z.

Per trarre il maggior numero di vantaggi da questi cambiamenti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa.

Le nuove generazioni intendono il lavoro diversamente

Il quadro è quindi quello di una crescente diversità di età sul posto di lavoro e questo implica, già adesso, una varietà di modelli lavorativi. Il concetto dello stesso posto di lavoro per una vita e sempre a tempo pieno è oramai sempre più rimesso in discussione oggigiorno. E non solo per la vera o presunta precarietà, ma anche per la volontà delle lavoratrici e dei lavoratori. La tecnologia ha avuto un grande impatto sulle società e forse la generazione Y è la prima che ha interiorizzato così profondamente le possibilità che essa fornisce. Quella che un tempo era solo precarietà, oggi viene vista anche come flessibilità, con un’accezione positiva nel senso di una nuova possibilità di organizzare la propria vita e di svilupparsi in maniera poliedrica. Senza negare che vi siano problemi in questo processo di cambiamento, non va dimenticato il rovescio positivo della medaglia che ci sta portando verso modelli di lavoro sempre più diversificati e individualizzati. Questo porterà anche i datori di lavoro ad affrontare nuove sfide. Occorrerà pensare in maniera diversa per attrarre e mantenere i giovani talenti. Al contempo bisognerà trovare un equilibrio interno di gestione tra loro e i colleghi di generazioni diverse, abituati a un modo di approcciarsi al lavoro magari più tradizionale. La gestione di nuovi modelli di lavoro, e nuovi modelli di business in generale, è un compito affascinante ma al contempo molto impegnativo per le aziende, perché la rimessa in questione di molte cose date per acquisite è molto profonda e tocca tanti ambiti.

Una nuova cultura aziendale

Per riuscire a cavalcare e non subire questi cambiamenti e per trarne il maggior numero di vantaggi per tutti, è imprescindibile affrontare l’evoluzione anche dal punto di vista della cultura d’impresa. Questo va ben oltre la gestione del tempo parziale o del lavoro flessibile, c’è la necessità di ragionare, nel limite del possibile dell’attività condotta dalla propria azienda, a modi diversi di intendere la presenza sul luogo di lavoro e gli orari in cui esso viene svolto. Si può pensare a forme di collaborazioni diverse con i propri collaboratori come l’attività di free-lance, o concedere che essi possano svolgere più incarichi. Anche la possibilità di congedi che vanno oltre gli stop classici come quelli per maternità saranno necessari per motivare e mantenere in azienda le nuove generazioni. Si lavorerà più a lungo ma in modo probabilmente diverso. Come Cc-Ti siamo coscienti che quanto sopra esposto non è di facile attuazione e dipende da moltissimi fattori, avantutto le strutture aziendali e i modelli di business, che sono molto differenti da azienda a azienda, anche nello stesso settore. Specialmente in contesto caratterizzato da continui e repentini mutamenti e un aumento della concorrenza globale. Ma siamo fiduciosi che le aziende sapranno raccogliere anche questa sfida, come hanno dimostrato di saper fare in tempi recenti gestendo al meglio gravi crisi. Certo è che anche il contesto politico generale deve rendersi conto dei mutamenti e aprirsi a soluzioni nuove, senza arroccarsi sulla difesa a oltranza di modelli ampiamente superati dalla realtà del terreno. Non si tratta di far saltare tutte le regole, anzi. Ma quelle che ci sono devono corrispondere alle esigenze reali espresse da chi lavora.

Il valore della formazione

Abbiamo sempre considerato la formazione una parte importante della vita di ogni azienda. Non a caso da anni offriamo ai nostri associati la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di corsi per migliorare le conoscenze del proprio capitale umano. Ma il valore che assumerà la formazione negli anni a venire travalica quanto considerato in passato e assumerà una rilevanza ancora più strategica. Questo perché collaboratrici e collaboratori dovranno costantemente rimanere al passo ad esempio con l’evoluzione tecnologica, per sfruttarne al meglio le potenzialità. Il gioco di squadra fra datori di lavoro e dipendenti è fondamentale in quest’ottica, soprattutto per la generazione nata prima degli anni ‘80. Mentre per le nuove leve l’attenzione per l’acquisizione di competenze tecniche sarà una spinta importantissima per la considerazione e la soddisfazione verso il proprio lavoro.

Le sfide legislative e previdenziali

Abbiamo un diritto del lavoro pensato per un mondo che è già molto cambiato. Si veda ad esempio le “nuove” regole della Seco sul modo in cui si deve registrare il tempo di lavoro. Esse sono sì frutto di un compromesso, ma sono già vecchie perché pensate per modelli di business più rigidi di ciò che sta avvenendo sul terreno. Disposizioni coraggiose e al passo con i tempi avrebbero dovuto essere di altro tenore. Il che non significa sdoganare abusi o liberalizzare in modo selvaggio, bensì tenere conto del fatto che l’economia oggi è molto più complessa e ha esigenze di operatività ben diverse rispetto a qualche anno fa. Ovviamente in questo contesto va ripensato anche il metodo di finanziamento della previdenza, tema di grande attualità non solo in Svizzera ma in tutto il mondo occidentale. La riforma 2020 su cui si voterà prossimamente pensa al futuro assumendo che le nuove generazioni faranno come le precedenti, solo più a lungo. E questo è probabilmente un punto debole della riflessione. Si lavorerà più a lungo, forse, ma comunque in modo diverso e questo purtroppo non è stato preso in considerazione. Come si farà con i “buchi contributivi” magari dati da un periodo di stop oppure per un periodo lavorativo all’estero, che con la moderna mobilità potrà essere sempre più frequente? Tanti quesiti che i 70 franchi in più di rendita proposti per l’AVS non potranno risolvere. La previdenza professionale, ma soprattutto quella facoltativa del terzo pilastro dovranno probabilmente assumere maggiore importanza, ma definire come è, occorre ammetterlo, un compito assai arduo.

La gestione del cambiamento sarà fondamentale

Le nuove forme di lavoro saranno trainate da cambiamenti di ordine demografico e sociologico importante e l’unico punto fermo che al momento si può intravvedere è che ci saranno probabilmente sempre meno punti fermi. Sembra un paradosso, ma è così e non è per forza solo negativo. In questo senso la gestione del cambiamento in azienda sarà vieppiù un tema caldo per dirigenti e collaboratrici e collaboratori. Imparare ad accettare il mondo che cambia e muoversi con lui è sicuramente una buon via per mantenersi al passo con i tempi. Essere in sintonia con il momento storico in cui si vive è quindi un obbiettivo da tenere bene in vista per la navigazione nelle acque imprevedibili dei nostri giorni.

Interessati ad approfondire maggiormente il tema?
Scaricate il dossier tematico sulle nuove forme di lavoro, pubblicato sull’edizione di maggio 2017 di Ticino Business, cliccando qui.