Abracadabra

Le organizzazioni adattive rappresentano un elemento chiave nel contesto economico contemporaneo, in un’epoca in cui i modelli di business e le situazioni di mercato sono in costante evoluzione.

Mai come negli ultimi anni abbiamo avuto testimonianza di quest’assunto. E, con ’abracadabra’, non ci riferiamo ad una formula magica pronunciata per evocare un incantesimo.
È invece diventata una realtà imprescindibile per un’azienda possedere la capacità di reinventarsi e adattarsi alle mutevoli condizioni che oggi il mercato presenta, perché questa abilità è determinate per il successo a lungo termine.

Una definizione

Le organizzazioni adattive (intese come “gruppo di persone formalmente unite per raggiungere uno o più obiettivi comuni, riunite in un sistema aperto che percepisce l’ambiente interno ed esterno, attivando meccanismi di adattamento finalizzati a mantenere lo stato ottimale dell’entità stessa, quale cambiamento evolutivo costante”) si distinguono per la loro capacità di rispondere prontamente e in modo efficace ai cambiamenti nell’ambiente esterno. Esse sono in grado di riconoscere le nuove tendenze e le opportunità emergenti, adattando rapidamente le proprie strategie e operazioni per capitalizzare su tali cambiamenti. Agilità e flessibilità sono caratteristiche fondamentali, che spesso si traducono in una maggiore capacità di innovazione e di adattamento alle mutevoli condizioni congiunturali.

Fare impresa oggi

Nel contesto attuale, le aziende devono affrontare una serie di sfide e opportunità senza precedenti. I rapidi avanzamenti tecnologici, i cambiamenti demografici, gli scenari internazionali, le pressioni competitive e i repentini cambiamenti nei gusti dei consumatori rappresentano solo alcune delle forze che richiedono alle aziende di essere agili e pronte a reinventarsi. Un esempio evidente di questa necessità è stato (ed è tuttora) rappresentato dalla trasformazione digitale, che ha spinto molte aziende a ridefinire i loro modelli di business e ad adottare nuove tecnologie per rimanere competitive.

Il capitale umano è sempre determinante

Nelle organizzazioni adattive vive una forte cultura aziendale, dove deve fiorire l’innovazione, l’apprendimento continuo e il coinvolgimento dei dipendenti. L’agilità organizzativa non può essere raggiunta senza un impegno diffuso a tutti i livelli dell’azienda e senza un’apertura al cambiamento.
Per questi motivi la formazione e lo sviluppo dei dipendenti, così come il dialogo fra i diversi componenti del team intergenerazionali sono cruciali per garantire che l’azienda abbia le competenze necessarie per adattarsi a nuovi modelli di business e situazioni congiunturali (junior e senior non sempre approcciano i cambiamenti nello stesso modo e sono guidati da leve motivazionali diverse).
Attraverso l’adozione di queste pratiche, le aziende possono prepararsi ad affrontare con successo le sfide del mercato in continua evoluzione.

Parole chiave: la nostra ’top 5’

Restare competitiva sul mercato oggi è una sfida complessa. Ecco alcune riflessioni in termini di temi a cui prestare particolare attenzione:

  • Innovazione e competitività: mantenere un costante flusso di innovazione è essenziale per restare passo con i cambiamenti del mercato in continua evoluzione, rappresentando un vantaggio competitivo ragguardevole nei confronti degli altri competitors.
  • Tecnologia: l’adozione di tecnologie all’avanguardia e la trasformazione digitale sono cruciali per migliorare l’efficienza operativa di ogni organizzazione.
  • Flessibilità: essere in grado di adattarsi rapidamente ai cambiamenti del mercato è una delle caratteristiche imprescindibili per le aziende moderne.
  • Sostenibilità: è un concetto che è ormai diventato di uso corrente nella vita quotidiana, così come nel lessico imprenditoriale. Oggi parliamo di ’responsabilità sociale’, concetto ampio che include 3 assi di azione: l’ambito ambientale, il benessere economico e quello sociale. Occorre quindi integrare pratiche sostenibili nella strategia aziendale. Sottolineiamo che la Cc-Ti, quale associazione-mantello dell’economia ticinese, ha sviluppato – con il supporto scientifico della SUPSI e in collaborazione con il Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE) – un modello online di rapporto di sostenibilità, accessibile su www.ti-csrreport.ch.
  • Talent management: attrarre, sviluppare e trattenere talenti qualificati è cruciale per l’innovazione e il successo a lungo termine di un’azienda. In questo senso la Cc-Ti eroga corsi di formazione puntuale e dei percorsi formativi di gestione aziendale, che rappresentano un’offerta solida e variegata per uno sviluppo sostenibile delle risorse umane, in risposta alle richieste del tessuto economico ticinese (www.cc-ti.ch/formazione).

Affrontare i nuovi rischi

Di fronte ai nuovi rischi parzialmente o non coperti dalle assicurazioni tradizionali come l’assicurazione di cose e le assicurazioni RC (responsabilità civile), le compagnie di assicurazione mettono a disposizione delle imprese diverse polizze raggruppate sotto il nome generico di “assicurazioni linee finanziarie”.

L’assicurazione ’Responsabilità dei dirigenti e degli amministratori’ (nota anche come D&O)

Questa copertura protegge dirigenti e amministratori di un’impresa dai reclami di terzi (fornitori, creditori, varie azioni legali da parte di dipendenti, concorrenti o azionisti, ecc.) derivanti dalle loro decisioni e dalla loro gestione nell’esercizio delle loro funzioni o del loro mandato. Questo funziona sia per le violazioni degli obblighi legali, regolamentari e statutari, come pure per qualsiasi errore di gestione commesso per imprudenza o negligenza, per omissione, per errore, per dichiarazione inesatta, …

Sono coperte:

  • le spese legali della difesa dei dirigenti in caso di implicazione della loro responsabilità personale,
  • le conseguenze finanziarie derivanti dalla responsabilità dei dirigenti quando assicurabili, comprese le sanzioni pronunciate da un’autorità,
  • le spese legali ed eventuali conseguenze per la società.

Questa protezione considera che l’assunzione di rischi fa parte della vita quotidiana. Gli assicuratori offrono un vero supporto e prevenzione.

L’assicurazione cyber

Copre i rischi legati a un incidente informatico, che di solito mira ai dati personali e riservati di un’azienda. Le fughe di dati possono generalmente comportare sanzioni regolamentari, danneggiare gravemente l’immagine dell’azienda e mettere in discussione la sua sostenibilità. Di fronte agli effetti devastanti di un attacco informatico, le coperture proposte solitamente riguardano:

  • l’assistenza e la gestione della crisi,
  • le responsabilità legate ai dati,
  • le spese di indagine,
  • il ripristino dei dati elettronici,
  • l’interruzione della rete,
  • le spese legate alla richiesta di riscatto.

È importante notare che oggi l’assicurazione cyber offre un supporto completo in termini di prevenzione e assistenza, con il coinvolgimento di specialisti in sicurezza informatica e gestione delle crisi, nonché avvocati per assistere le vittime.

L’assicurazione contro le frodi

Inizialmente destinata alle istituzioni finanziarie, questa copertura si estende oggi a tutti i tipi di aziende, assicurando le perdite finanziarie derivanti da atti di frode interna ed esterna commessi da dipendenti o terzi, come l’appropriazione indebita, l’ottenimento o l’appropriazione criminale o fraudolenta di capitali, titoli o beni, attività tecnologiche o finanziarie.

Una necessaria presa di coscienza

È essenziale che le aziende valutino regolarmente i rischi a cui sono esposte, sviluppino piani di gestione adeguati e considerino soluzioni assicurative adeguate per limitare l’impatto sulle loro attività.

A tal fine, è consigliabile consultare un esperto assicurativo per valutare i rischi specifici legati all’ecosistema aziendale e per determinare la copertura più adatta. In questo senso, il vostro broker di fiducia può fornirvi preziosi consigli.


Fonte: Articolo a cura di Qualibroker-Swiss Risk & Care Group, apparso su “CCIG Info” nr 9 – 10.2023. Traduzione ed adattamento Cc-Ti.

Sviluppo della rete autostradale: un referendum che danneggia anche il Ticino

Assieme alla rete ferroviaria, quella stradale nazionale è vitale per il buon funzionamento del nostro Paese. La mobilità individuale, quella pubblica, così come quella necessaria alla consegna delle merci, sono possibili unicamente con infrastrutture ferroviarie e stradali moderne ed efficienti.

Entrambe con importanti necessità di manutenzione e sviluppo, la rete stradale nazionale e quella ferroviaria sono oggi in più punti sovraccariche. Quella autostradale, in particolare, pur rappresentando meno del 3% delle strade in Svizzera, assorbe oltre il 40% del traffico privato e il 70% di quello delle merci su strada, garantendo in particolare anche il tragitto tra i grandi centri di smistamento ferroviari e i destinatari.

Nel breve volgere degli ultimi 10 anni, malgrado i chilometri percorsi da tutti i veicoli siano aumentati soltanto del 5,3%, le ore di colonna complessive sono raddoppiate (+ 100%), raggiungendo le 40’000 ore in coda all’anno. E la tendenza, con l’aumento previsto della popolazione e il sempre crescente bisogno di mobilità, tanto su strada, quanto su ferrovia, è di un incremento esponenziale, con quindi l’elevata probabilità che il traffico, in più punti congestionato sulla rete autostradale, alla stessa stregua di quella ferroviaria, si riversi sulle strade cantonali e comunali, all’interno degli agglomerati.
Ora, se i necessari investimenti nella ferrovia (garantiti a livello nazionale dal fondo per il finanziamento e l’ampliamento dell’infrastruttura ferroviaria, FIF, approvato in votazione popolare nel 2014) non vengono attaccati per motivi ideologici, raccogliendo quindi il giusto consenso, quelli per il buon funzionamento delle strade nazionali e la risoluzione dei problemi di traffico negli agglomerati (pure garantiti da un fondo federale, FOSTRA, anch’esso approvato dal popolo nel 2017) devono invece, non di rado, superare lo scoglio di posizioni contrarie per principio.

L’ultimo in ordine di tempo è il referendum lanciato da associazioni ambientaliste capeggiate dall’Associazione traffico e ambiente (ATA) e sostenuto da PS e Verdi contro il programma di sviluppo (la cosiddetta “fase di potenziamento 2023”) della rete stradale nazionale concernente cinque progetti maturi per il decongestionamento di tratte correntemente interessate da ingorghi con il conseguente traffico parassitario che si riversa sulle strade di quartiere degli agglomerati limitrofi e quindi con la conseguenza di maggiori rumori, pericoli e inquinamento, che i progetti in questione si propongono invece di migliorare.

Nello specifico, si tratta della costruzione della terza galleria nel tunnel del Rosenberg a San Gallo, della seconda galleria nel tunnel di Fäsenstaub a Sciaffusa, del tunnel del Reno a Basilea, di una corsia supplementare per senso di marcia sul tratto Wankdorf-Schönbühl-Kirchberg a Berna, così come tra Le Vengeron, Coppet e Nyon, nei Cantoni di Ginevra e Vaud.

Dal canto suo, il referendum in questione costituisce una posizione di principio, contro “nuovi investimenti nelle strade”, che – se accolta – verrà replicata con la medesima motivazione ideologica (“basta investire nelle autostrade”) e determinerà il posticipo di tutta la pipeline dei progetti previsti in futuro sangallesi, sciaffusani, basilesi, bernesi, vodesi e ginevrini non lasceranno ovviamente che altri passino davanti ai loro già maturi adesso), fra cui, in coda, ci sono anche quelli che concernono il Cantone Ticino, collegamento A2-A13 (Bellinzona-Locarno) in testa.
Quest’ultimo è attualmente in fase di affinamento da parte dell’Ufficio federale delle strade (USTRA), che ha ripreso in buona parte quanto era stato elaborato dal Cantone Ticino per accelerare i tempi. Il risultato confluirà nel progetto generale che dovrà essere approvato dal Consiglio federale e poi inserito definitivamente in uno dei prossimi (si confida il prossimo) programma di sviluppo della rete nazionale con un orizzonte realizzativo per ora previsto al 2040.

Sostenere il referendum in questione, per il quale si andrà al voto il prossimo autunno, oltre che impedire il decongestionamento di importanti arterie stradali e la messa in sicurezza delle strade secondarie su cui il traffico intasato sempre più devierebbe, vuol quindi pure dire mettere a repentaglio i nostri interessi cantonali e segnatamente la realizzazione, finalmente, del collegamento autostradale tra Bellinzona e Locarno, così come altri futuri progetti anche a sud delle Alpi.


Articolo a cura di Simone Gianini, Consigliere nazionale, Presidente ACS Sezione Ticino

Registrazione dell’orario di lavoro: chi può essere dispensato?

La legge svizzera impone alle aziende di mettere in atto un sistema di registrazione della durata del lavoro e comporta, in modo generale, un obbligo per i lavoratori di registrare il loro tempo di lavoro. Di seguito verrà spiegato quali sono i collaboratori che non devono sottostare a questa norma o che lo sono parzialmente e come procedere per rinunciare alla registrazione dell’orario di lavoro o per mettere in atto una registrazione semplificata.

Quadro normativo

La legge sul lavoro (art 46 LL) impone al datore di lavoro di mettere a disposizione delle autorità di sorveglianza i registri o i giustificativi contenenti le informazioni necessarie all’esecuzione di questa legge e delle relative ordinanze. L’ordinanza 1 relative alla legge sul lavoro (art 73 OLL1) precisa che i registri e i giustificativi devono indicare la durata quotidiana e settimanale del lavoro fornito (lavoro compensativo e supplementare incluso), le coordinate temporali (ore di inizio e fine del lavoro), gli orari e la durata delle pause di una durata uguale o superiore alla mezz’ora.

Registrazione semplificata

Nel quadro della registrazione semplificata (art 73 b OLL1) solo la durata giornaliera del lavoro fornito deve essere presa in considerazione: non è dunque necessario precisare i periodi di lavoro e di risposo, eccezion fatta per il lavoro domenicale e notturno. È altresì possibile creare un sistema di registrazione semplificata per i collaboratori che possono determinare in modo autonomo una parte significativa del loro orario lavorativo.
Secondo la SECO (Segretaria di Stato per l’Economia) i lavoratori che potrebbero sottostare a questa misura sono coloro che possiedono una flessibilità tale da organizzare e fissare almeno un quarto dei loro orari di lavoro (valore indicativo). L’esistenza di orari flessibili non è sufficiente.

Il criterio è soddisfatto quando gli orari fissati non sorpassano il 75% del tempo di lavoro totale e quando l’autonomia del lavoratore non è limitata da altre esigenze (es. riunioni obbligatorie o viaggi d’affari).

Al fine di instaurare la registrazione semplificata occorre concludere un accordo collettivo con i rappresentanti dei lavoratori dell’azienda (commissione del personale) o con un sindacato (oppure in mancanza di ciò con la maggioranza dei lavoratori dell’azienda).
Questo accordo deve indicare:

  • quali categorie di lavoratori sottostanno alla registrazione semplificata;
  • prevedere disposizioni particolari per garantire il rispetto della durata del lavoro e del tempo di riposo (es. blocco delle e-mail durante la notte e la domenica);
  • una procedura paritaria che permetta di verificare il rispetto dell’accordo.

Nelle aziende che impiegano meno di 50 dipendenti è possibile concludere un accordo individuale per iscritto. Quest’ultimo deve menzionare le disposizioni relative alla durata del lavoro e del riposo. Inoltre, l’azienda deve organizzare un colloquio di fine anno sul carico di lavoro e registrarne il contenuto. Anche se un accordo è stato concluso, il datore di lavoro è tenuto a fornire uno strumento adeguato alla registrazione dell’orario di lavoro, perché i dipendenti restino liberi di registrarlo.

Rinuncia alla registrazione

È consentita la rinuncia alla registrazione dell’orario di lavoro se sono soddisfatte cumulativamente quattro condizioni (art. 73a OLL1). Innanzitutto, la rinuncia deve essere stipulata in un contratto collettivo di lavoro (CCL), sottoscritto dalle parti sociali. Questo CCL deve essere sottoscritto dalla maggioranza delle organizzazioni rappresentanti i lavoratori, in particolare nell’azienda o nel settore, e prevedere misure specifiche per garantire la tutela della salute e assicurare il rispetto della durata del riposo fissata dalla legge. Deve includere, inoltre, l’obbligo del datore di lavoro di designare un responsabile o un servizio interno che si occupi delle questioni relative alla durata del lavoro. In secondo luogo, i lavoratori interessati devono disporre di grande autonomia nel loro lavoro e poter fissare, nella maggior parte dei casi, il proprio orario di lavoro. In terzo luogo, questi dipendenti devono ricevere uno stipendio annuo lordo superiore a CHF 120’000.- (ev. bonus inclusi) o la quota corrispondente in caso di lavoro a tempo parziale. In quarto luogo, deve essere concluso un accordo scritto individuale con ciascun dipendente dove viene indicata la rinuncia alla registrazione del proprio orario di lavoro. Questo accordo è revocabile ogni anno. In caso di rinuncia alla registrazione dell’orario di lavoro, il datore di lavoro deve mettere a disposizione delle autorità gli accordi individuali di rinuncia nonché un registro dei lavoratori che hanno rinunciato alla registrazione della durata del loro lavoro.

Quadri superiori e/o dirigenti

I lavoratori che ricoprono una posizione dirigenziale non sono soggetti alla normativa alla legge sul lavoro sul lavoro (art. 3 lett. d LL) e quindi non sono assoggettati all’obbligo di registrazione dell’orario di lavoro. Sono considerati tali i soggetti che, in ragione della loro posizione e responsabilità e date le dimensioni dell’azienda, dispongono di un significativo potere decisionale, o sono in grado di influenzare fortemente le decisioni importanti riguardanti, in particolare, la struttura, l’attività commerciale e lo sviluppo di un’azienda o di una parte di azienda (art. 9 OLL1). La nozione di “alta funzione dirigenziale” è interpretata in modo restrittivo dalla giurisprudenza (v. sentenza del Tribunale Federale ATF 126 III 337 c. 5).


Fonte: articolo di Kathia Pauchard, apparso su “ECHO”, rivista della Camera di commercio e dell’industria di Friborgo, nr 1, marzo 2024. Traduzione ed adattamento Cc-Ti.

La “sindrome del sopravvissuto”… sul posto di lavoro

Un’ondata di licenziamenti sta investendo la Svizzera, una situazione articolata per le persone colpite ma anche per quelle che restano in azienda. Come motivarle nonostante l’oggettiva complessità di simili situazioni?

La resilienza è la capacità degli individui di far fronte allo stress e alle avversità uscendone rafforzati, di saper resistere e di riorganizzare positivamente la propria vita e le proprie abitudini a seguito di un evento critico negativo, sia professionale quanto privato.

I produttori di cioccolato stanno tagliando migliaia di posti di lavoro, Migros vuole ridimensionarsi contraendosi di centinaia di unità, i dipendenti di Sunrise devono lasciare il loro posto di lavoro e quasi tutte le aziende del settore dei media sono oggi più che mai in fermento per non parlare dell’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS.
In azienda, nella maggior parte dei casi, pochi sanno in anticipo chi sarà colpito da un taglio o una riorganizzazione. La calma prima della tempesta è una brutta cosa; l’incertezza che precede l’annuncio di licenziamenti riguarda tutti, le voci girano e la tensione nell’aria è palpabile finché non arriva il giorno X e diventa chiaro chi deve restare e chi deve andarsene. Questo giorno è spiacevole per tutti indistintamente, anche l’esperienza della perdita del lavoro di un collega non lascia indifferenti. Per coloro che restano, un evento simile evoca emozioni contrastanti: da un lato sollievo perché la sorte li ha risparmiati ma grande senso di colpa perché la collega o il collega devono andarsene e loro no.

Nella psicologia organizzativa

Questa situazione è nota come “sindrome del sopravvissuto sul posto di lavoro”. In altre parole, chi rimane si sente un sopravvissuto: sono queste persone a dover fare i conti con la nuova situazione e la conseguente riorganizzazione dei compiti. E spesso vengono trascurati nel contesto dei licenziamenti di massa, poiché l’attenzione si concentra solo su coloro che devono andarsene; di chi resta, normalmente non si occupa nessuno.
Le sfide che attendono chi vive questa specie di lutto sono enormi, il carico di lavoro aumenta perché chi esce è solitamente assente da un giorno all’altro e coloro che rimangono devono portare a termine compiti in sospeso occupandosi a volte di progetti di cui spesso non hanno molte conoscenze. Queste persone sono anche frustrate perché i processi non funzionano più, gli errori e i ritardi aumentano e la montagna di lavoro non diminuisce come accadrebbe se tutti fossero ancora presenti. Tutto ciò riduce la motivazione delle persone; se l’umore era in generale già basso prima, ora tende a peggiorare ulteriormente. In casi estremi, si può persino arrivare al punto che coloro che sono ancora in azienda si dimettono “interiormente”, fanno solo lo stretto necessario e spesso ne consegue un esodo spontaneo di coloro che nei piani aziendali avrebbero dovuto restare.

Uno influenza l’altro

Chi rimane guarda con attenzione a come l’azienda gestisce gli esuberi. Il modo in cui viene gestito un licenziamento, una dismissione di gruppo, l’eventuale accompagnamento in transizione di carriera, sono tutti indicatori per chi rimane di quanto il datore di lavoro apprezzi e valorizzi i propri dipendenti. Se la procedura è condotta in modo equo e rispettoso, genererà fiducia tra i dipendenti rimanenti; ma questo da solo non basta; ci sono due questioni predominanti per coloro che sono rimasti: essi stanno affrontando il dolore dei loro colleghi che sono stati licenziati, e allo stesso tempo loro stessi sono ansiosi e incerti su ciò che accadrà in seguito. È importante riunire tutti e avviare una comunicazione aperta, trasparente e onesta. Coloro che restano hanno bisogno di certezze e indicazioni; la cosa migliore da fare sarebbe annunciare che non sono previste ulteriori misure riorganizzative per i prossimi dodici mesi, ad esempio. Naturalmente, questo purtroppo non è sempre possibile, soprattutto perché di solito tutto è ancora in divenire. Ma è essenziale comunicare onestamente, perché altrimenti si abbassa drasticamente la motivazione di chi resta.

La cosa peggiore che si possa fare è non dire apertamente la verità

Le persone hanno bisogno di un’ancora e di prospettive per il futuro, altrimenti restano bloccate nella paura. Lo si vede alla macchinetta del caffè in pausa: è qui che i dipendenti rimasti discutono, e ogni parola detta dai loro superiori viene ascoltata e interpretata con estrema attenzione. Se un’azienda non comunica o comunica male, le voci si diffondono e queste aumentano l’incertezza e nessuno sa più cosa sia vero. Ecco perché le aziende devono fare un annuncio chiaro, anche solo per dire quando verranno prese le prossime decisioni.

Alle persone che restano in azienda serve “resilienza”

Si tratta di quella forza interiore utile ad affrontare il cambiamento, serve anche illustrare loro le varie fasi emotive che attraversano e come uscirne. Una comprensione di cosa stia accadendo a livello psicologico aiuta a meglio controllare la propria reazione; creare una calma interiore consente una discussione obiettiva per esaminare le procedure, stabilire nuovi processi e pianificare il futuro.
I dipendenti devono poter dire la loro: in workshop di gruppo, i manager di linea possono dare ai propri collaboratori l’opportunità di essere coinvolti e di contribuire alla definizione dei nuovi processi. In particolare, i supervisori e i team leader – e non solo il top management devono dedicare del tempo ai propri collaboratori. Ascoltare le loro preoccupazioni, discuterne con loro il più possibile e prendere sul serio i loro feedback e le loro obiezioni. Perché solo chi sente di essere preso sul serio farà un buon lavoro e contribuirà a traghettare l’azienda verso il futuro.


Articolo apparso il 31.03.2024 su www.handelszeitung.ch con un’intervista di Tina Fischer a Pascal Scheiwiller, CEO di von Rundstedt & Partner Schweiz AG. Traduzione ed adattamento a cura di Marco Costantini, Managing Director von Rundstedt & Partner Lugano.

Il potere dell’empatia

Cos’è l’empatia

L’empatia è la capacità di comprendere lo stato d’animo, i comportamenti e le emozioni altrui. È un’abilità sociale di fondamentale importanza ed è uno dei principali strumenti per una comunicazione interpersonale efficace e gratificante.
Daniel Goleman (psicologo, autore e giornalista scientifico, si è affermato come una figura di rilievo nel campo dell’intelligenza emotiva) ci dice che in ogni tipo di rapporto la radice dell’interesse sta nel riuscire ad entrare in sintonia emozionale. Le emozioni vengono però raramente verbalizzate, soprattutto in ambito professionale, ed è qui che entra in gioco l’empatia. Questa competenza ci permette di comprendere meglio le emozioni toccate decodificando sia i messaggi verbali che quelli emessi dai canali di comunicazione non verbali. Riuscire ad essere empatici facilita l’accettazione delle diversità, migliora la comunicazione, rafforza l’autostima, migliora i rapporti interpersonali e ci spinge a seguire alcuni principi morali come, ad esempio, intervenire a favore di una persona in difficoltà.

I vantaggi dell’empatia per il business

Le aziende e le organizzazioni sono formate da persone, per questo motivo diventa importante sviluppare l’empatia anche in questi contesti e a tutti i livelli, permettendo la crescita personale dei collaboratori ma anche di migliorare le relazioni tra colleghi, con i superiori o con clienti e fornitori. In altre parole, in un’organizzazione empatica vengono generate relazioni più solide, oltre a una maggiore e migliore collaborazione, e si potrà osservare un aumento della produttività. Sempre secondo Goleman le organizzazioni intelligenti a livello emotivo hanno maggiore chiarezza nei valori e nella missione aziendale gettando così le basi di una cultura organizzativa positiva e veicolando un’immagine chiara e precisa che riesce a distinguersi sul mercato.
Ricapitolando, coltivare l’empatia in azienda significa: creare un ambiente di lavoro positivo, facilitare la libertà di espressione di tutti i lavoratori, sviluppare migliori relazioni interne facendo sentire tutti ascoltati, compresi e rispettati, favorire la collaborazione e la gestione dei conflitti ottenendo migliori risultati di business.

L’empatia si può imparare

Molti credono che l’empatia sia qualcosa di innato. È pur vero che ci sono persone più portate perché possiedono delle capacità di intelligenza emotiva naturali, questo però non significa che non si possa apprendere. Gli studi hanno dimostrato che le competenze empatiche, come del resto tutte le competenze, possono essere apprese, a patto che ne si conoscano e comprendano le componenti e le si possano poi mettere in pratica.
Un’impresa che propone ai lavoratori di formarsi sul tema dell’empatia e riesce a metterla in pratica e quindi allenarla quotidianamente, permetterà ad ogni membro di un team di diventare un elemento importante della squadra che saprà lavorare in sintonia con il resto dei membri. Un gruppo di lavoro così formato sarà in grado di risolvere più rapidamente qualsiasi problema, aumenterà la sua efficacia e porterà proposte innovative. Individualmente ogni membro affinerà queste capacità che diventeranno parte integrante della sua professionalità. Si avrà così a che fare con persone capaci di rispettare le idee altrui, capaci di ascoltare punti di vista diversi ma anche di esprimere la propria opinione.
Nella realtà lavorativa questo si tradurrà in un aumento della collaborazione tra colleghi e si moltiplicheranno gli scambi produttivi.
I responsabili di team, se formati sull’empatia, saranno più efficaci nella gestione delle relazioni con i collaboratori, e non solo: sapranno accogliere i feedback e integrarli nei processi aziendali nell’ottica del miglioramento continuo.
Offrire ai lavoratori gli strumenti adeguati per poter sviluppare l’empatia risulta essere una scelta vincente a tutti i livelli.

I leader empatici

Come sappiamo i leader sono fondamentali nel creare una cultura aziendale positiva. Questo vale anche per l’empatia. Una delle cinque componenti chiave dell’intelligenza emotiva, sempre secondo Goleman, è proprio la leadership empatica. I leader emotivamente intelligenti sono più efficaci perché sanno riconoscere i sentimenti e le esigenze dei loro collaboratori e infondono loro un senso di fiducia. Promuovono relazioni più forti all’interno del team, favoriscono senso di appartenenza e motivazione. Tutto questo si traduce in una maggiore soddisfazione professionale e nell’aumento del benessere dei dipendenti.

Empatia al lavoro: non solo parole ma azioni

Concretamente quindi come può un’organizzazione sviluppare l’intelligenza emozionale?
La risposta spontanea è: attraverso la consulenza e la formazione. Vediamo più nel dettaglio cosa si intende. Per prima cosa offrire una formazione mirata ai collaboratori, partendo dai vertici, per far crescere competenza e consapevolezza su questo tema all’interno dell’organizzazione.
Occorrono poi delle azioni concrete da implementare in azienda, per questo la collaborazione di uno specialista che sappia consigliare le azioni da intraprendere e che aiuti a monitorare e tracciare l’efficacia di quanto messo in atto è auspicabile.
Una volta appresa questa competenza sarebbe opportuno coinvolgere i collaboratori e trovare il modo di mettere in pratica quanto acquisito introducendo piccoli cambiamenti nella quotidianità lavorativa. Ad esempio, sviluppando una cultura del feedback, utilizzando l’ascolto empatico e accertandosi di dare seguito a quanto emerso.

Si potrebbe anche realizzare un progetto di sviluppo condiviso, con attività volte a coltivare le relazioni all’interno dell’impresa. Anche in questo caso occorre coinvolgere il personale, tenendo sempre presente la necessità di misurare l’efficacia degli interventi effettuati, di condividere i risultati e di discutere insieme sui possibili miglioramenti.
I responsabili potrebbero elaborare con ogni collaboratore dei piani di sviluppo personale, valorizzandone i meriti, indagando sulle loro aspirazioni e sostenendoli nel cambiamento. Una pratica ancora poco utilizzata in Ticino e che mi sta particolarmente a cuore è la cultura dell’errore. È una preziosa risorsa di apprendimento e miglioramento continuo personale e di tutto il team che, per essere messa in pratica in maniera efficace, deve essere sostenuta dall’empatia.
Un altro punto critico in molte realtà aziendali è la comunicazione. Spesso c’è un divario importante tra quanto ci si sforza di mettere in atto per favorire la comunicazione e quanto viene recepito. Rivedere dal punto di vista empatico i processi comunicativi (come, ad esempio, le riunioni) può dare risultati sorprendenti.

In conclusione

Le aziende a volte sottovalutano l’importanza e l’impatto dell’intelligenza emotiva sul luogo di lavoro. Diversi studi hanno dimostrato che in ogni organizzazione ci sono regole non esplicitate che guidano i collaboratori e che vengono trasmesse inconsciamente. Essi sanno esattamente cosa possono o non possono esprimere
sul posto di lavoro e agiscono di conseguenza.
Per questo è estremamente importante che le imprese misurino il livello di empatia al loro interno. Purtroppo, gli strumenti standard che vengono normalmente utilizzati per le valutazioni aziendali non sono adatti allo scopo. Per questo motivo le aziende che valutano la loro empatia e sviluppano l’intelligenza emotiva sono ancora poche.
Riuscire ad instaurare una comunicazione interna più aperta aiuta a considerare tutti gli aspetti degli eventuali problemi e a trovare soluzioni migliori e innovative. Questo è però possibile unicamente se il personale si sente abbastanza libero di dire quello che pensa, senza paura di ritorsioni. Spesso tra quello che pensano i vertici aziendali e quello che percepiscono i collaboratori c’è un divario che non viene percepito o considerato. Troviamo quindi la dirigenza convinta che il personale possa dire liberamente la sua opinione mentre i collaboratori non si sentono al sicuro e per questo non esprimono il loro parere. Da qui l’importanza di costruire e coltivare relazioni empatiche.
Ricorrendo all’aiuto di un consulente preparato e dando ai propri collaboratori la possibilità di formarsi, ogni azienda o organizzazione può sviluppare l’intelligenza emozionale al proprio interno.


Articolo a cura di Monica Garbani-Nerini, Formatrice, consulente e Chief Happiness Officer

Intelligenza artificiale e mondo del lavoro: una sfida per le imprese

Il termine “Intelligenza Artificiale (IA)” è oggi sulla bocca di tutti

Pur essendo oltre 50 anni che se ne parla, sono stati i più recenti progressi nella potenza dei computer, la disponibilità e la capacità di analizzare enormi quantità di dati e lo sviluppo di nuovi e sempre più complessi algoritmi, ad aver fatto fare balzi in avanti giganteschi all’IA.

Balzi avanti talmente dirompenti che oggi i Governi di tutto il mondo discutono di come “gestire” questa tecnologia e, soprattutto, come stabilire delle norme che ne regolino l’applicazione ed il funzionamento garantendo i diritti fondamentali dell’individuo i cui dati sono coinvolti nei processi.

Con IA si definisce “l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività”. In altre parole, l’IA è una tecnologia che simula i processi dell’intelligenza umana attraverso la creazione e l’applicazione di algoritmi (sequenza finita di operazioni da svolgere per risolvere un problema).

L’applicazione dell’IA nel mondo del lavoro non è fantascienza ma ormai realtà. Il mondo digitale ha visto emergere nuove professioni inesistenti fino a pochi anni fa ma anche l’incremento di lavoratori autonomi che offrono servizi tramite piattaforme o applicazioni mobili che utilizzano l’IA basandosi su algoritmi predefiniti. Far queste citiamo Uber, Deliveroo o Airnbnb.

L’IA non tocca solo la “forma” del lavoro ma ne influenza e stravolge anche la sostanza, andando a condizionarne le strutture di funzionamento ed i processi più profondi.
Ormai da tempo l’IA è parte integrante dei programmi di recruiting utilizzati dalle aziende per la selezione del personale. Significa che sempre più aziende delegano alle macchine la gestione dei colloqui di selezione e di conseguenza la scelta dei collaboratori. Tali sistemi riposano su un sistema di presa di “decisione automatizzata” e sono altresì utilizzati nella sorveglianza e nella valutazione del personale. Questo determina il fatto che l’IA non interviene solo nelle procedure di selezione ma anche nella valutazione dei collaboratori e, in ultima analisi, può determinare eventuali collaboratori non più idonei a svolgere il lavoro attribuitogli.

Un altro esempio. Oggi l’IA è in grado di redigere agilmente e in maniera autonomia testi anche complessi, la piattaforma più famosa in questo ambito è senz’altro Chat GPT (Generative Pretrained Transformer). Applicando questa capacità alla casella mail di una persona, l’IA è in grado, in brevissimo tempo, di sostituirla. L’IA è in grado di leggere e comprendere le mail in entrata e in uscita. Può rispondere simulando lo stile di chi scrive, il suo modo di ragionare, il suo atteggiamento e addirittura la sua fantasia. L’interlocutore, artificiale o umano o che sia, non si accorgerà della sostituzione.

Questa tecnologia specifica, sviluppata ad esempio da Microsoft, è già in uso in numerose aziende, soprattutto americane, dove l’IA si occupa della gestione delle mail e di tutta una serie di processi aziendali un tempo appannaggio degli uomini e oggi sempre più delegati ai computer.

Se l’IA costituisce un’importante opportunità di sviluppo, non mancano i rischi ad essa connessi. In particolare, l’utilizzo improprio dell’IA potrebbe comportare rischi anche gravi. L’Unione Europea parla espressamente del rischio di manipolare il comportamento delle persone, violandone, di fatto, i diritti fondamentali.

Proprio allo scopo di definire e contenere i potenziali rischi dell’IA, la Commissione Europea ha stabilito delle linee guida e dei limiti chiari: i sistemi di IA devono essere “sicuri, trasparenti, tracciabili, non discriminatori e rispettosi dell’ambiente”. Inoltre, è esplicito che la supervisione deve essere affidata a delle persone e non a degli automi. Dunque, non può essere l’IA a controllare l’IA.
Nelle scorse settimane, il Consiglio e il Parlamento europeo sono riusciti a trovare un’intesa su quello che sarà il contenuto del primo atto normativo che regolamenterà l’utilizzo dell’IA (Regolamento europeo sull’IA), il quale pone le basi per un utilizzo dell’IA sicuro e rispettoso dei diritti umani.

La Svizzera, come centro scientifico dello sviluppo dell’IA, seppur con un approccio moderato, vuole contribuire all’elaborazione di questo quadro normativo internazionale che consenta di sfruttare le opportunità offerte dall’IA e di affrontare in modo mirato le sfide che essa pone.

In attesa di norme che definiscano in modo più concreto l’utilizzo dell’IA, ci si chiede in che modo sia attualmente regolamentato l’utilizzo dell’IA all’interno dei rapporti professionali e in che misura i diritti fondamentali dei dipendenti siano tutelati.

Il punto centrale che permette da subito di definire delle regole è riconoscere che le tecnologie che si basano sull’IA utilizzano i dati personali degli individui e dunque rientrano indubbiamente nell’ambito del “trattamento dei dati personali”.
Il trattamento di dati è regolamentato in Svizzera dalla Legge sulla Protezione dei dati (la cui modifica sostanziale è entrata in vigore il 1° settembre 2023) e, per quanto riguarda il rapporto di lavoro, dall’art. 328b del Codice delle Obbligazioni che circoscrive la cerchia di dati che il datore di lavoro può utilizzare nell’ambito del rapporto di lavoro. Questa norma prevede infatti che il datore di lavoro è legittimato ad utilizzare (trattare) le informazioni (dati) dei dipendenti solo se si riferiscono all’idoneità lavorativa o se necessari all’esecuzione del contratto.
Un utilizzo, oltre questo scopo sarebbe illecito e comporterebbe una violazione della personalità del dipendente (diritto inalienabile e fondamentale dello stesso).
Questi principi sono validi anche nell’ambito dell’utilizzo dell’IA e, anzi, ne ampliano il campo d’applicazione.

Nel concreto, come per tutti i processi, il datore di lavoro è autorizzato ad utilizzare le tecnologie basate sull’IA solo ed esclusivamente se lo scopo ricercato è quello indicato nella norma citata.
È primordiale che nell’utilizzo delle tecnologie “permesse” il datore di lavoro salvaguardi la personalità del dipendente, applicando altresì in modo rigoroso i principi previsti dalla LPD. In particolare: liceità, informazione, consenso esplicito (dove necessario), buona fede, esattezza, finalità, trasparenza, proporzionalità e sicurezza.
Per quanto concerne il caso concreto delle “decisioni individuali automatizzate” (quali i casi di selezione di dipendenti per l’assunzione, la promozione o il licenziamento nel rapporto di lavoro), l’art. 21 LPD accorda a colui i cui dati sono oggetto di trattamento (in questo caso al dipendente) il diritto di ottenere un riesame della decisione da parte di una persona fisica (questa prerogativa può essere esclusa in caso di consenso preventivo e completo alla presa di decisione automatizzata).
È opportuno osservare che vi sono altre norme (sovente trascurate) che devono essere considerate nell’applicazione dell’IA al rapporto di lavoro, in particolare la Legge sul lavoro e la Legge sulla Partecipazione. Per ogni singolo caso, vi è una declinazione specifica dei principi citati che va discussa e delineata, ma vi è sempre un denominatore comune: un obbligo di informazione chiaro e completo.

Per approfondire il tema, circoscrivere e definire le norme applicabili a situazioni concrete durante il rapporto di lavoro, rinviamo al corso: “L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel mondo del lavoro: quali obblighi per il datore di lavoro?” che si terrà il prossimo 6 maggio 2024 online.

Dettagli e iscrizioni:
https://www.cc-ti.ch/calendario/lutilizzo-dellintelligenza-artificiale-nel-mondo-del-lavoro-quali-obblighi-per-il-datore-di-lavoro-online/


Articolo a cura di Avv. Roberta Bazzana-Marcoli, titolare RB Legal

Se una zebra incontra un ippopotamo

In occasione dello svolgimento di riunioni, siano esse di gruppo o di team di lavoro, si incontrano individui e si constatano aspetti rivelatori e sovente sorprendenti.

Molte persone hanno comportamenti e attitudini molto differenti, se si relazionano a livello personale con un unico interlocutore oppure se sono inseriti in un gruppo. Questi cambiamenti possono creare difficoltà e imprevisti nella gestione delle riunioni.

Kurt Zadek Lewin è considerato il maggiore studioso delle relazioni all’interno di un gruppo psico-sociale. Il suo approccio si basa sulla teoria della Gestalt, per cui si valuta l’insieme differente, nuovo o altro (e non maggiore quantitativamente né migliore qualitativamente) rispetto alla somma delle singole parti. L’individuo, quindi, si colloca al centro di un campo di forze ambientali che lo modificano e che, grazie a lui, mutano a loro volta.
Il taylorismo, il fordismo e il toyotismo, hanno portato al boom della produzione, razionalizzando grazie anche all’ottimizzazione continua. Rischiano di fare dimenticare che il gruppo ha degli aspetti emotivi cruciali. Lo studioso Le Bon (1985), fondatore della “psicologia delle folle”, e Freud (1921), consideravano il gruppo come sede di istinti emotivi, inconsci e tribali. Per Freud il gruppo portava ad una sorta di regressione delle persone.
Ciò porta a porsi questa domanda: “perché le emozioni in azienda sono importanti?” Perché le emozioni sono un grande sistema motivante (emozione ha anche la stessa radice etimologica di motivazione).
Questi cambiamenti comportamentali possano avere molte cause: l’uso della riunione quale arena per esprimere impulsi inconsci e a volte repressi, l’incertezza nella formulazione degli obiettivi, le modalità comunicative non condivise, gli spazi e l’ascolto concesso in modo arbitrario, la mancanza di ricerca della condivisione, la gestione errata dei feedback e altro ancora.
Per l’analisi e la gestione di un team e delle sue forme operative, come ad esempio le riunioni, si rivela utile identificare in quale momento del ciclo di vita del gruppo ci si muove.

Il periodo della formazione del team è il momento in cui il gruppo interagisce per le prime volte. Se i suoi membri stanno lavorando a un progetto, possono allinearsi sugli obiettivi o definire il proprio piano di progetto. In questa fase di sviluppo, i membri del gruppo si comportano indipendentemente l’uno dall’altro: la maggior parte delle loro conversazioni sono razionali, ma emotivamente distanti.

La seconda fase di sviluppo inizia sovente con un primo disaccordo di qualche tipo. Tale disaccordo funge da catalizzatore per i membri del gruppo affinché condividano più attivamente e focalizzano le proprie opinioni e siano concreti, trasparenti e onesti tra di loro. Questa onestà fa sì che inizino a fidarsi a vicenda.

Una volta che il gruppo ha risolto i primi disaccordi o conflitti iniziali ed “esplorativi”, le interazioni al suo interno diventano cooperative e possibilmente amichevoli. Durante questa fase, il gruppo inizierà a stabilire delle norme, anche se non discute su di esse né le registra in qualche modo: viene data la priorità alla coesione del gruppo. In effetti, il pericolo di questo momento è che i membri del gruppo siano troppo riluttanti a condividere le proprie opinioni, cosa che può portare all’immobilismo, oppure che alcuni partecipanti si arrocchino su ruoli e comportamenti stereotipati: il lupo, la zebra, l’ippopotamo e il rinoceronte (vedi box sotto).

Il periodo detto della prestazione è quando il gruppo dà il meglio di sé. I membri sono in grado di agire in modo indipendente o affrontare la risoluzione dei problemi in gruppo. Invece di preoccuparsi di come gli altri membri li percepiscono, i singoli membri si concentrano sugli obiettivi del gruppo e le soluzioni concrete.

La quinta e ultima fase è quella di sospensione o del lutto, per descrivere la separazione del gruppo dovuta, ad esempio, al completamento del progetto. Se i membri lavoravano bene insieme, possono provare un senso di perdita al momento dello scioglimento del gruppo.

Per evitare i più comuni errori nella gestione delle riunioni occorre procedere con metodo ed avere quindi un approccio strutturato sia nella fase di preparazione che di conduzione di esse.
I passaggi essenziali devono essere i seguenti:

  • Leadership, che si concretizza con una chiara focalizzazione sull’innovazione e sulla scelta di una visione del futuro motivante, attitudine all’ascolto e alla delega, gestione del Sé efficace, non temere i conflitti e capacità di prendersi cura degli altri.
  • Individuare le principali finalità di ciascun tipo diverso di riunione. Pochi obiettivi, sintetici, concreti e raggiungibili.
  • Predisporre una traccia di quanto verrà detto o proposto, prevedere scenari alternativi.
  • Prevedere le possibili obiezioni ed inglobare le risposte nel materiale che verrà presentato.
  • In fase di conduzione tenere presente le esigenze delle diverse tipologie di partecipanti.
    Tenere conto della propria emotività.
  • Essere determinati nel ricercare le soluzioni e non focalizzarsi sulla continua analisi dei problemi.
  • Essere aperti e disponibili nei confronti delle persone.
  • Verificare durante l’incontro il livello di comprensione di ciò che viene detto.
  • Monitorare il livello di responsabilizzazione delle persone rispetto alle decisioni prese.

Per avere successo bisogna saper riconoscerne i potenziali e non temere i rischi.

Tipi di personalità da evitare in un meeting strategico

Nel libro “The essential guide to prioritizazion by product board” (2021), vi è un grafico – in una versione adattata da Jeroen Kraaijenbrink e Timothy Timur Tiryaki, consulenti di strategia e leadership –, in cui vengono delineati quattro tipi di personalità a cui sono attribuite caratteristiche peculiari da “evitare” per la conduzione ottimale e, dunque, buona riuscita di una riunione.
Non solo: queste personalità, attraverso i loro atteggiamenti, possono ostacolare le dinamiche che si instaurano all’interno del gruppo nel portare a termine un progetto, un processo o una collaborazione.
Originariamente conosciuti come “gli animali pericolosi nel management”, sono identificati quattro tipi di figure: la zebra, l’ippopotamo, il lupo e il rinoceronte. Ecco cosa significano e come affrontarli nelle riunioni strategiche.
Acquisendo queste conoscenze, potrebbe essere più facile gestire la conduzione di una riunione, affrontando le personalità in modo un po’ più efficace.

GEN Z: minaccia o opportunità per le aziende?

La Gen Z viene descritta come la generazione che richiederà alle organizzazioni il maggiore sforzo di adattamento alle sue peculiarità. Come affrontare questo processo di sviluppo organizzativo e quali strategie adottare?

La Gen Z è composta dai nati tra il 1996 e il 2010 circa ed è la prima generazione di nativi digitali. Desidera sentirsi inclusa, essere parte integrante dell’organizzazione per cui opera, valorizzata e forse addirittura capita nel profondo. Ambisce ad essere seguita da manager interessati al loro sviluppo professionale. Mostra una preferenza per ruoli che permettono di esplorare e ampliare una varietà di competenze rispetto a un lavoro che si focalizza su un particolare bagaglio di competenze. Questo, peraltro, è in linea con la richiesta sempre maggiore da parte del mercato del lavoro di competenze trasversali.

Ogni generazione ha la sua prospettiva rispetto al mondo del lavoro. Tendenzialmente la Gen Z predilige il lavoro ibrido o remoto, con la possibilità di essere mobile e lavorare da luoghi diversi, si aspetta di collaborare con un’organizzazione tecnologicamente innovativa, chiede maggiormente una remunerazione equa, verosimilmente darà una spinta verso la diffusione della settimana lavorativa di quattro giorni come realtà operativa e la gestione agile delle organizzazioni.
Avere spazio e voce per esprimersi è vitale per la Gen Z, che ama condividere idee e opinioni, sperimentare, agire in un ambiente psicologicamente sicuro, dove errori e fallimenti vengono “celebrati” come strumento di apprendimento. Predilige l’assegnazione di progetti stimolanti e responsabilità significative
come opportunità di mettere alla prova e mostrare le proprie capacità. Si sente soffocata dal micromanagement. Apprezza ricevere a intervalli regolari feedback sulla performance, per capire come migliorare e ricevere supporto per farlo. Ambisce al coinvolgimento nelle decisioni aziendali e a sentirsi parte integrante dell’organizzazione.

Generalizzando, la Gen Z è stata educata a essere istantaneamente gratificata, premiata soprattutto per la partecipazione più che meritocraticamente per avere dimostrato una perfomance eccellente. Viene descritta come impaziente, con una durata piuttosto breve della capacità di attenzione, abituata a fare sentire la propria voce, si sente più competente delle precedenti generazioni e non si fa scrupoli a comunicarlo. Talvolta pare denotare una mancanza di disciplina e di un’etica lavorativa – quell’etica orientata all’impegno che premia sforzi e risultati tanto famigliare a precedenti generazioni – e quindi risulta facilmente frustrata se non vede risultati immediati. Non vuole perdere tempo ad imparare ciò che non le sembra utile. Questo ha il “pregio” di minimizzare il tempo d’apprendimento, può delineare un grande focus, un forte orientamento ai compiti da portare a termine, ma comporta il rischio di offuscare una visione d’insieme più ampia.

Spesso questa generazione viene percepita come la più sfidante da gestire, come una vera e propria minaccia per il modus operandi organizzativo in essere. C’è frustrazione da parte dei datori di lavoro rispetto alle esigenze della Gen Z, di conseguenza preferiscono non assumere i nativi digitali o si sentono messi con le spalle al muro e quindi praticamente obbligati ad accettare le loro condizioni. Gioca un ruolo determinante in questa dinamica poco funzionale, la difficoltà a reclutare forza lavoro qualificata in alcuni settori.

Si sconsiglia alle organizzazioni un’accettazione unilaterale e passiva delle aspettative portate avanti dalla Gen Z. È invece necessario mettere in atto un lavoro di co-creazione, in cui comprendere le rispettive esigenze, su cui basare le fondamenta di un’integrazione di successo della Gen Z nel mondo del lavoro.

La sensibilità della Gen Z per tematiche quali l’impatto sociale e ambientale, la salute mentale, la flessibilità, l’inclinazione al dialogo e a prendere decisioni in tutte le sfere della vita facendo riferimento al loro sistema valoriale, può essere sfruttata come leva per produrre cambiamenti di paradigma sostenibili all’interno delle organizzazioni a beneficio di tutte le generazioni attive nel mondo del lavoro.

A livello aziendale, metaforicamente parlando, sarebbe utile scattare una fotografia dello status quo, definire dove si vuole andare, cosa bisogna cambiare e come. È necessario che visione e missione aziendale siano chiare e l’operatività declinata su questi principi – ci si può fare accompagnare da consulenti organizzativi che con la loro expertise facilitano questa tipologia di processi e trasformazioni. La Gen Z aspira a un lavoro all’interno di un’organizzazione che abbia un impatto positivo sulla società. Lo scopo e i valori delle organizzazioni devono quindi essere comunicati con trasparenza e messe al centro, a partire dalle attività per attrarre talenti.

Per gestire efficacemente i collaboratori nativi digitali, è necessario adottare un approccio innovativo verso la tecnologia nella propria modalità gestionale. La Gen Z è stata esposta a comunicazione e apprendimento supportate dalla tecnologia e desidera avere a disposizione strumenti per velocizzare e rendere più efficace il lavoro: questo permette di dedicare meno tempo al lavoro, dando più spazio alla vita privata.
I Gen Z sono motivati da un lavoro che considerano significativo e gravitano attorno alle organizzazioni che sostengono i loro principi. Trasmettere loro in modo efficace gli obiettivi dell’organizzazione serve a far emergere il loro scopo individuale e a stabilire un legame profondo e fruttuoso tra loro, i ruoli e l’azienda.

Dialogando con i nativi digitali, è utile illustrare aspettative chiare nei loro confronti, percorsi di carriera e sviluppo ben definiti e come i loro contributi potranno avere un impatto positivo sulla missione dell’organizzazione. Guidare i rappresentanti della Gen Z a trovare uno scopo nel loro lavoro aumenta il loro impegno, la loro motivazione e la loro dedizione, spingendoli verso le loro aspirazioni.
Non facendolo, si corre il rischio che esternalizzino la loro ricerca di uno scopo, che siano poco presenti e performanti sul posto di lavoro e decidano, senza troppe remore, di lasciarlo.

Un rischio reale anche in Svizzera dove nel 2022 secondo l’Ufficio federale di statistica la Gen Z rappresentava il 13,4% della popolazione attiva?
Recenti dati di un’indagine Randstad evidenziano che il 32% della Gen Z in Svizzera non si sente compreso dal proprio datore di lavoro. Inoltre, secondo la Swiss Gen Z and Millenial Survey 2023 condotta da Deloitte, il fattore principale per cui la Gen Z ha deciso di licenziarsi è la considerazione del lavoro nell’attuale ruolo come non appagante o significativo. Questo motivo è seguito dalla percepita mancanza di una retribuzione competitiva, pur essendo quest’ultima in prima posizione nella media europea.

Un allineamento tra sistema valoriale individuale e organizzativo è cruciale per una collaborazione di successo, indipendentemente dal discorso generazionale. Una visione che potrebbe sembrare romantica, viene però supportata da dati e fatti. I candidati assunti da un’azienda, in effetti, oltre ad essere ben qualificati, è opportuno che mostrino un elevato adattamento persona/ruolo e persona/cultura organizzativa. Il matching è possibile farlo con l’implementazione di strumenti dedicati e intensifica la fidelizzazione dei dipendenti. La riduzione del turnover non solo migliora morale e performance, ma contribuisce anche al risultato economico e porta considerevoli risparmi di costi associati alla sostituzione di forza lavoro.
I successi portano grande soddisfazione quando, durante il percorso per raggiungere i traguardi prefissati, i comportamenti messi in atto onorano i propri valori. E se questi non collidono con quelli organizzativi, il talento “fiorisce” proprio grazie all’allineamento tra il sistema valoriale individuale e quello aziendale.
Il tutto porta benessere in senso più ampio, sia a livello individuale sia con effetti benefici tangibili per l’organizzazione, misurabili spesso in un migliore ritorno finanziario per l’azienda.

Nell’accompagnamento individuale, finalizzato allo sviluppo della leadership o di altre competenze trasversali, la figura del coach professionista supporta generalisti, specialisti e manager nel miglioramento della loro relazione con sé stessi e gli altri: un viaggio che inizia spesso dalla (ri-)scoperta dei propri valori come principi guida nelle scelte di vita. Decidere di onorare i propri valori, attraverso il modo di essere e di agire, permette di provare maggiore soddisfazione per gli obiettivi raggiunti e una maggiore consapevolezza del proprio impatto sul mondo in cui si opera.

Fare leva sulle caratteristiche della Gen Z rispetto alla ricerca di benessere e significato sul posto di lavoro, potrebbe dimostrarsi una grande opportunità che offrirà un vantaggio competitivo alle organizzazioni che la coglieranno.


Articolo a cura di Romina Henle, Consulente organizzativa e coach professionista, titolare di Dance In Your Essence

Quando il galateo entra in azienda

Nel 2023 il galateo fa ancora la differenza? L’etichetta nel contesto aziendale risulta essere un elemento preponderante, sia in termini di organizzazione come pure di clima.

Le “buone maniere” sono un aspetto fondamentale per creare un ambiente di lavoro positivo e produttivo. In particolare, nel contesto dell’ufficio, il galateo gioca un ruolo essenziale nella promozione di relazioni professionali efficaci e nella costruzione di un clima lavorativo armonioso. Rappresenta, inoltre, le norme sociali che regolano le interazioni tra colleghi e svolgono un ruolo cruciale nell’instaurare un senso di rispetto reciproco.

Questi assunti valgono all’interno di ogni azienda, come pure nelle interazioni che si intrecciano periodicamente nel mondo business, sia esso locale, nazionale o internazionale. Fare business non è mai facile, ma farlo con culture diverse dalla nostra lo è ancora di più. Per condurre una buona trattativa e, in generale creare un buon rapporto con un cliente di cultura diversa dalla nostra, bisogna tenere conto di molte variabili – anche differenti da quelle a cui pensiamo –, che nulla hanno a che vedere con il progetto tecnico ed economico in gioco (abbiamo già pubblicato due approfondimenti su questo tema: www.cc-ti.ch/cross-culture e www.cc-ti.ch/tips-di-business-etiquette).

Quali gli ingredienti per il successo professionale? Le parole chiave sono comunicazione e rispetto.

Le buone maniere ci permettono di vivere meglio in ogni ambiente sociale. E con due termini quali ‘comunicazione’ e ‘rispetto’ è possibile riassumere una serie di dettami che potrebbero andare a comporre una “ipotetica” lista che, insieme ad un pizzico di buon senso, permetterebbero una buona conciliazione lavorativa.

L’aspetto personale e la propria attitudine sono essenziali: vestirsi in modo appropriato, adattando l’abbigliamento al contesto aziendale, e – forse è scontato dirlo – una buona igiene personale, un sorriso e un saluto cordiale possono fare la differenza nell’interazione con i colleghi, completando il quadro; creando un clima accogliente e positivo.

La comunicazione è cruciale. Parlare in modo rispettoso ed evitare toni eccessivamente informali o offensivi è essenziale. Inoltre, è importante ascoltare attivamente i colleghi durante le riunioni e le conversazioni, mostrando interesse e rispetto per le loro opinioni. La gestione del tempo e degli spazi condivisi è altrettanto rilevante, con ordine e pulizia.
Capitolo a parte quello della privacy e della confidenzialità delle informazioni, sancita anche a livello legale.

Gestire in modo costruttivo i conflitti e le divergenze di opinioni è importante per mantenere un clima di collaborazione all’interno del team (a tal proposito è utile ricordare i corsi di formazione puntuale che la Cc-Ti eroga nell’ambito della gestione di conflitti e delle HR – www.cc-ti.ch/ formazione-risorse-umane).

Il galateo in ufficio rappresenta un insieme di comportamenti e attitudini che contribuiscono a mantenere un creare un ambiente di lavoro positivo e produttivo.

FOCUS
Eclissarsi con stile da eventi e manifestazioni

Probabilmente vi siete già trovati una situazione simile: siete stati invitati a un pranzo o una cena di lavoro e avete l’intenzione di congedarvi dopo tre o quattro ore al massimo. Tuttavia, l’evento si protrae molto più a lungo di quanto avreste inizialmente immaginato e, di conseguenza, vi trovate bloccati: cosa fare? Andarsene o rimanere?

Lo stigma della maleducazione

Andarsene prima della fine è più facile a dirsi che a farsi. Si rischia di apparire maleducati, soprattutto a fronte di inviti e ospiti importati. A maggior ragione se si abbandona una tavola rotonda: una sedia vuota desterà ancor più l’attenzione. Come agire? L’importante è non “scappare”. Raggiungete il padrone di casa e spiegate brevemente il motivo per il quale dovete abbandonare l’evento.
Meglio sarebbe anticipare questa conversazione in modo da chiarirsi quanto prima. Ringraziate per l’invito e sottolineate il successo rilevato dell’evento, congratulandovi.

Ringraziamenti

Può essere utile scrivere una breve lettera – magari a mano e non con il computer – nei giorni successivi, in cui si ringrazia ancora una volta ribadendo l’ottimo successo dell’evento.

Una questione anche… di tatto

Per declinare un invito occorre tatto: fa sicuramente piacere ricevere un invito, anche se non potremo accettarlo. D’altro canto, in qualità di organizzatore di un evento, può risultare antipatico ricevere un ‘no’ ad un invito appena spedito.
Ecco perché occorre motivare in modo schietto le proprie ragioni qualora si decidesse di declinare un invito, con un lasso di tempo massimo di una settimana. Più si esita, avvicinandosi la data dell’invito, più il rifiuto sarà spiacevole per chi vi ha invitato.

Essere invitati è sempre un onore: questo vale per eventi molto personali, come un compleanno, le nozze d’oro o una cena, ma anche per eventi di networking, di associazioni economiche, cocktail, e vernissage. Ricevere un invito è – in ogni caso – un segno di riconoscimento nei vostri confronti da parte della persona o dell’istituzione che ha scelto di condividere con voi un’occasione d’incontro, attribuendo una particolare rilevanza ad una partecipazione personale.

Ecco, infine, come formulare un rifiuto in termini generali/formali: “Egregio Signor Rossi, grazie per il suo gentile invito. Purtroppo, sarò assente il … (in vacanza, a un seminario fuori sede, ecc.) e non potrò quindi partecipare. Grazie per la sua comprensione! Spero che l’evento sia un successo e mi auguro di rivederla presto. Con i miei più cordiali saluti”.

Per concludere: la cortesia e il rispetto verranno sempre letti e ricevuti come valore aggiunto della vostra persona.