La fallace illusione del comando e controllo
Ogni giorno i manager prendono decisioni che determinano il funzionamento delle aziende per cui lavorano. Ciascuna di queste decisioni è presa nella convinzione che le azioni decise, una volta messe in pratica con perizia e impegno produrranno un risultato prevedibile, controllabile e auspicabilmente positivo.
Anche se sembrerà strano, questo non lo si impara nelle scuole manageriali di grido, ma nella culla. Ci togliamo il ciuccio dalla bocca e lo lanciamo aldilà del bordo della culla, la mamma lo riprende paziente e, dopo averlo pulito, ce lo rimette, noi lo togliamo e lo gettiamo ancora e così per molte altre volte sino a quando la pazienza della mamma finisce. Si chiama ripetizione ludica e serve ad apprendere come controllare la realtà. Quindi per il resto della vita partiremo dall’assunto che ad ogni azione segue una reazione e che questa reazione è generalmente prevedibile a condizione di padroneggiare l’azione. Funziona talmente bene questo principio che ci permette di fare molto altro nella realtà, come ad esempio guidare un’auto.
Di questo principio fa parte un interessante corollario, che ci arriva sempre dall’esperienza pratica: se applico una piccola forza ottengo un piccolo risultato, se ne applico una grande ottengo un risultato più eclatante. Ovvero esiste una proporzionalità diretta tra lo sforzo e il risultato. Del resto, se girate molto il volante dell’auto, questa fa una curva più stretta, o se schiacciate maggiormente l’acceleratore accelera più velocemente, o frena di più se voi premete forte sul pedale del freno. Nel codice manageriale tutto questo va sotto il nome di comando e controllo.
Con questi semplici principi e corollari abbiamo costruito navi, aerei e mandato l’Uomo sulla Luna. Quindi tornando al manager che ha appena preso una decisione, per quale ragione dovremmo contestargliela se il risultato auspicato non arriva?
Se i principi di comando e controllo sono validi, il motivo è di certo una cattiva esecuzione. Ciò sarà imputabile a scarsa competenza o mancanza di motivazione, oppure dei necessari impegno e determinazione. Insomma, è colpa dei collaboratori. Quindi basterà premere un po’ di più, cioè fare pressione manageriale, o mettere più risorse per ottenere il risultato richiesto. Tuttavia, la Storia insegna che molti Generali hanno perso più di una guerra per via dell’applicazione stolida di questi principi. Il punto è che essi pur non essendo sbagliati si applicano solo in alcuni contesti. Quali?
Contesti semplici o anche complicati, ma non a quelli complessi. La rete di interdipendenze che esiste fra gli elementi di un sistema complesso è tale che prevedere quale possa essere la risposta di un sistema a determinate azioni risulta difficile e talvolta persino impossibile. Le aziende e le organizzazioni moderne sono sistemi complessi che vivono all’interno di sistemi più ampi tutti correlati fra loro. In pratica esse sono all’interno di un ecosistema di business. Proprio come negli ecosistemi naturali una piccola modifica dell’ecosistema può produrre dinamiche e cambiamenti molto ampi su tutto l’ecosistema. La pandemia è un ottimo esempio, da una epidemia circoscritta le conseguenze si estendono ben oltre il confine sanitario, ma coinvolgono la scienza, l’economia, la sociologia, la psicologia, la politica e la geopolitica. Eravamo convinti che il mondo funzionasse in un modo estremamente stabile, in cui molte delle cose su cui facciamo affidamento erano date per scontate. La pandemia ha dimostrato il limite di queste illusioni.
Vivere in un contesto complesso cambia il modo in cui il management deve agire e richiede competenze che sono al momento rare. Per tutta una serie di ragioni socio-economiche, che sarebbe lungo esplorare, ci siamo spinti sempre di più in una focalizzazione al breve e abbiamo ridotto il raggio della nostra visione al nostro immediato intorno. Non siamo allenati ad avere visione d’insieme, cercando e mettendo assieme i tantissimi pezzi di puzzle che sono necessari per avere comprensione di uno scenario e un quadro minimamente predittivo.
Tendiamo a non privilegiare un approccio multidisciplinare alle cose e ci accontentiamo di visioni superficiali e unilaterali. Non siamo allenati a muoverci in contesti non ordinati, che mutano velocemente e che non sono facilmente prevedibili. Spesso non riconosciamo o ignoriamo i “segnali deboli”, ci accorgiamo di un fenomeno o, peggio, lo prendiamo in considerazione solo quando ormai è macroscopico, senza capire che i sistemi complessi non reagiscono in modo lineare, ma partono in sordina e poi esplodono. Perciò sottovalutiamo, non incrociamo gli elementi e quando il maremoto arriva diventa difficilissimo sostenerlo. Non siamo capaci di vivere nelle incertezze, ci produce stress, cerchiamo affannosamente punti certi e sicuri, che spesso non esistono.
Facciamo una grandissima fatica ad agire verificando i risultati e adattando costantemente le modalità con cui operiamo, sperimentando a volte in territori sconosciuti. Dopo ogni adattamento vogliamo e cerchiamo la stabilità. Un chiaro esempio sono le difficoltà di tutta la catena di approvvigionamento e logistica con cui le aziende si stanno dibattendo. Abbiamo creato prima un mondo basato sulla massimizzazione dell’ordine, con il just in time e il sincronismo fornitore-cliente, per garantirci la migliore efficienza abbiamo eliminato tutte le ridondanze all’interno delle nostre aziende, abbiamo spostato e concentrato larga parte della produzione in Cina e nei paesi asiatici. Abbiamo insomma creato le migliori condizioni di fragilità e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Consegne ritardate sino a molti mesi, materie prime e componenti di base alle stelle, funzioni di produzione in tilt e…probabilmente un notevole effetto sulle economie come rimbalzo più avanti nel tempo. Non voglio qui aprire il vaso di pandora del discorso ambientalista e della cosiddetta transizione green su cui pure ci sarebbe molto da dire. Tutte queste sono conseguenze di scelte prese
senza visione sistemica e comprensione dei sistemi complessi. Si poteva prevedere? Probabilmente si, d’altronde era stata prevista e persino simulata nei dettagli anche la Pandemia. Le condizioni che potevano generare queste crisi, peraltro collegate fra loro, erano tutte visibili. Semplicemente o non le abbiamo viste o abbiamo sperato che non capitasse mai la tempesta perfetta. Ma le tempeste arrivano sempre. Perciò è necessario rendere le organizzazioni, non robuste, parola che implica rigidità, ma antifragili, cioè costruite per essere capaci di riadattarsi rapidamente e flessibilmente.
Quindi che fare?
C’è un lavoro profondo sulle competenze legate al management della complessità che richiede un ripensare a come leggiamo e interpretiamo il nostro ecosistema di business, a quali condizioni creiamo all’interno delle nostre organizzazioni per permettergli di adattarsi costantemente. Non sono solo gli stili di management ad essere coinvolti, ma l’intero impianto organizzativo e il modo con cui le persone si muovono all’interno dell’organizzazione. Un lavoro che impone anche un mutamento dell’orientamento dal breve al lungo periodo, perché le condizioni necessarie per rendere le organizzazioni antifragili si costruiscono nel tempo. Dobbiamo ripensare il concetto di efficienza perché in un mondo complesso essa si ottiene attraverso organizzazioni agili e non più basate su concetti di comando e controllo. Tutto ciò riguarda leader, manager, ma anche collaboratori. Finché guarderemo al solo risultato di oggi e terremo la vista al solo giardino di casa nostra, illudendoci che sia sufficiente a costruire aziende e organizzazioni di successo, siamo destinati ad essere travolti dalle crisi.
Articolo a cura di
Andrea Abbatelli, Partner KIAI Sagl