Il licenziamento in tronco di un dipendente già licenziato in modo ordinario

Scheda redatta dall’Avv. Michele Rossi, Delegato alle relazioni esterne Cc-Ti.

I contratti di lavoro possono essere conclusi per una durata determinata o indeterminata. In caso di durata determinata cessano di esplicare effetti giudici allo scadere del tempo previsto. Per contro, nel caso di durata indeterminata la fine del contratto presuppone una disdetta.

La  disdetta è un atto formale con il quale una delle parti al contratto notifica all’altra la sua in tenzione di porre fine al rapporto di lavoro. Proseguendo con i distinguo, la disdetta può essere ordinaria o straordinaria. Quella ordinaria non presuppone alcun motivo da parte di chi la notifica e deve rispettare i termini di preavviso contrattuali. La disdetta straordinaria ha per contro un effetto immediato, nel senso che il contratto prende immediatamente fine, ma deve fondarsi su motivi gravi. Sono reputati gravi in particolare, quelle circostanze che non permettono per ragioni di

buona fede di esigere da chi dà la disdetta che abbia a continuare nel contratto. Si tratta di situazioni in cui il rapporto di fiducia tra le parti è irrimediabilmente compromesso.

Nella realtà può succedere che in determinate situazioni i due tipi di disdetta vengano utilizzati entrambi. In una sua sentenza (4A_546/2023) il Tribunale federale si è infatti occupato di un caso in cui un dipendente era inizialmente stato licenziato in modo ordinario e successivamente, durante il termine di preavviso, una seconda volta con effetto immediato. Infatti, dopo aver proceduto alla disdetta nel rispetto del termine ordinario di preavviso, il datore di lavoro aveva riscontrato alcune situazioni a suo parere incompatibili con il contratto di lavoro ancora in essere, e aveva pertanto proceduto in un primo tempo ad ammonire formalmente la persona e cinque giorni dopo ad un licenziamento in tronco.

È possibile procedere in tal modo? Se un dipendente ha già ricevuto una disdetta ordinaria può, durante il termine di preavviso, ricevere una seconda disdetta con effetto immediato che pone fine seduta stante, prima della scadenza, al rapporto di lavoro?

Il Tribunale federale ha detto di sì, ma in queste situazioni i motivi alla base del licenziamento devono essere particolarmente gravi. In altre parole, la valutazione circa l’esistenza di gravi motivi atti a giustificare un licenziamento in tronco deve essere effettuata in modo più severo se la persona ha già ricevuto una disdetta ordinaria. In effetti nel caso di una persona già licenziata in modo ordinario l’orizzonte temporale del rapporto lavorativo è già determinato ed è nota la data della cessazione del contratto. Per quale ragione è quindi necessario un ulteriore licenziamento in tronco? Non è sufficiente attendere lo scadere naturale del termine di disdetta? Queste sono le domande a cui è necessario rispondere in modo convincente per poter giustificare il secondo licenziamento.

Nel caso concreto il Tribunale federale ha inoltre considerato che il secondo licenziamento è intervenuto solo cinque giorni dopo l’ammonimento e che quindi non vi fosse una reale volontà del datore di lavoro di correggere il comportamento del dipendente ma piuttosto di anticipare la data della fine del contratto. Anche per questa ragione il datore di lavoro non avrebbe potuto ricorrere a una seconda disdetta con effetto immediato. In conclusione, bisogna essere particolarmente prudenti quando si intende procedere in questo modo. A volte meglio lasciar scadere il termine di disdetta ordinario che vedersi coinvolgere in lunghe procedure giudiziarie.

Scopri il Servizio giuridico della Cc-Ti!

PtX (Power-to-X), dall’elettricità ai carburanti sintetici (e-Fuel)

Entro il 2050, la Svizzera dovrebbe raggiungere zero emissioni di CO2. I settori che ancora generano emissioni di CO2 attraverso la combustione di carburanti fossili dovranno compensarle con altre misure. Con una quota del 33%, il traffico stradale è considerato uno dei maggiori produttori di CO2. È quindi necessario un intervenire in modo incisivo per raggiungere questo obiettivo ambientale

Oggi i veicoli elettrici sono l’unica tecnologia che permette di ridurre in maniera decisa le emissioni. Considerando l’intero ciclo d’impatto, tank-to-wheel o well-to-wheel, questo risulta ottimale solo per le propulsioni elettriche, a condizione che l’energia utilizzata venga prodotta a emissioni zero. Questa visione, sostenuta dai politici, è però ben lontana dalla realtà. Finché in Europa si utilizzeranno combustibili fossili per produrre elettricità, anche le BEV risulteranno solo parzialmente rispettose in termine di emissioni. Inoltre, le immatricolazioni di auto nuove  mostrano che le vendite di BEV sono stagnanti. L’apertura tecnologica è quindi essenziale per fare in modo che la transizione ecologica riprenda vigore. La Svizzera è più avanti dell’Europa quando si parla di decarbonizzazione: la legge sulla CO2 presuppone che l’energia elettrica sia a zero emissioni e considera gli e-Fuel come parte della soluzione. Per e-Fuel si intendono i carburanti sintetici nei quali gli idrocarburi (HC) sono costituiti da carbonio (C) estratto dalla CO2 e da idrogeno (H2) ricavato dall’acqua (H2O). Questa trasformazione è nota anche come PtX,  ovvero trasformazione dell’energia elettrica in combustibile (Power-to-Gas o Power-to-Liquid). Se la produzione prevede l’utilizzo di sola elettricità rinnovabile, si parla anche di refuel (combustibile rinnovabile).

La combustione degli e-Fuel produce comunque CO2, ma solo nella quantità che è stata prelevata dall’atmosfera per produrre il carburante stesso. Questo rende neutra la quantità di CO2 prodotto. Un’altra opportunità è l’idrogeno (H2), che può essere convertito in elettricità nelle celle a combustibile o utilizzato come carburante nei motori a combustione.
Lo scorso anno il nostro è stato il primo paese a considerare i carburanti sintetici nella propria legislazione sulle emissioni di CO2. Questo apre la strada a nuovi veicoli con alimentazione alternativa. Purtroppo, però lo sviluppo della produzione di elettricità da fonti rinnovabili è in ritardo. Se tutti i settori (trasporti, riscaldamento, calore industriale) dovessero passare totalmente all’energia elettrica, non ci sarebbe una capacità di produzione sufficiente. L’assenza poi di un accordo sull’elettricità con l’UE renderebbe difficile pianificare le quantità da importare.
Inoltre, l’aumento di capacità produttiva e di sistemi di distribuzione dell’energia è frenato dalle numerose opposizioni ai futuri progetti. La via è quindi quella dello sfruttamento di più fonti energetiche quali fotovoltaico, eolico, idrico, biomassa, solare termico e geotermico. È solo con uno sviluppo coordinato di queste fonti che sarà possibile produrre energia elettrica sostenibile.

Grazie all’abbinamento intelligente e alla conversione in energia immagazzinabile (e-Fuel) la produzione in eccesso da fonte rinnovabile potrà essere immagazzinata in modo sostenibile. In questo modo sarà possibile coprire il fabbisogno energetico previsto per il 2050 (30-60 TWh).
Oltre ai requisiti tecnici standard, anche la compatibilità con i motori attuali e la facilità di immagazzinamento sono fondamentali per gli e-Fuel.

I requisiti legali sono definiti nell’Ordinanza sulla messa in commercio di combustibili e carburanti rinnovabili o a basse emissioni (OCoCr). Questa si basa a sua volta sulla “Direttiva Europea sulle Energie Rinnovabili III” (Direttiva – UE – 2023/2413), la quale si pone i seguenti quattro obiettivi:

  • Sostenibilità: l’elettricità per la produzione deve provenire da fonti rinnovabili.
  • Abbinamento diretto: l’impianto di produzione PtX deve essere direttamente correlato a queste fonti di produzione rinnovabili.
  • Approvvigionamento di CO2: basato solo su fonti biogeniche o dalla cattura diretta dall’aria.
  • Obiettivo di riduzione: le emissioni di CO2 devono essere ridotte di almeno il 70% lungo l’intera catena di produzione.

Realisticamente, oggi non è possibile produrre una quantità sufficiente di elettricità “pulita”. Per produrre il fabbisogno della Svizzera di e-Fuel, sarebbero necessarie aree dell’ordine di 600-1’200 km2 nelle quali installare milioni di pannelli fotovoltaici. L’Empa sta valutando la produzione di carburanti sintetici in Oman, grazie anche alla collaborazione partner esterni (tra i quali anche la Ticinese Synhelion). L’Oman ha destinato 50’000 km2 di deserto alla produzione di idrogeno e di e-Fuel.

Non possiamo comunque aspettarci che intere aree desertiche vengano completamente coperte da impianti fotovoltaici. Il ciclo dell’efficienza è pure fondamentale. In questo senso il vantaggio delle BEV nel confronto well-to-wheel (dal foro di trivellazione alla ruota) rispetto, ad esempio, ai veicoli a idrogeno (H2, Fuel-Cell, FC) e ai veicoli a combustione di e-Fuel, è innegabile.
Grazie alla loro elevata efficienza, nessun’altra propulsione può eguagliare i risultati in termini di rendimento. Per contro, lo stoccaggio problematico e la volatilità della produzione di energia elettrica, possono essere risolti grazie al PtX. Per quanto riguarda gli e-Fuel la Svizzera non ha la capacità di produrre le quantità di carburanti sintetici di cui avrà bisogno in futuro. L’unica opzione praticabile è quella di importarli, ciò che significa dipendere comunque dalle forniture estere.

L’apertura tecnologica e l’abbinamento intelligente delle fonti energetiche permetteranno di raggiungere gli obiettivi e faranno sì che in futuro i veicoli, compresi quelli d’epoca, grazie alla miscelazione dei carburanti fossili con gli e-Fuel produrranno sempre meno emissioni di CO2.

CRASH TEST

Quale epoca industriale?

Da sin.: Jvan Jacoma, Managing Director/CEO  P911 AG – Sports Cars Sales & Service AG; Andrea Gehri, Presidente Cc-Ti; Gian Luca Pellegrini, Editor in Chief Quattroruote; Marcello Foa, Giornalista; Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti e Marco Martino, Responsabile economiesuisse per la Svizzera italiana

Parlare di crisi dell’automobile europea è probabilmente riduttivo, nel senso che si tratta di un ramo industriale di importanza sistemica per il nostro continente. E non solo per la Germania, al momento la più colpita, ma anche per la Svizzera che conta molte aziende e molti posti di lavoro legati alle forniture proprio per questo settore. E gli effetti della crisi tedesca li stiamo già subendo da qualche tempo, con prospettive decisamente negative per il futuro prossimo. Il tema è pertanto stato approfondito nel contesto di un’edizione dell’evento “CEO Experience” tenutosi qualche settimana fa e riservato a titolari e dirigenti d’azienda. Evento che la Cc-Ti organizza regolarmente con i partner BancaStato, economiesuisse e Sunrise e che per l’occasione è stato ospitato da Sports Cars Sales & Services SA di Grancia, concessionario ufficiale Bentley e Lamborghini e quindi attore in prima linea sul delicato tema del mercato automobilistico. Ospite della serata è stato il Direttore della prestigiosa rivista specializzata italiana Quattroruote, Gian Luca Pellegrini, intervistato dal noto giornalista e docente universitario Marcello Foa. Qui di seguito i contenuti essenziali dell’incontro.

Penuria di semiconduttori e caro energia prima, la concorrenza cinese poi, ma soprattutto la transizione verde, decisa dall’Unione Europea (UE), con la messa a bando dal 2035 dei veicoli a benzina e diesel, hanno fatto sprofondare l’industria automobilistica europea in una crisi senza precedenti. Crollano le vendite, i grandi marchi fermano la produzione in molti stabilimenti e annunciano chiusure e drastici tagli del personale.

Mentre il presidente Trump negli USA annuncia lo stop al Green Deal e agli incentivi per le auto elettriche, Bruxelles, sotto la pressione di molti governi, ha avviato un “Dialogo strategico” con il mondo dell’automotive da cui dovrebbe scaturire un “Piano di azione globale”, che sarà presentato ufficialmente il prossimo 5 marzo, al fine di affrontare tutte le criticità emerse sinora e cercare di garantire un futuro al settore dell’auto.

Una crisi che l’Europa ha provocato in gran parte da sola vietando tassativamente i motori endotermici e imponendo d’ufficio quelli elettrici.  

“Senza tener conto delle implicazioni di un simile divieto e senza una visione strategica per supportare adeguatamente il delicato passaggio all’elettrificazione della mobilità”, ha appunto sottolineato Gian Luca Pellegrini che ha messo a fuoco le contraddizioni tra la ragionevole aspirazione alla sostenibilità ambientale e una transizione a marce forzate che ha già prodotto conseguenze devastanti per il comparto dell’auto e il suo indotto.

Numeri da brivido

Nell’agosto scorso nell’UE si è toccato il fondo con il 18,3% in meno di immatricolazioni di nuove auto, rispetto allo stesso mese del 2023, con perdite sino al 28% in Germania e del 24% in Francia. Il crollo è stato particolarmente brusco per i veicoli elettrici, considerati la punta di diamante della nuova mobilità ecologica imposta da Bruxelles. Sempre nell’agosto 2024 il comparto EV (Electric Vehicle) ha subito un calo del 43,9 % delle vendite al confronto del 2023, con flessioni allarmanti in Germania (-69%), Francia (-31%) e Italia (-41%). La quota di mercato dell’elettrico è scesa dal 21% di due anni fa al 14,4% del 2024. Dopo tre anni di crescita, spinta dai sussidi pubblici, l’elettrico si è bloccato. Costo eccessivo, scarsa autonomia, stazioni di ricarica insufficienti e deprezzamento dell’usato ne scoraggiano l’acquisto. Tant’è che molti gruppi hanno deciso di ridurne la produzione.

Gli EV frenano anche in Svizzera con una quota di mercato scesa sotto il 20% nel 2024 (in Ticino 11,2%), nonostante il nostro Paese offra il vantaggio di una delle più fitte reti pubbliche di ricarica del Continente, che dovrebbe rappresentare un incentivo per la scelta di un e-car.

In buona sostanza sembra che il mito dell’auto elettrica si vada indebolendo. Consumatori e mercato hanno di fatto sconfessato la politica dell’UE che ha voluto determinare la scelta dell’auto, senza tener conto della complessità delle dinamiche industriali, delle preferenze dei consumatori e delle loro possibilità economiche.

Al danno si aggiunge la beffa: chi sceglie l’elettrico molto probabilmente ora si orienterà su un’auto cinese, molto più economica e con un software molto più performante rispetto ai prodotti europei, tanto da aver già acquisito una posizione leader a livello mondiale. Anche grazie al fatto che Pechino ha il pieno controllo della disponibilità di terre rare e altre materie prime necessarie per la produzione degli EV. La Corte dei conti europea aveva a suo tempo avvertito Bruxelles: puntare esclusivamente sulle auto elettriche significava perdere sovranità economica, in altre parole consegnarsi alla Cina. Un avvertimento rimasto, purtroppo, inascoltato.

Perdita di competenze

Con l’obbligo del full electric si sono annullati la supremazia tecnologica e quel know-how che da oltre un secolo erano il vanto della nostra industria dell’auto e che avevano già portato allo sviluppo di motori endotermici con emissioni prossime allo zero. Ora la grande sfida per i produttori europei è di ricostruire una catena di valore in grado di competere con la Cina che nell’elettrico è avanti di almeno trent’anni e ne controlla tutta la filiera, rappresentando ormai una concorrenza temibile anche nella produzione di auto tradizionali, al punto da mettere in difficoltà alcuni famosi marchi giapponesi.

Una volta si diceva che l’America innova, la Cina produce e l’Europa regola. Oggi si può dire che gli USA continuano ad innovare, i cinesi, oltre a produrre innovano anche, mentre l’UE ha solo accentuato la sua furia regolamentatrice.

Per sostenere la vendita di veicoli elettrici sono stati concessi, e si chiedono ancora, sussidi pubblici. Allo stesso tempo però Bruxelles impone dei dazi sino al 35-40% sulle auto elettriche cinesi, accusando la Cina di distorcere il mercato con prezzi bassi grazie ai massicci aiuti statali alla sua industria automobilistica. Una politica schizofrenica che non può portare lontano, se non a frenare ulteriormente il mercato degli EV.

Come si distrugge un’industria

I numeri sono da brivido. In Europa le vendite annuali di automobili sono complessivamente sotto di tre milioni di unità rispetto ai volumi antecedenti la pandemia. Volkswagen, Mercedes, Stellantis adottano piani urgenti per ridurre costi e personale. In Germania sono già scomparsi 46mila posti di lavoro, altri 140mila sono a rischio nei prossimi dieci anni. In Italia Stellantis tiene in cassa integrazione migliaia di lavoratori, in Francia i sindacati denunciano la perdita di 70mila impieghi dal 2012 ad oggi. Nel solo indotto nel biennio 2024-25 si sono persi nell’area UE più di 45mila posti di lavoro, mentre importanti aziende della componentistica hanno preannunciato la soppressione ulteriore di migliaia impieghi. Un intero ecosistema industriale annaspa nell’incertezza. A rischio c’è il futuro di un settore che ha scritto la storia dello sviluppo industriale e della crescita economica del Vecchio Continente, che con 13 milioni di occupati, senza calcolare l’indotto, contribuisce con circa 1000 miliardi di euro al prodotto interno lordo dell’UE, ossia il 7% del PIL.

Il colpo di grazia è arrivato con il Green Deal approvato dal parlamento europeo nel 2021 con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica per il 2050. La legge sul clima ha introdotto 160 nuove normative, regole spesso difficili da attuare, che hanno creato grosse difficoltà a tutta l’economia e colpito, in particolare, l’automotive vietando i veicoli con motore a scoppio. Senza chiedersi se l’industria automobilistica e il mercato fossero pronti per una svolta così radicale. Senza piani coordinati di sovvenzioni, per l’approvvigionamento delle materie prime e per realizzare infrastrutture di ricarica sufficienti ed efficienti.

Un salto nel buio

Con una misura dirigista, dalla forte impronta ideologica, frutto di un estremismo ambientalista che non ha tenuto in nessuna considerazione la sostenibilità sociale ed economica di un bisogno oggettivo di transizione energetica. Una pericolosa distorsione della politica industriale dell’Unione che invece di predisporre le condizioni quadro affinché l’economia possa prosperare, decide cosa, come e quando.

Inoltre, nel 2025 dovrebbero scattare le multe per le case che non rispettano i limiti sulle emissioni di CO2, elemento che tocca fortemente anche la realtà svizzera, tanto che l’Amministrazione federale ha pericolosamente messo in consultazione un progetto di ordinanza con uno “Swiss Finish” addirittura più severo di quanto previsto dalle norme europee. Ossia multe pesantissime. Progetto insostenibile, che dovrebbe fortunatamente essere rivisto perché considerato chiaramente fuori misura.

Le penalità, stimate in oltre 15 miliardi di euro a livello europeo, potrebbero decretare la fine di molti marchi e che di certo sottrarranno importanti risorse da investire nell’innovazione tecnologica. E qui s’innesca quello che Pellegrini nell’incontro di Grancia ha definito “il cortocircuito tra la quantità di auto elettriche che non si riesce a far aumentare e quella di veicoli col motore a scoppio dei quali invece si riduce la produzione per cercare di rientrare nei parametri delle emissioni stabiliti dall’UE e non incorrere in pesanti sanzioni. Un cortocircuito che brucerà altre decine di migliaia di posti di lavoro.”

Cosa riserva il futuro

In questo disastro annunciato anche i gruppi automobilistici hanno la loro parte di responsabilità: hanno, infatti, sopravvalutato la loro capacità di adattarsi velocemente al passaggio verso l’elettrico, sottovalutato la concorrenza cinese e non sono stati in grado d’implementare una strategia comune per affrontare uniti un cambio di paradigma produttivo e di modello di business assai complicato.

Oggi è assai difficile fare retromarcia. “Rinunciare all’elettrico è come voler rimettere il dentifricio nel tubetto” ha affermato il CEO di un’importante industria. Le case automobilistiche hanno investito ingenti capitali in questa riconversione e rinunciarvi del tutto significherebbe anche restare ancora più indietro nella rincorsa tecnologica. Inoltre, l’elettrico rappresenta indubbiamente il futuro per una mobilità sostenibile, drammaticamente sbagliati sono stati i tempi e i modi con cui è stato imposto.

Recentemente il Partito popolare europeo ha presentato una proposta di rilancio del settore, chiedendo di rivedere il divieto per i motori a combustione interna, l’adozione di un approccio alla transizione ecologica tecnologicamente neutrale e di annullare le multe per il superamento dei limiti delle emissioni. Palazzo Berlaymont tace in attesa di presentare il suo “Piano di azione globale” per sostenere l’automotive.

Possibili allentamenti delle regole

Dalle indiscrezioni filtrate sinora pare che l’UE stia rivalutando la possibilità di aprire il mercato, anche dopo il 2035, alle auto ibride plug-in e alle elettriche dotate di range extender (ossia equipaggiate con un piccolo motore ausiliario alimentato a benzina per ricaricare la batteria senza dare trazione alle ruote), che erano state anche vietate. Ci sarebbe pure un allentamento dell’obiettivo di neutralità climatica legittimando gli e-fuel, i carburanti sintetici. Poco si sa invece delle multe sulle emissioni che rappresentano un pericolo immediato per i gruppi automobilistici. Resta da vedere se basteranno queste “concessioni” per scongiurare il declino definitivo dell’industria europea dell’auto e le inevitabili e pesanti ricadute anche sulla realtà economica elvetica.




L’arte di saper parlare in pubblico

Parlare in pubblico è una situazione molto ansiogena per la maggioranza delle persone, perché ci pone di fronte al giudizio altrui e alla paura di non essere apprezzati

Qualche mese fa ho partecipato a un seminario sulla felicità. Tra i relatori c’erano teste molto illuminate della Harvard University e ricercatori provenienti da tutto il mondo. Alla fine delle due giornate però, mi sono ricordata unicamente di due relatori e dei loro rispettivi discorsi. Sebbene tutti avessero tantissime cose interessanti da raccontare, alla fine la maggior parte di loro è risultata noiosa, autoreferenziale  e per nulla empatica verso il pubblico. Un vero peccato, vista la caratura dei personaggi e la ricchezza del mondo che studiano.
Ecco, questo è purtroppo quanto accade a tutti noi quando vorremmo comunicare al meglio verso l’esterno, ma non possediamo gli strumenti  e le competenze per interessare, intrattenere ed esporre i nostri pensieri in modo efficace.

Oratori si nasce?

Parlare in pubblico è una situazione molto ansiogena per la maggioranza delle persone, perché ci pone di fronte al giudizio altrui e alla paura di non essere apprezzati. Qualcuno potrebbe erroneamente pensare che il Public speaking riguardi soltanto i professionisti che sono chiamati a parlare dinanzi a grandi platee. Nulla di più falso! Tutti noi siamo quotidianamente confrontati con un pubblico: che si tratti di una riunione d’ufficio, di quella dei genitori a scuola oppure della presentazione di un prodotto dinanzi a possibili acquirenti o investitori.

A chi non è mai capitato di avere qualcosa da dire, ma al solo pensiero di prendere la parola, ha iniziato a sentire le mani sudare, il battito cardiaco accelerare, rinunciando quindi a farlo?

Spesso le persone che non possiedono strumenti tecnici, mi raccontano di non vedere l’ora di terminare il loro discorso e di uscire di scena. Sia chiaro, un po’ di ansia prima di salire su un palco è sana, perché ci permette di attingere a tutte le nostre risorse per presentarci al meglio.
Però, se non gestita adeguatamente, l’ansia può bloccarci producendo effetti poco utili: voglia di scappare, timore di dimenticare il testo, senso di inadeguatezza, e così via. Ciò impedisce al nostro cervello di lavorare nelle condizioni migliori, impedendoci con molte probabilità di fare una bella figura.
Certamente c’è chi è più favorito di altri, perché magari non soffre di timidezza e possiede anche una certa fluidità con le parole. Ciononostante, questo non è sufficiente per strutturare un discorso di successo che sia persuasivo, che riesca a mantenere costante l’attenzione e soprattutto che si faccia ricordare dal pubblico in sala. Con una formazione adeguata, la giusta pratica e un’indispensabile motivazione, chiunque può apprendere questa imprescindibile arte.

“Non avrai una seconda occasione per fare un’ottima prima impressione”

Questa frase di Oscar Wilde ben esprime l’importanza di fare una buona impressione al primo colpo, per instaurare una relazione con il pubblico basata sulla fiducia nei vostri confronti. Naturalmente è fondamentale che il vostro discorso preveda contenuti di qualità, organizzati in modo magistrale per incuriosire e mantenere viva l’attenzione degli ascoltatori. Ma un buon contenuto, veicolato male, non passa. Per questo è importante saper stare su un palco, assumere una postura consona, saper gestire bene il tono della voce per colmare eventuali cali di attenzione, e possedere la capacità di instaurare una relazione sincera con il pubblico.

Ti parlo dal cuore

I bravi oratori sanno parlare con entusiasmo e passione. Ogni loro discorso pone piena attenzione sul pubblico, plasmandolo sulle sue esigenze e sui suoi interessi. Il fulcro sta nel donare qualcosa a chi vi sta ascoltando. Al termine del vostro speech la platea deve portarsi a casa informazioni e conoscenze nuove, sarà appagata e voi vi sentirete così molto soddisfatti.

Se per contro parlate senza sentire profondamente il tema che affrontate, magari riuscirete a eseguire un discorso mediamente buono, ma di certo la platea non si ricorderà di voi. L’arte di saper parlare in pubblico va appresa e declinata alla propria personalità, al contesto in cui ci si muove e al pubblico di riferimento. E successivamente va praticata, per essere affinata e accresciuta.

Un corso sul Public speaking è un regalo che fate a voi stessi, un percorso trasformativo che indipendentemente dalla vostra professione, dal vostro ruolo sociale o dalla vostra formazione, vi donerà strumenti molto utili nella vita quotidiana.

Il corso “L’arte di saper parlare in pubblico” verrà erogato dalla Cc-Ti a Lugano i prossimi 10 e 17 aprile dalle ore 9.00 alle 13.00. Per informazioni ed iscrizioni: www.cc-ti.ch/calendario/larte-di-saper-parlare-in-pubblico/.

Cedere la propria azienda è un’operazione complessa

Il passaggio di proprietà di un’azienda è, innegabilmente, una fase importante nella vita di un’azienda

Si tratta di un processo lungo e sfaccettato che tocca diversi ambiti, tra cui quello finanziario (valutazione e finanziamento dell’azienda), giuridico (redazione dei contratti) e fiscale (tassazione dell’imprenditore e dell’azienda). Il punto di vista di uno specialista del settore: Julien J. Collaud, della ditta VZ Conseil juridique et fiscal SA, raccolto dalla Camera di commercio e dell’industria del Canton Vaud.

Secondo alcuni studi, in Svizzera diverse decine di migliaia di PMI sono interessate da trasferimenti non regolarizzati. Quali sono le principali difficoltà incontrate dai proprietari?

A parte alcune difficoltà legate al settore o all’azienda da trasferire, i principali ostacoli incontrati dagli imprenditori che desiderano trasferire la propria azienda e che non cercano supporto sono la sottovalutazione del tempo da dedicare alla transazione, la ricerca di un rappresentante in grado di farlo, i cattivi consigli ricevuti da familiari e amici e il non valutare attentamente la complessità della transazione, in particolare in termini di tasse e successioni.

Quali sono le diverse opzioni a disposizione di chi vuole cedere la propria azienda?

In pratica, si distinguono tre tipi di trasferimento d’impresa, che rappresentano una serie di opzioni disponibili per chi desidera cedere la propria azienda:

  • il primo è la trasmissione all’interno della famiglia (Family Buy-Out – FBO), che consiste in una vendita o donazione (totale o parziale) ai membri della famiglia dell’imprenditore
  • il secondo è la trasmissione all’interno dell’azienda (Management Buy-Out – MBO), che consiste nella vendita ai dipendenti dell’azienda, spesso dirigenti
  • il terzo è la vendita a terzi, cioè a persone non legate all’imprenditore.

Possono essere aziende che operano nello stesso mercato, investitori finanziari (private equity, fondazioni d’investimento, fondi d’investimento, ecc.) o persone che desiderano diventare imprenditori.

Esistono scadenze ideali per affrontare questo passaggio?

Ogni caso è unico e ha le sue peculiarità. Possiamo tuttavia affermare che il momento ideale per iniziare a pensare al trasferimento dell’azienda è tra i cinque e gli otto anni prima. Quanto prima si inizia, tanto maggiori sono le possibilità di ottimizzare l’attività, la pianificazione finanziaria personale e la previdenza. È particolarmente consigliabile farlo in anticipo quando la società detiene molti beni non necessari per le operazioni. Poiché l’acquirente probabilmente non sarà interessato ad acquistarli, è opportuno ammortizzarli su più anni per limitare l’impatto fiscale. Inoltre, in caso di cambio di forma giuridica (ad esempio da ditta individuale a società a responsabilità limitata), è previsto un periodo di blocco di cinque anni prima di poter realizzare una plusvalenza esente da imposte.

Come garantire il successo del trasferimento? È consigliabile rivolgersi a degli esperti?

Il trasferimento dell’azienda è un’operazione complessa che tocca diversi ambiti, tra cui quello finanziario (valutazione dell’azienda e finanziamento), giuridico (redazione dei contratti) e fiscale (tassazione dell’imprenditore e dell’azienda). Si consiglia vivamente di avvalersi dei servizi di un esperto in materia di trasferimento d’azienda, che sarà in grado di fornire una consulenza personalizzata durante l’intero processo. Se necessario, può anche aiutarvi a trovare un acquirente. Inoltre, l’esperto vi permetterà di dedicare meno tempo alla vendita dell’azienda, in modo da potervi concentrare il più possibile sulla gestione dell’impresa. Sarebbe un peccato se i risultati dell’azienda diminuissero durante la fase di trasferimento perché l’imprenditore non può più dedicarvi abbastanza tempo.


Fonte: CVCI, Demain, agosto/settembre 2024. Traduzione ed adattamento: Cc-Ti.

Think outside the box?

Sarà capitato, navigando in rete o scrollando i social media, di vedere immagini quali il giochino del tetris che si faceva su carta, con la ‘X’ vincente posta fuori dalla griglia di gioco, accompagnata da una frase, solitamente in lingua inglese, che dice “think outside the box”, ovvero “pensa fuori dagli schemi”.

Sarebbe possibile riassumere così, graficamente, il concetto di ‘pensiero laterale’. Si tratta di una modalità di risoluzione di problemi, che prevede un approccio differente di pensiero, ovvero l‘osservazione del problema da diverse angolazioni, contrapposta alla tradizionale modalità che prevede concentrazione su una soluzione diretta al problema.

Gli studi sul tema sono stati sviluppati da Edward de Bono, psicologo maltese, negli anni ‘60, e rappresentano un approccio non convenzionale alla risoluzione dei problemi. A differenza del pensiero logico, che segue un percorso lineare e razionale, il pensiero laterale invita a esplorare strade alternative, distaccandosi, appunto, dai classici schemi di pensiero.

Definizione e caratteristiche

Il pensiero laterale è un metodo di pensiero che incoraggia l‘individuo a considerare problemi e soluzioni da angolazioni diverse. Invece di seguire un processo logico e lineare, il pensiero laterale si basa sull‘idea che spesso le soluzioni più efficaci si trovano al di fuori delle convenzioni

e delle norme stabilite. Questo approccio è particolarmente utile in contesti complessi e incerti, dove le soluzioni tradizionali possono risultare inadeguate. Abbracciando di volta in volta differenti modi di pensare si potranno trovare soluzioni creative, inusuali e stimolanti.

Applicandolo a diverse situazioni, anche aziendali, vengono favoriti alcuni aspetti, fra cui:

  • la creatività, stimolando la generazione di idee innovative
  • l’elasticità mentale, permettendo di adattarsi e modificare le traiettorie in corso d’opera
  • la collaborazione, promuovendo il lavoro di squadra ed il brainstorming.

Oltre alle analisi condotte da Edward de Bono, precedentemente citato, altri studiosi si sono chinati sulla tematica, condividendo molti assunti (con declinazioni diverse). Ad esempio, lo psicologo statunitense Joy Paul Guilford – noto per i suoi studi psicometrici sull‘intelligenza umana
– identifica altri quattro elementi per definire il pensiero laterale:

  • la fluidità: elemento quantitativo che si riferisce al numero di idee
  • la flessibilità: l’attitudine all’adozione di diversi approcci di pensiero rispetto un problema da affrontare
  • l’originalità: la capacità di formulare pensieri unici, che non seguano necessariamente quelle della maggioranza
  • l’elaborazione: la modalità in cui queste idee e questi pensieri vengono concretizzati.

Il pensiero laterale può essere esercitato: quando ci si prepara per migliorare le proprie prestazioni sportive, ad esempio, un allenamento assiduo della creatività migliora sicuramente l’immaginazione e stimola le menti, attraverso la risoluzione di enigmi e giochi.

Vantaggi nell’utilizzo

In un contesto aziendale sempre più competitivo e in continua evoluzione, le organizzazioni devono cercare metodi innovativi per risolvere problemi, prendere decisioni e affrontare le sfide quotidiane con cui sono confrontate. Eccone alcune:

  • Promozione dell’innovazione, miglioramento della capacità di problem solving e aumento della collaborazione
    Il pensiero laterale permette di superare le soluzioni tradizionali, favorendo l‘emergere di idee innovative. Invece di seguire schemi logici predefiniti, i collaboratori sono spinti a esplorare opzioni alternative, sviluppando idee che altrimenti potrebbero non essere considerate.
    Questo approccio creativo è essenziale per l‘innovazione continua, che rappresenta uno dei principali fattori di successo per le aziende. Inoltre, si affrontano le tematiche da prospettive nuove, atto che consente di promuovere – all’interno di un team o un gruppo di lavoro, una maggiore
    sensibilità verso la collaborazione. Ogni individuo è incoraggiato a contribuire con le proprie idee, arricchendo le proposte tematiche.
  • Adattabilità al cambiamento, nuova cultura aziendale
    L‘ambiente aziendale è in continua evoluzione, e le aziende devono essere in grado di adattarsi velocemente ai cambiamenti. Il pensiero laterale favorisce la flessibilità mentale, consentendo ai dirigenti e ai dipendenti di adattarsi rapidamente a nuove circostanze, affrontare situazioni
    inaspettate e trovare soluzioni adeguate anche in contesti in continuo mutamento. L’utilizzo di nuove tecniche per affrontare sfide ed ostacoli crea anche una cultura aziendale che valorizza l’innovazione, promuovendo una mentalità orientata alla crescita, rendendo l’organizzazione, nel suo insieme, agile. In un precedente articolo (link: www.cc-ti.ch/abracadabra) abbiamo parlato delle organizzazioni adattive, quali entità composte da persone che, attivando meccanismi di adattamento finalizzati a mantenere lo stato ottimale dell’entità stessa, quale cambiamento evolutivo costante, si distinguono per la loro capacità di rispondere prontamente e in modo efficace ai cambiamenti nell’ambiente esterno, evidenziandone i benefici in termini di identificazione delle nuove tendenze e delle opportunità emergenti, adattando rapidamente le proprie strategie e operazioni per capitalizzare su tali cambiamenti. Agilità e flessibilità sono caratteristiche fondamentali, che spesso si traducono in una maggiore capacità di innovazione e di adattamento alle mutevoli condizioni congiunturali.

Conclusioni

Think outside the box? Sì, il pensiero laterale non è solo una tecnica per risolvere problemi complessi, ma un approccio che può trasformare la cultura aziendale e contribuire in modo decisivo alla crescita e al successo dell‘azienda nel lungo periodo. Con originalità, quale base dell’impulso creativo, la ricerca di nuove possibili combinazioni può essere una fonte di ispirazione per soluzioni, anche, inaspettate.

Imballaggi: pubblicato il nuovo regolamento UE

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 22 gennaio 2025, il Regolamento (UE) 2025/40 sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio sostituirà la Direttiva 94/62/CE introducendo significative innovazioni per la gestione degli imballaggi e dei rifiuti da imballaggio. Entrato in vigore il 12 febbraio 2025, sarà pienamente applicabile dal 12 agosto 2026.

Il regolamento (UE) 2025/40 mira a ridurre l’impatto ambientale e a incentivare il riuso e il riciclo, segnando così un passo significativo verso la riduzione dei rifiuti e il rilancio dell’economia circolare.

Le principali disposizioni includono:

  • adozione di imballaggi più leggeri e eliminazione di materiali superflui
  • aumento della percentuale di imballaggi riutilizzabili
  • fissazione di obiettivi minimi di utilizzo di materiali riciclati entro il 2030, percentuale che aumenterà progressivamente fino al 2040
  • divieto di sostanze chimiche (tra cui PFAS) al di sopra di determinate soglie negli imballaggi alimentari
  • standardizzazione nella progettazione degli imballaggi e un’etichettatura più chiara a livello europeo, così da semplificare il corretto smaltimento
  • divieto di imballaggi di plastica monouso, ad esempio quelli per frutta e verdura fresche, per alimenti e bevande in bar e ristorante

Il fabbricante ha l’obbligo di redazione della dichiarazione di conformità UE. Per gli imballaggi provenienti da Paesi terzi, l’importatore dovrà assicurarsi la loro conformità alle prescrizioni del Regolamento e mettere a disposizione dell’autorità nazionale la relativa documentazione.

Viene altresì rafforzato il principio della Responsabilità Estesa del Produttore (EPR): il produttore (o, nel caso di imballaggi provenienti da Paesi terzi, l’importatore) sarà responsabile anche della fase di fine vita degli imballaggi immessi sul mercato.

La situazione sul mercato del lavoro

Rapporti della Seco sulla situazione del mercato del lavoro


Il panorama degli investimenti diretti esteri in Vietnam 2024

Nel 2024, l’economia del Vietnam ha dato prova di una notevole resilienza in un contesto globale dinamico caratterizzato da conflitti militari, competizione strategica tra grandi potenze, crescente protezionismo commerciale, interruzioni delle catene di approvvigionamento ed eventi climatici estremi. Nonostante queste sfide, l’economia ha mostrato segni di stabilizzazione, con miglioramenti nelle prestazioni commerciali, una riduzione delle pressioni inflazionistiche e un panorama finanziario e del mercato del lavoro più solido. Questi risultati, sostenuti da proiezioni ottimistiche di esperti e istituzioni globali, pongono le basi per un promettente 2025 per il Paese.

In questo articolo, esaminiamo i principali aspetti che hanno caratterizzato l’economia del Vietnam nel 2024 e le implicazioni per gli anni a venire.

Performance del PIL

Innanzitutto, è importante soffermarsi sul PIL del Paese: il Vietnam ha raggiunto un impressionante tasso di crescita del PIL del 7,09% nel 2024, a dimostrazione della sua robusta ripresa e adattabilità nonostante le sfide esterne. Sebbene leggermente al di sotto dei picchi del 2018, 2019 e 2022, questa crescita sottolinea la resilienza del Vietnam, posizionandolo come un mercato di spicco nella regione ASEAN.

Il settore dei servizi si è rivelato il principale motore di crescita durante l’anno, contribuendo al 49,46% dell’aumento totale del PIL. I settori “industria e costruzioni” e “agricoltura, silvicoltura e pesca” hanno contribuito rispettivamente al 45,17% e al 5,37%. Il PIL del Vietnam ha raggiunto 11,51 quadrilioni di VND (476,3 miliardi di USD), con un aumento del PIL pro capite a 4’700 USD, pari a un incremento di 377 USD rispetto al 2023.

Inflazione

L’inflazione è un indicatore cruciale della stabilità economica, poiché influisce direttamente sul potere d’acquisto, sui costi aziendali e sulla fiducia economica complessiva. Nel 2024, il Vietnam ha dimostrato una gestione economica efficace mantenendo l’inflazione sotto controllo. L’indice dei prezzi al consumo (CPI) è aumentato del 3,63%, allineandosi all’obiettivo dell’Assemblea Nazionale. L’inflazione core, che esclude elementi volatili, è aumentata di un moderato 2,71%, garantendo stabilità economica e sostenendo la fiducia dei consumatori.

Panorama del commercio

Quando si analizzano i risultati economici di un paese, è importante considerare il panorama commerciale, poiché riflette l’interazione tra la domanda globale, la capacità produttiva domestica e le politiche commerciali. È evidente che, per il Vietnam, il commercio rimane un fattore trainante di crescita economica e integrazione globale. Il Paese ha registrato un totale di 786,29 miliardi di USD di flussi commerciali complessivi nel 2024, con un incremento del 15,4% rispetto all’anno precedente e un surplus commerciale di 24,77 miliardi di USD. Le esportazioni sono cresciute del 14,3% raggiungendo i 405,53 miliardi di USD, mentre le importazioni sono aumentate del 16,7% arrivando a 380,76 miliardi di USD.

Inoltre, vale la pena notare che, per stimolare la crescita delle esportazioni nel 2025, il governo sta migliorando i quadri normativi, promuovendo la competitività industriale e ottimizzando gli accordi di libero scambio (FTA).

Panoramica sugli Investimenti Diretti Esteri (IDE) 

Anche gli investimenti diretti esteri (IDE) sono un indicatore chiave dell’attrattività economica di un paese e della sua integrazione nelle catene del valore globali. Per il Vietnam, nel 2024, il panorama degli IDE riflette una fiducia costante degli investitori e un interesse internazionale duraturo. Infatti, fino a novembre 2024, il Vietnam ha attratto 31,4 miliardi di USD (tenendo in considerazione nuovi investimenti, conferimenti di capitale e acquisizioni di azioni da parte di investitori stranieri), segnando un incremento dell’1% rispetto all’anno precedente. Al 30 novembre 2024 si contavano 41’720 progetti attivi in tutto il Paese, con un capitale totale registrato di 496,7 miliardi di USD. Il capitale realizzato accumulato dei progetti di investimento estero ha raggiunto circa 318,9 miliardi di USD, pari al 64,2% del totale del capitale di investimento registrato.

Nel 2024 gli investitori stranieri hanno investito principalmente nei settori della produzione e della lavorazione, che hanno rappresentato il 64,4% del totale. Fanno seguito il settore immobiliare, il commercio all’ingrosso e al dettaglio, nonché la generazione e distribuzione di energia elettrica. Vale anche la pena rilevare che il commercio all’ingrosso e al dettaglio è stato il settore con il maggior numero di nuovi progetti registrati, contributi di capitale e acquisizioni di azioni, mentre la produzione è stata il settore leader in termini di capitale aggiuntivo (64,4%).

Nei primi undici mesi del 2024, il Vietnam ha attratto investimenti diretti esteri (IDE) da 110 paesi, evidenziando l’attrattività crescente del Paese come destinazione di investimento globale. Singapore è stata la principale fonte di investimento estero per il Vietnam, rappresentando il 29,1% del totale degli investimenti; la Corea del Sud è arrivata seconda con il 12,4%, seguita da Cina, Hong Kong (Cina) e Giappone.

Confronto con l’ASEAN

Infine, vale la pena menzionare che il Vietnam si distingue come protagonista della trasformazione economica nel Sud-est asiatico, pronto a diventare l’economia a più rapida crescita della regione nel prossimo decennio, con una crescita media annua del PIL del 6,6%, superando le Filippine e l’Indonesia. Il Vietnam ha un’economia orientata alle esportazioni ben posizionata, fonti di IDE altamente diversificate, una competizione inter-provinciale produttiva e livelli elevati di istruzione e forza lavoro qualificata. Notoriamente, il Vietnam sta riscontrando una robusta crescita del capitale, supportata anche dall’aumento degli IDE in semiconduttori e batterie per veicoli elettrici. In questo contesto, si ritiene che il Paese abbia un’importante finestra di opportunità nel prossimo decennio per sfruttare al meglio le opportunità di cui sopra e i vantaggi demografici.

Conclusione

Nonostante le sfide globali e locali, il panorama degli IDE in Vietnam nel 2024 è stato caratterizzato da una crescita costante, fonti di investimento diversificate e un focus sui settori della produzione e della lavorazione. Gli sforzi del governo per migliorare il clima degli investimenti e fornire incentivi competitivi hanno posto solide basi per un successo economico continuativo.

Guardando al 2025, le prospettive economiche del Vietnam rimangono positive, con opportunità sia per gli attori domestici che internazionali.

Excursus: Il tifone Yagi a settembre 2024 ha sconvolto in modo significativo le attività socio-economiche nel Vietnam settentrionale, influenzando la produzione e le catene di approvvigionamento a livello nazionale. Uno studio del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) ha evidenziato l’impatto economico del tifone, illustrando però anche come il processo di ripresa abbia generato opportunità di crescita in settori come costruzioni, commercio al dettaglio e logistica. Gli sforzi di ricostruzione hanno creato un’impennata della domanda, sottolineando la capacità del Vietnam di adattarsi e prosperare di fronte alle avversità.

Fonti:

https://www.undp.org/vietnam/blog/vietnam-makes-great-contributions-human-development-sustainable-growth-undp-administrator

https://e.vnexpress.net/news/business/economy/gdp-expands-by-7-09-in-2024-4836083.html

https://vietnamnet.vn/en/vietnam-s-2024-gdp-and-inflation-key-metrics-and-achievements-2360544.html

https://en.vietnamplus.vn/vietnam-posts-trade-surplus-of-2477-billion-usd-in-2024-post307851.vnp

https://www.mpi.gov.vn/en/Pages/2024-12-13/FDI-attraction-situation-in-Vietnam-and-Vietnam-s-t5iwhr.aspx?utm

https://en.vneconomy.vn/dbs-vietnam-amongst-southeast-asia-fastest-growing-economies-in-the-next-10-years.htm?utm

Autore e contatto:
Francesca Severoni
Fidinam (Vietnam) Company Limited

francesca.severoni@fidinam.ch
www.fidinam.com

Gennaio 2025: Le novità

Vi segnaliamo cosa cambia nel nuovo anno