Concentrazione sui nostri punti di forza

I punti di forza e le criticità del modello economico svizzero nell’analisi del Prof. Lino Guzzella all’Assemblea Cc-Ti

L’invidiabile situazione finanziaria della Confederazione, a differenza di altri Stati europei zavorrati da un enorme debito pubblico, l’offerta formativa di ottimo livello, le condizioni quadro e, soprattutto, quella capacità d’innovazione che da anni colloca la Svizzera al primo posto nelle diverse classifiche internazionali. Con il suo intervento alla 107esima assemblea della Cc-Ti, il Professor Lino Guzzella, ha offerto un’analisi a 360 gradi del modello economico svizzero. I punti di forza, ma evidenziando anche i suoi elementi di vulnerabilità, in un quadro di forte concorrenza internazionale e di preoccupanti tensioni geopolitiche che, oltre a generare timori e incertezza, possono condizionare le sorti di un’economia che dipende fortemente dal commercio con l’estero.

Prof. Lino Guzzella

Un modello di successo, certamente, ma non acquisito per sempre, nulla è scontato, ha avvertito l’ex rettore e già presidente del Politecnico federale di Zurigo. Perciò, non bisogna mollare la presa. Anzi, visto che il nostro paese può incidere poco sugli inquietanti scenari geopolitici che stanno scuotendo le relazioni tra gli Stati, è più che mai necessario concentrare gli sforzi per salvaguardare e potenziare quei fattori propulsivi che hanno finora garantito la crescita. “Riusciremo a mantenere la nostra prosperità – ha ricordato – solo se possiamo continuare a vendere con successo i nostri prodotti e servizi sul mercato mondiale”.

A cinque anni dal suo primo intervento ad un’assemblea della Camera di commercio, il Professor Lino Guzzella con la sua analisi ha riproposto ora un’articolata visione d’insieme della situazione svizzera, con uno sguardo particolare al Ticino e alle sue potenzialità nel contesto dell’economia nazionale. In questa intervista ripercorriamo col Professor Guzzella i passaggi più importanti della sua relazione, mettendo a fuoco i temi cruciali per il futuro della Svizzera e del Cantone.

Anche se in misura minore rispetto al passato, il Prodotto interno lordo elvetico continua a crescere e le esportazioni in questi ultimi anni hanno retto i contraccolpi della forza del franco. Al confronto di molti altri paesi europei, la Svizzera sta dimostrando una notevole resilienza nel succedersi di varie crisi e crescenti tensioni internazionali. Si riuscirà a mantenere e migliorare questo trend?

Lo spero, ma non ci sono garanzie di successo. Alcuni sviluppi geopolitici non possono essere influenzati dalla Svizzera. Per questo è ancora più importante concentrarsi sui nostri punti di forza. Si tratta di condizioni quadro politiche ragionevoli, di un uso economico delle entrate fiscali, di un sistema educativo duale che seleziona in modo meritocratico, di un’infrastruttura intatta (trasporti, energia, …) e di molto altro ancora”.

Che importanza ha il Ticino nell’economia nazionale e quali sono le sue prospettive di sviluppo? Si sono create le premesse per avere anche qui da noi un ecosistema economico forte e dinamico?

“Il Ticino ha già un vivace ecosistema dell’innovazione, sia nei settori tradizionali (moda, turismo, ecc.) sia in quelli più recenti (biomedicina, sistemi energetici, microelettronica, ecc.). I due centri universitari, USI e SUPSI, che dispongono di eccellenti reti nazionali e internazionali, ne sono il fulcro. L’asse Ticino-Zurigo, che sta assumendo un peso sempre più importante, svolge un ruolo particolare in questo ambito”.

La Svizzera si è confermata ancora al primo posto nelle più accreditate classifiche internazionali per l’innovazione. Quali sono le ragioni di questa affermazione?

“Queste classifiche vanno sempre trattate con cautela e, inoltre, riflettono solo il passato. Ma sì, la Svizzera ha fatto molte cose bene, ad esempio non ha perseguito una politica industriale eccessiva, ma ha sostenuto la ricerca di base e i progetti pilota. È stato importante che alle imprese esistenti e a quelle nuove fosse concessa una grande libertà per partecipare con successo al mercato globale. Altrettanto importante è stato il sistema di istruzione duale, che ha permesso ai giovani di entrare nel mondo del lavoro in base alle loro capacità”.

Quali sono i punti deboli che potrebbero compromettere la forza economica del paese, guardando anche all’industria europea hi- tech che arranca, schiacciata dal peso degli Usa, della Cina e dell’India?

“La Svizzera è fortemente dipendente dal commercio estero, da cui dipende quasi la metà del nostro PIL e quasi nessun altro paese ha beneficiato della globalizzazione quanto la Svizzera. Possiamo mantenere la nostra prosperità solo se possiamo continuare a vendere con successo i nostri prodotti e servizi sul mercato mondiale. Questo costringe le aziende a cercare nicchie redditizie in cui competere. Ciò richiede agilità, contatto costante con i clienti e personale eccellente. E, naturalmente, un’abile gestione degli sviluppi geopolitici, che rappresentano una sfida importante soprattutto per le piccole imprese”.

L’economia mondiale è in fase di rallentamento, alcuni parlano di stagnazione secolare, altri di trappola della crescita. Cosa pensa al proposito?

“È una domanda difficile. Da un lato, possiamo vedere dall’esempio della Germania, che non ha avuto crescita economica per cinque anni, come regioni economiche un tempo di successo possano ristagnare. Dall’altro lato, gli Stati Uniti hanno sviluppato un enorme dinamismo nello stesso periodo, ottimizzando le aree di business esistenti e sviluppandone di completamente nuove. Tutto dipende dall’atteggiamento di base di una società: vuole essere il più egualitaria possibile ed è avversa al rischio, oppure accetta le disuguaglianze e gli approcci fallimentari? Solo il secondo approccio può portare sempre nuovi successi”.

Secondo un recente studio di Google Svizzera, entro il 2050 l’intelligenza artificiale generativa potrebbe favorire un aumento del PIL elvetico fino all’11%, pari a qualcosa come 80-85 miliardi di franchi all’anno. Eppure, si guarda agli sviluppi dell’IA con timore.

“Innanzitutto, sarei cauto con le previsioni troppo ottimistiche. Le reti neurali generative aumenteranno certamente la produttività assumendo compiti cognitivi di routine. Quanto siano grandi questi guadagni di efficienza resta da vedere. C’è poi la questione della regolamentazione: ancora una volta, questa varia molto da regione a regione. Come ogni nuovo strumento creato dall’uomo, anche le reti neurali comportano dei rischi. La regolamentazione è una cosa, ma sarà ancora più importante formare le persone affinché possano utilizzare i nuovi strumenti in modo sensato”.

La recente crisi energetica ha dimostrato che un approvvigionamento di energia sicuro e, tendenzialmente, ad emissioni zero è una condizione imprescindibile per lo sviluppo del paese. Quali sono le prospettive al riguardo?

“I paesi che forniscono agli abitanti e all’industria energia affidabile e a prezzi accessibili hanno successo anche dal punto di vista economico. Per la Svizzera sarà fondamentale fornire circa il 50% in più di energia elettrica nel 2050, soprattutto da fonti domestiche. Ma questo non sarà possibile con le misure presentate nel 2017”.

Per compensare i tagli dei contributi alle Università, il Parlamento federale ha deciso di triplicare le tasse per gli studenti stranieri che frequentano i nostri Politecnici. Come giudica questa decisione? Non si rischia di rendere la Svizzera meno attrattiva per quei giovani talenti di cui abbiamo sempre più bisogno?

“L’USI dimostra che la differenziazione delle tasse universitarie non deve necessariamente andare a scapito delle università. Tuttavia, un eventuale aumento delle tasse deve essere abbinato a corrispondenti offerte di borse di studio per i talenti eccezionali”.

In un mondo in cui tutto, produzione, costumi, società, cambia rapidamente, qual è oggi la missione dell’Università?

“In realtà si tratta sempre della stessa cosa: consentire ai giovani di pensare in modo critico e creativo, di apprendere in modo indipendente per essere in grado di plasmare il futuro in modo responsabile”.

Innovazione e ricerca e sviluppo tecnologico: quo vadis?

A fine settembre, la Svizzera ha conquistato il primo posto del “Global Innovation Index (GII)” dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI) per la sua capacità di innovare: è il 14° anno consecutivo che il nostro Paese si posiziona in testa a questa classifica che valuta la capacità delle singole Nazioni di convertire gli input dell’innovazione in risultati concreti come brevetti e beni tecnologicamente avanzati. Fanno seguito Svezia e Stati Uniti. La Cina si è attestata all’11° posto, diventando uno dei Paesi ad aver scalato più velocemente la classifica negli ultimi 10 anni. Molti degli indicatori del GII sono tuttavia presentati in base alla popolazione o al prodotto interno lordo del Paese: se si considerano gli investimenti complessivi, gli Stati Uniti si confermano il maggior investitore in ricerca e sviluppo (R&S).

La Cina sta però mettendo sempre più in discussione il dominio tecnologico degli USA. Lo conferma il rapporto biennale “State of US Science & Engineering” (Stato della scienza e dell’ingegneria degli Stati Uniti) presentato al Congresso degli Stati Uniti dall’agenzia governativa americana National Science Board (NSB): nel 2021, l’anno più recente incluso nel rapporto, con 806 miliardi di dollari investiti in R&S, sia pubblica sia privata, gli Stati Uniti mantenevano ancora un buon vantaggio sulla Cina (che a sua volta aveva investito “solo” 668 miliardi di dollari), ma ora questo vantaggio si sta erodendo rapidamente.

Esiste poi un’altra classifica, meno nota, realizzata dal think tank australiano Australian Strategic Policy Institute (ASPI), il “Critical Technology Tracker” (localizzatore di tecnologie critiche). Secondo questa classifica, la Cina detiene ora il primato mondiale nella ricerca tecnologica in nove settori critici su dieci e continua ad aumentare il suo vantaggio sugli Stati Uniti: questi ultimi sono leader solo in 7 delle 64 tecnologie considerate critiche, mentre il Dragone guida le altre 57, prevalentemente in campi come la difesa, lo spazio, l’energia, l’ambiente, l’intelligenza artificiale (IA), le biotecnologie, la robotica, la cibernetica, l’informatica, i materiali avanzati e le aree chiave della tecnologia quantistica.

Lo studio dell’ASPI valuta anche il potenziale monopolio della ricerca in questi settori. Il numero di tecnologie considerate “ad alto rischio” di potenziale monopolizzazione è aumentato da 14 a 24. Nell’attuale contesto geopolitico è preoccupante il fatto che molte delle nuove tecnologie considerate ad alto rischio abbiano applicazioni nella difesa e che il Paese di Mezzo sia leader in tutti questi ambiti, oltre a ottenere nuovi risultati nei sensori quantistici, nel calcolo ad alte prestazioni, nei sensori gravitazionali, nei lanci nello spazio e nella progettazione e fabbricazione di circuiti integrati avanzati (produzione di semiconduttori).

Detto ciò, la performance della Cina nella ricerca non riflette ancora il dominio nello sviluppo tecnologico che, come abbiamo visto, rimane in mano agli Stati Uniti: il gigante asiatico è infatti in ritardo su questo fronte. È comunque opportuno sottolineare che nell’ambito del piano “Made in China 2025” volto a rafforzare l’autosufficienza del Paese e a trasformarlo in una potenza economica globale, il Dragone sta investendo molto nelle sue capacità produttive sovvenzionando proprio ambiti chiave come l’industria IT di nuova generazione (circuiti integrati, software ad uso industriale, equipaggiamenti di telecomunicazione), la robotica, l’aviazione e i settori aerospaziale e navale. Gli Stati Uniti seguono attentamente questi progressi e ad inizio settembre hanno introdotto nuovi controlli sulle esportazioni di tecnologie importanti verso lo Stato asiatico nel tentativo di limitargli l’accesso a tecnologie avanzate, come le apparecchiature per la produzione di chip, i computer e i componenti quantistici.

Che ne è degli altri Paesi nell’attuale competizione per le tecnologie critiche? Per 45 delle 64 tecnologie esaminate, l’India figura nella Top5 subito dopo gli Stati Uniti e la Cina, emergendo come centro chiave dell’innovazione ed eccellenza della ricerca globale, soprattutto in diverse aree essenziali e in rapida evoluzione dell’IA, come l’analisi avanzata dei dati, gli algoritmi di IA, gli acceleratori hardware, l’apprendimento automatico, la progettazione e la fabbricazione di circuiti integrati avanzati, l’elaborazione del linguaggio naturale e l’IA avversaria. Dal canto suo, il Regno Unito è uscito dalla Top5 per otto tecnologie e ora si colloca tra i primi 5 Paesi per 36 tecnologie, contro le 44 dello scorso anno. Il Paese ha perso terreno in particolare nelle tecnologie di rilevamento, materiali avanzati e spazio. Nel suo complesso, l’Unione europea continua invece ad essere competitiva: sebbene nessuno degli Stati membri occupi singolarmente la prima posizione nelle tecnologie critiche (la Germania è la più forte, nella Top5 in 27 aree), il blocco europeo è leader in due aree tecnologiche (sensori di forza gravitazionale e satelliti di piccole dimensioni) e figura al secondo posto in 30. Un risultato in linea anche con il più recente rapporto Draghi, che riconosce lo spazio come un settore strategico chiave per il futuro della competitività europea. La rivalità tecnologica tra Stati Uniti e Cina, insieme all’importanza strategica crescente delle tecnologie critiche, ha creato una situazione geopolitica in cui l’Europa dovrebbe (o meglio, deve) svolgere un ruolo più attivo e assertivo, riducendo altresì la sua dipendenza dalle due superpotenze. La domanda che dovrebbe essere posta è: l’Europa sarà in grado di mobilitare la volontà politica e gli investimenti necessari per raggiungere questo obiettivo?

Altri link utili:
Chi guida la corsa alle tecnologie critiche? – Cc-Ti (28 marzo 2023)

Denominatore comune: innovazione

Qualche settimana fa abbiamo approfondito le problematiche che stanno mettendo in difficoltà la Germania, fondamentale partner commerciale per la Svizzera. Difficoltà legate anche al rallentamento della Cina, nel settore automobilistico in particolare, ma non solo. Cina che sembra lontana ma che gioca un ruolo importante per l’economia mondiale, compresa quella svizzera, dato che dispone di molte materie prime essenziali per lo sviluppo tecnologico e l’innovazione. Con questa premessa diviene centrale domandarsi: quanto pesa la nostra dipendenza dalla Cina e quali potrebbero essere le alternative? Come sempre la risposta non può essere univoca e vi sono molte sfaccettature da considerare.

Il nodo delle materie prime

Già in passato abbiamo affrontato più volte il tema delle materie prime e della loro provenienza. La guerra Russia-Ucraina ha sollevato un tema altrimenti poco approfondito, ma che va oltre il dramma di questo conflitto.
In effetti, per l’Occidente vi sono, ad esempio, due materie nodali in ambito tecnologico, il gallio e il germanio. Il primo è essenziale per la produzione di chip per computer, per le fotocamere dei telefoni cellulari, i LED e i cavi in fibra ottica e il 98% utilizzato nel mondo viene dalla Cina. Per il germanio la percentuale è “solo” (si fa per dire) del 60%, ma anche qui parliamo di una materia di fondamentale importanza per la produzione di chip per computer, utilizzati in migliaia di oggetti elettronici di uso quotidiano, automobili, telefoni cellulari e negli aerei. Sia gallio che germanio hanno poi applicazioni importanti anche nell’ambito militare perché sono utilizzati nella produzione di dispositivi di visione notturna o di droni.
È quindi evidente che lo sviluppo tecnologico e fette importanti dell’innovazione occidentale dipendono fortemente dalle decisioni del governo cinese, in particolare quando vengono introdotti controlli sulle esportazioni delle materie prime in generale. Non solo delle due citate in particolare, come già avvenuto, ma anche di altre come il tungsteno (importante per molti beni militari e per l’industria automobilistica e aerospaziale) e la grafite (necessaria per la produzione di batterie per auto elettriche e chip per computer). Sullo sfondo della guerra commerciale in atto con gli Stati Uniti, non è escluso nemmeno un divieto di esportazione, che avrebbe effetti pesantissimi anche per la Svizzera. Nel mentre, il prezzo delle due materie è comunque già salito considerevolmente e l’ottenimento delle stesse in Cina, attraverso un complesso sistema di licenze, è tutt’altro che agevole.

Alternative?

Quali alternative esistono? Modificare rapidamente la dipendenza dalla Cina è di fatto quasi impossibile. Attraverso progetti di cooperazione si cerca di ovviare al problema, tanto che quattordici paesi dell’Unione europea si sono raggruppati in un Partenariato per la sicurezza dei minerali, finalizzato a finanziare progetti minerari per le materie prime critiche. Ma spesso anche solo l’ottenimento di determinate materie è complesso, perché occorre dapprima creare una catena di produzione.
Sempre rimanendo su gallio e germanio, è opportuno rilevare che il gallio si ottiene come sottoprodotto nella produzione di alluminio, mentre il germanio è un sottoprodotto della produzione di zinco. Guarda caso, la Cina è il primo produttore mondiale di alluminio e il secondo di zinco. Per produrre grandi quantità di gallio o germanio alle nostre latitudini occorrerebbe dapprima creare catene di produzioni per l’alluminio e lo zinco e, conoscendo anche i tempi lunghi delle scelte politiche, occorre essere realisti che vere alternative sono assai difficili da realizzare. Senza contare che sarebbero necessari investimenti massicci con scarsi margini di redditività. In passato in Germania si produceva il gallio, ma poi i siti sono stati dismessi perché poco redditizi e riavviarli oggi sarebbe oneroso, soprattutto nell’ottica di un impegno finanziario a lungo termine. Gli Stati Uniti, per contro, stanno cercando alternative in Africa.

Quali conseguenze per la Svizzera e il Ticino? Fra politica e innovazione

Come ripetutamente sottolineato, sarebbe illusorio pensare che la Svizzera e il Ticino non siano toccati da questi aspetti, con scenari che sembrano lontanissimi, ma che toccano il quotidiano di molte nostre aziende. Come produttori, fornitori, sub-fornitori, ecc., comprese quindi le aziende ticinesi che realizzano direttamente prodotti finiti oppure con semi-lavorati o componenti che confluiscono in prodotti finiti di altre aziende svizzere.
Non si tratta di allarmismo, ma di sano realismo, perché è inutile cercare di chiamarsi fuori, ignorando quanto succede al di fuori dei nostri confini. Il margine di manovra elvetico (e anche europeo…) è ridotto, visto che molto dipende dalle difficili dinamiche Stati Uniti-Cina e le elezioni presidenziali americane potranno in questo senso giocare un ruolo importante. Ma proprio perché abbiamo un margine di manovra ridotto è, a maggior ragione, fondamentale mantenere un tessuto economico diversificato e buoni rapporti con l’estero, considerando anche che con la Cina abbiamo già in atto un Accordo di libero scambio che può agevolarci in diversi ambiti. Senza dimenticare la necessità di nuovi accordi con l’Unione Europea.

Trovare alternative alle terre rare resta impresa quasi impossibile, almeno nel breve e medio termine. E qui entra in gioco anche l’ampio mondo dell’innovazione perché quella di produzione senza materie prime è di fatto impossibile.
D’altra parte, l’innovazione permette proprio di trovare vie per utilizzare meglio dette materie prime, ad esempio favorendone il riciclaggio in un sistema circolare, che avrebbe risvolti positivi non solo per la sostenibilità ambientale, ma anche per quella economica, troppo spesso dimenticata nella discussione politica, ma fondamentale per far funzionare il sistema-paese.


Think Tank

Recentemente abbiamo ospitato a Lugano una delegazione del Think Tank romando Manufacture Thinking (manufacturethinking.ch), struttura diretta da Xavier Comtesse e attiva da oltre dieci anni nell’analisi dei trend dell’innovazione.

La Cc-Ti ha concretizzato una collaborazione con questo gruppo che raccoglie accademici, unitamente alle più grandi e importanti aziende presenti in Romandia.
Questa collaborazione viene riproposta in un articolo apparso la scorsa settimana nella rivista economica “Agefi” a firma congiunta del Direttore della Cc-Ti, Luca Albertoni, del Direttore della Camera di commercio e dell’industria di Neuchâtel, Florian Németi e dello stesso Direttore della Manufacture Thinking, Xavier Comtesse.

Medtech e macchine sotto il “giogo” europeo

A causa delle sue normative, l’Unione Europea frena l’innovazione al contrario degli Stati Uniti e le cose stanno peggiorando. Come emerge chiaramente in uno studio pubblicato a metà settembre, i Regolamenti dell’Unione Europea (UE) stanno causando gravi danni all’industria Medtech svizzera, costringendola a certificare tutti i dispositivi medici nell’UE, anziché solo in Svizzera come avveniva in precedenza.
Il Regolamento europeo sui dispositivi medici (MDR) è burocratico, costoso e costituisce proprio per le sue dinamiche un freno all’innovazione stessa. Questo iter non è nuovo, ma si è concretizzato negli ultimi due anni. Per gestirne l’applicazione, l’80% delle aziende ha dovuto assumere ulteriore personale e il 60% delle imprese ha dovuto attingere a risorse umane tolte dai settori della ricerca e dello sviluppo. La metà delle aziende ha ridotto il proprio portafoglio di dispositivi in media del 20%. I costi di sviluppo sono aumentati in media del 28% circa, i costi dei dispositivi del 13% circa e i prezzi dei dispositivi dell’8% circa. Questi aumenti non sono esclusivamente legati al succitato MDR. Anche i maggiori costi delle materie prime, dell’energia, dei trasporti e della logistica sono stati e restano un fattore determinante.

La salvezza arriverà dagli Stati Uniti e dalla FDA?

Con la burocrazia del Regolamento MDR, l’Europa è in ritardo rispetto agli Stati Uniti. Già oggi, oltre il 20% delle aziende svizzere non richiede più l’autorizzazione iniziale all’immissione in commercio dei propri dispositivi più recenti nell’Unione Europea, ma negli Stati Uniti. Oltre il 30% certifica i propri dispositivi in entrambe le regioni.
Poiché il processo richiede molto più tempo in Europa che presso la Food and Drug Administration (FDA) statunitense, le innovazioni possono essere rese disponibili al pubblico svizzero solo dopo anni.

Sarà la volta delle macchine?

Sebbene il settore del Medtech abbia sperimentato questo cambiamento normativo soprattutto negli ultimi due anni, esso era già in cantiere dal 2017. Il settore delle macchine (non inteso come automobili ma come macchinari), di importanza vitale per la Svizzera con oltre 300.000 posti di lavoro, sta seguendo lo stesso processo di adeguamento alle norme europee.
Il 29 giugno di quest’anno è stato pubblicato il nuovo Regolamento europeo, che sostituisce la vecchia Direttiva europea sul tema. Il regolamento entrerà in vigore il 20 gennaio 2027, fatte salve alcune disposizioni transitorie. Questo regolamento creerà ulteriori oneri burocratici e costi per le aziende svizzere, che già soffrono di un tasso di cambio sfavorevole con i Paesi europei.

Cosa fare?

È chiaro che l’industria svizzera è messa sotto pressione da un’UE che continua a regolamentare senza comprendere che la propria salvezza è nell’innovazione, non nel protezionismo. Continuando a perseguire questa direzione, le conseguenze si rivelano gravose anche per la Svizzera, legata a doppio filo al mercato dell’UE e che vanta un’industria grande, solida e innovativa. La soluzione per il nostro Paese sarà senza dubbio quella di accelerare ulteriormente la digitalizzazione delle imprese, in particolare attraverso l’uso di strumenti di intelligenza artificiale, particolarmente efficaci nella riduzione della burocrazia.
È pertanto auspicabile un deciso programma nazionale atto a facilitare la creazione di strumenti di intelligenza artificiale in questo settore.

L’inazione e la mancata presa di coscienza rappresentano una condanna per le attività e per le persone che le fanno vivere.

Pronti a dialogare con un collega robot?

E se fosse il vostro capo?

Lo scorso mese di giugno la Cc-Ti ha organizzato un evento intitolato “AI-volution: il futuro è oggi”, che ha riunito una quarantina di partecipanti, che hanno potuto discutere del tema dell’intelligenza artificiale e delle tendenze nell’ambito delle HR e della gestione aziendale, con un occhio di riguardo ai risvolti a livello legale che si dovranno fronteggiare. Vi proponiamo di seguito alcune considerazioni dei due relatori dell’evento, il Prof. Andrea Martone, Director Research & Studies Von Rundstedt – Svizzera e Roberta Bazzana-Marcoli, Avvocato, Titolare dello studio RBLegal.

Riflessioni “a ruota libera” su come l’AI sta cambiando i modelli di gestione delle HR

Immaginate di lavorare con un collega robot; non è fantascienza, ma la quotidianità di molte imprese, in cui i sistemi di Intelligenza Artificiale (AI) rispondono a domande, gestiscono le richieste di ferie, organizzano riunioni e monitorano le scadenze dei progetti. Se però il robot, non è un collega, ma assume i poteri di capo l’idea sembra ancora più sorprendente, magari anche disturbante.
In realtà già oggi, molti lavoratori operano alle dipendenze di un’intelligenza non umana: pensate agli autisti di un servizio di taxi le cui corse sono regolate da un algoritmo o ai cassieri di un supermercato, che sono chiamati alla postazione di lavoro da un sistema automatizzato di controllo delle code. Un capo robot può analizzare le prestazioni in tempo reale, offrire un feedback immediato e personalizzato e prendere decisioni basate su dati concreti piuttosto che su intuizioni soggettive.
Ciò nonostante, l’assenza di empatia e intelligenza emotiva rappresenta una sfida significativa per l’AI sia in ruoli operativi che in ruoli di leadership. La capacità di comprendere le sfumature delle interazioni umane, di creare fiducia e di gestire conflitti richiede competenze che attualmente solo gli esseri umani possiedono.
Lavorare con un robot richiede un adattamento culturale: l’AI arriva fino ad un certo punto, poi deve intervenire l’uomo; è fondamentale vederla come uno strumento complementare, piuttosto che un sostituto del lavoro umano. La cultura e la comunicazione interna giocano un ruolo cruciale nel dissipare paure e pregiudizi legati all’automazione.

Ora però vorrei proporvi alcune considerazioni sulla gestione delle risorse umane: accettereste che il vostro direttore del personale fosse un robot? Oggi l’AI è in grado di fare ragionamenti logici sempre più complessi, così, anche i processi di gestione del personale possono essere condotti da “soggetti pensanti” di natura non umana. nonostante siano, per loro natura, molto delicati, perché vanno a toccare direttamente la vita dei lavoratori e le loro sensibilità personali (come giudichereste essere licenziati da un robot?). Non penso di esaurire l’argomento nelle poche righe di questo articolo, ma vorrei condividere alcune riflessioni sulle  tendenze prevalenti.

La selezione del personale è una delle aree in cui l’AI sta avendo maggiore impatto. Innanzitutto, può intervenire sul dimensionamento degli organici, attraverso l’analisi predittiva dei fabbisogni: in questo modo, al posto di lunghe trattative con i vari dirigenti, una macchina pensante pianifica con oggettività le assunzioni e i licenziamenti. Una volta stabiliti i fabbisogni di organico, l’AI può analizzare migliaia di curriculum in pochi secondi, identificando i candidati più promettenti in base a competenze, esperienze e parole chiave. I sistemi di intelligenza artificiale possono anche proporre esercitazioni, prove pratiche e test per comprendere le reali capacità del candidato. Il sogno dei programmatori è che in un futuro non lontano saranno in grado di tenere anche i colloqui di selezione, lasciando alla mente umana solo la scelta finale tra un rosa di candidati (a questo punto perfetta, perché frutto di una preselezione ottimizzata). Tutto questo, non solo velocizza il processo di reclutamento, ma elimina anche molti bias umani, favorendo una selezione più equa e meritocratica (anche se ci sono alcune evidenze sui pregiudizi che gli uomini trasferiscono alle macchine quando le programmano).

L’AI può monitorare e valutare le performance dei dipendenti in modo continuo e dettagliato molto più di quanto possa fare qualsiasi dirigente. Attraverso l’analisi dei dati raccolti da vari sistemi aziendali, il capo robot può fornire feedback personalizzati e tempestivi, aiutando i dipendenti a migliorare le proprie performance. Inoltre, può identificare potenziali aree di sviluppo per ciascun lavoratore, suggerendo percorsi di carriera e opportunità di formazione.

Un tema assai delicato, in cui l’AI sta irrompendo è quello del benessere dei dipendenti: monitorando il linguaggio nei messaggi di posta elettronica o nei commenti sui social aziendali e confrontando queste evidenze con le performance aziendali, l’AI è in grado di valutare lo stato di salute dei lavoratori. Questi insight possono essere utilizzati per avviare interventi di sostegno preventivi (con molte precauzioni in tema di privacy).

Da ultimo dobbiamo menzionare i sistemi di formazione e sviluppo che l’AI sta trasformando, grazie soprattutto alla creazione di piattaforme di e-learning che possono adattare i percorsi formativi alle esigenze  specifiche di ciascun dipendente. Analizzando le performance e i progressi individuali, l’AI può suggerire corsi e contenuti specifici, garantendo che ogni dipendente riceva la formazione di cui ha bisogno. Va anche ricordato che l’AI offre esperienze di apprendimento, che possono simulare situazioni reali, migliorando così l’efficacia della formazione in tutti i campi del sapere.

Conclusioni

L’integrazione dell’intelligenza artificiale nella vita delle imprese non è solo una questione di efficienza e produttività, ma rappresenta un cambiamento culturale significativo. Le aziende devono essere pronte a gestire questa transizione, assicurandosi che la tecnologia sia utilizzata in modo etico e che i dipendenti siano adeguatamente supportati in questo nuovo ambiente di lavoro. Dialogare con un collega robot o avere un capo digitale potrebbe presto diventare la norma: essere pronti sarà la chiave per il successo futuro delle organizzazioni. 


Articolo a cura di Prof. Andrea Martone, Director Research & Studies Von Rundstedt – Svizzera



Futuro: attenzione alle sfide giuridiche, non c’è solo la privacy

È ormai risaputo che l’intelligenza artificiale (IA) sta rapidamente rivoluzionando molti settori, offrendo un potenziale straordinario per aumentare l’efficienza e migliorare le prestazioni in vari ambiti, compresa la gestione delle risorse umane. Dall’IA derivano strumenti avanzati per la selezione del personale, la valutazione delle performance e il monitoraggio del benessere dei dipendenti. Ma si va ben oltre: non è più fantascienza immaginare dipendenti che interagiscono con macchine o addirittura ricevono ordini e direttive da un capo robot.
L’IA promette enormi vantaggi in termini di produttività ed efficienza, aprendo interessanti prospettive. Ciononostante, accanto a queste opportunità, emergono rilevanti questioni etiche  e giuridiche che non possono essere ignorate.

In questo scenario, diventa cruciale bilanciare l’entusiasmo per l’innovazione tecnologica con una riflessione attenta sui potenziali rischi e sulle implicazioni legali. Sono ormai ricorrenti i dibattiti sulle problematiche giuridiche legate all’interazione professionale con l’IA, come la tutela dei dati personali, la necessità di trasparenza e, soprattutto, l’importanza di garantire processi equi e non discriminatori. Tuttavia, non va trascurato un altro aspetto che, pur apparendo una questione etica, ha anche rilevanti implicazioni legali: quale impatto ha l’IA sulla salute psicofisica di un collaboratore che si trova a interagire o addirittura a sottostare, alle direttive di una macchina dotata di intelligenza artificiale?
La protezione della salute dei lavoratori, inclusa quella psicofisica, è al centro delle normative sul lavoro in molti Paesi.

Le Normative che richiedono la gestione dei rischi psicosociali, come lo stress e il burnout, sono ormai diffuse in diversi ordinamenti, a testimonianza di una crescente attenzione verso la salute mentale, considerata fondamentale per garantire il benessere complessivo dei lavoratori. Questa crescente attenzione alla salute psicofisica dei lavoratori diventa ancor più indispensabile con l’introduzione di macchine basate sull’intelligenza artificiale. Questi strumenti, pur essendo progettati, come detto, per migliorare l’efficienza e ottimizzare le operazioni, possono in realtà generare nuove fonti di stress e frustrazione, mettendo a rischio il benessere mentale dei dipendenti. L’automazione e il monitoraggio continuo rischiano di ridurre l’autonomia e la serenità dei lavoratori, compromettendo un equilibrio che la normativa aveva faticosamente cercato di costruire.
Nel processo di selezione del personale, ad esempio, sempre più aziende ricorrono all’intelligenza artificiale per valutare performance, analizzare curriculum e persino condurre interviste virtuali. In alcuni casi, l’IA viene impiegata perfino per decidere chi richiamare o chi licenziare.
Il dipendente o il candidato, a quel punto, potrebbe percepire di ritrovarsi in una posizione passiva, sentendosi giudicato da un sistema di cui non conosce a fondo i criteri sui quali si basa, ma che immagina precisi e impeccabili, proprio perché dettati da una macchina, ritenuta priva di errori.
Nonostante l’elevata raffinatezza della tecnologia, questa non è -ancora-in grado di cogliere appieno le sfumature emotive o le difficoltà individuali, generando così potenzialmente un inevitabile senso di frustrazione e stress. Il non “potersi spiegare” potrebbe collocare la persona in una situazione di assoluto disorientamento. Tale situazione, nella quale si viene valutati da un algoritmo, piuttosto che da una persona, può far crescere un senso di inadeguatezza difficile da gestire, con possibili conseguenze sulla salute psichica.

Un esempio particolarmente significativo è quello dei driver che operano per le piattaforme di consegne online. Non sempre l’intelligenza artificiale si limita a ottimizzare la logistica, ma spesso definisce in ogni dettaglio della giornata lavorativa. Alcuni algoritmi monitorano ogni aspetto del loro operato: dal tempo impiegato per completare una consegna, alla velocità di guida, fino a quante pause vengono prese. In casi estremi, telecamere all’interno dei veicoli scrutano persino le espressioni facciali per valutare se il conducente è stanco o distratto.
Questa sorveglianza pervasiva ha dimostrato di generare un costante senso di pressione, addirittura oppressione. I driver lavorano con la consapevolezza di essere osservati da un occhio digitale che non perdona errori, alimentando la paura di sanzioni ogni qualvolta non si allineano ai rigidi parametri imposti dall’algoritmo. Il risultato è uno stato di tensione permanente, un’ansia che non considera le variabili umane, come il traffico, la fatica o gli imprevisti quotidiani. Così, invece di migliorare l’efficienza, è emerso che questa forma di controllo finisce per erodere il benessere mentale dei lavoratori, trasformandoli in semplici ingranaggi di un sistema che dimentica il loro lato umano.
Gli esempi di questo tipo sono numerosi. Dalle fabbriche automatizzate ai magazzini dove l’IA guida le operazioni, fino ai call center in cui il monitoraggio costante è la norma.

Il quadro che emerge è chiaro: l’evoluzione tecnologica è ormai una realtà inarrestabile e senz’altro un’opportunità da cogliere. Tuttavia, ciò che oggi richiede una riflessione urgente, sia etica che giuridica, è come procedere da qui in avanti. Se da un lato non possiamo ignorare i benefici tangibili dell’intelligenza artificiale, dall’altro è fondamentale che questo progresso non avvenga a discapito della salute psichica di chi interagisce con l’IA. La sfida non è fermare la tecnologia, ma piuttosto integrarla in modo che sia tutelata la dignità umana, riconoscendo che dietro ogni algoritmo c’è un individuo, con emozioni, limiti e diritti.

I principi di informazione e trasparenza rappresentano i pilastri fondamentali di questa trasformazione tecnologica Nel processo informativo, il coinvolgimento di tutte le risorse umane dei dipendenti è imprescindibile e la garanzia di trasparenza non deve riguardare solo il funzionamento degli algoritmi, ma anche i criteri su cui si basano le valutazioni, garantendo che tutti i dipendenti possano comprendere il processo decisionale e non percepiscano l’IA come uno strumento impenetrabile. È in tal senso che stanno andando le giurisdizioni europee. Il regolamento europeo sull’intelligenza artificiale concretizza questi principi di informazione e trasparenza, stabilendo obblighi precisi per i datori di lavoro riguardo alla comunicazione chiara e accessibile sui meccanismi di monitoraggio e sui criteri di decisione automatizzata, con l’obiettivo di proteggere i diritti e la salute psicofisica dei lavoratori.
L’innovazione distingue un leader da un seguace.”  – (Steve Jobs)


Articolo a cura di Avv. Roberta Bazzana-Marcoli, Titolare dello studio RBLegal

Campionato svizzero delle competenze imprenditoriali 2024

Il Campionato professionale svizzero dell’imprenditorialità si è tenuto per la seconda volta alla fiera BAM di Berna dal 5 all’8 settembre 2024. Nel corso di quattro giorni, otto squadre provenienti da tutte le regioni della Svizzera hanno affrontato la sfida di sviluppare un’idea imprenditoriale in linea con un obiettivo di sviluppo sostenibile. La manifestazione è sostenuta dalle Camere di commercio e dell’industria svizzere, di cui anche la Cc-Ti fa parte.

Alla competizione hanno partecipato anche due studentesse provenienti dal Ticino, Alessandra Maniezzo e Giada Battaini. Entrambe frequentano il Bachelor of Science in Leisure Management presso la SUPSI.

Durante i 4 giorni gli 8 finalisti hanno dovuto affrontare diverse sfide. L’obiettivo da raggiungere era basato sul rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili. I finalisti sono stati chiamati a sviluppare un’idea imprenditoriale che promuovesse una vita sana per la società nelle città e nelle regioni e che si adattasse all’obiettivo 11 per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU.

Oltre alle sfide principali, che comprendevano la stesura di un budget e la ricerca di mercato, i finalisti hanno dovuto affrontare anche delle sfide intermedie come la produzione di un breve filmato e lo sviluppo di una campagna di marketing per i primi clienti. Nei primi tre giorni, ogni sera, i coach hanno valutato i risultati delle squadre attraverso una serie di criteri in relazione al compito assegnato.

Nel ruolo di coach ed esperto per il Ticino era presente Mattia Bedolla, collaboratore scientifico presso il Centro competenze management e imprenditorialità (CMI) della SUPSI. Insieme agli altri coach ha seguito i finalisti fornendo feedback, rispondendo a domande puntuali e valutando le performance dei partecipanti.

Domenica si è invece tenuto l’atto finale, ovvero la presentazione attraverso un pitch delle idee imprenditoriali sviluppate. La giuria composta da Miriam Gantert (Superloop Innovation), Michael Koch (cofondatore e CEO di HYLL) e Yacine Bouazdia (Università di Scienze Applicate di Berna/Associazione Giovani Imprenditori) ha giudicato le presentazioni.

Domenica pomeriggio i finalisti di EntrepreneurSkills si sono riuniti per la cerimonia di consegna delle medaglie, dove i primi tre classificati hanno ricevuto le congratulazioni della giuria, dei coach e degli ospiti del mondo politico, economico e sociale.

IG EntrepreneurSkills e i suoi partner principali Gebert Rüf Stiftung, Initiative Schweiz e gli altri partner SVC Swiss Venture Club, Camera di Commercio di Soletta e Leadership Lighthouse si congratulano vivamente con il team vincitore composto da Leonardo Soares Sousa, Marlon Liam Mathieu e Alessio Lovatello.La loro idea imprenditoriale innovativa, che promuove l’uso della bicicletta per spostamenti brevi, ha convinto la giuria. Le congratulazioni vanno anche agli altri finalisti, che hanno proposto idee interessanti e che hanno colpito per il loro mindset imprenditoriale. Siamo ansiosi di vedere dove porterà il viaggio di questi giovani imprenditori.

Nell’ambito della sfida, Alessandra Maniezzo e Giada Battaini, hanno sviluppato un’idea di come gli edifici sfitti possano essere utilizzati per la convivenza sostenibile e la coesione sociale nelle regioni. Le studentesse provenienti dal Ticino vorrebbero creare centri comunitari in cui offrire alla popolazione regionale opportunità educative e attività su temi specifici come la biodiversità e l’arte.

IG EntrepreneurSkills

Il gruppo di interesse EntrepreneurSkills è stato fondato nel settembre 2021 da GZS (Gründungsdienstleistungen Kanton Solothurn), SDK (Schweizerische Direktorinnen- und Direktorenkonferenz der Berufsfachschulen), l’Istituto Innovazione e Imprenditorialità Strategica del Dipartimento di Economia dell’Università di Scienze Applicate di Berna (BFH), persone del mondo imprenditoriale e FH SCHWEIZ (organizzazione ombrello per i laureati delle università di scienze applicate). IG EntrepreneurSkills è sostenuto dai partner principali Gebert Rüf Stiftung, Initiative Schweiz e dai partner: SVC Swiss Venture Club, Camera di Commercio di Soletta, Leadership Lighthouse, Microsoft e ON, nonché da altre organizzazioni e fondazioni. IG EntrepreneurSkills è presieduto dal Consigliere nazionale e imprenditore Andri Silberschmidt-Buhofer. L’obiettivo di IG EntrepreneurSkills è promuovere l’imprenditorialità organizzando la competizione EntrepreneurSkills come campionato professionale svizzero (compreso il Campionato SwissSkills). Il Centro Svizzero per il Pensiero e l’Azione Imprenditoriale (szUDH), con sede a Olten, è la forza trainante di myidea Challenge e EntrepreneurSkills. Inoltre, il szUDH è un partner ufficiale svizzero e un attore impegnato nella rete internazionale YouthStart”.

Le Camere di commercio svizzere e altre organizzazioni finanziatrici sostengono l’ulteriore sviluppo di questa iniziativa.

Classifica ufficiale dei Campionati svizzeri delle professioni SwissSkills / Campionato svizzero delle professioni imprenditoriali 2024 

  1. Medaglia d’oro
    Leonardo Soares Sousa – Hergiswil / NW – Uomo d’affari EFZ
    Marlon Liam Mathieu – Adligenswil / LU – Uomo d’affari EFZ
    Alessio Lovatello – Udligenswil / LU – Uomo d’affari EFZ
  1. Medaglia d’argento
    Nico Reist – Aesch / BL – Tecnico elettronico EFZ
    Sven Moser – Bättwil / SO – Tecnico elettronico EFZ
    Marlon Schaad – Therwil / BL – Tecnico elettronico EFZ
  1. Medaglia di bronzo
    Kiran Felice De Simone – Rheinfelden / AG – Uomo d’affari EFZ
    Adrian Valentino Teske – Oberengstringen / ZH – Informatico EFZ

Il brevetto svizzero “rafforzato” dalla nuova Legge Brevetti

Abbiamo il piacere di segnalare che il Parlamento ha di recente approvato una revisione della Legge Federale sui Brevetti d’Invenzione che, in previsione, entrerà in vigore nella seconda metà del 2026

© Istituto Federale della Proprietà Intellettuale di Berna. Immagine: IPI

Vi illustriamo in sintesi le modifiche principali e il loro impatto per le domande di brevetto e brevetti future/i.

Prassi corrente di svolgimento del rilascio

Il rilascio di un brevetto d’invenzione secondo l’attuale Legge prevede il deposito di una domanda di brevetto presso l‘Istituto Federale della Proprietà Intellettuale (IPI), un esame di aspetti quali la chiarezza e la sufficienza di descrizione, e una verifica che la domanda non riguardi una delle esclusioni assolute previste. Tali esclusioni evitano che siano concessi brevetti sul corpo umano o sulle sequenze (parziali) di un gene in quanto tali, oppure su invenzioni la cui utilizzazione sarebbe offensiva o contraria all’ordine pubblico o al buon costume. A superamento di tutte le obiezioni sollevate dall’IPI, la domanda è concessa.
Non vengono, invece, esaminate novità e attività inventiva (originalità) di una domanda di brevetto, poiché l’esame di tali requisiti ricade al di fuori dello spettro di indagine dell’IPI.
Ciò evidenzia un limite dell’attuale rilascio: una domanda di brevetto è concessa se è conforme ai parametri esaminati dall’IPI, anche nei casi in cui l’ambito di tutela è, a mero titolo di esempio, privo di novità alla luce di documenti già pubblici prima della data di deposito o di priorità della domanda.

Un depositante può quindi optare per una domanda di brevetto europeo per ottenere un brevetto svizzero vagliato anche nei requisiti sostanziali – e quindi dotato di presunzione di validità più forte – grazie al fatto che i brevetti europei sono validi per la Svizzera.
Malgrado ciò, tale strategia di depositare una domanda di brevetto europeo per ottenere un brevetto europeo valido in Svizzera presenta maggiori costi e una procedura di rilascio in media più lunga rispetto a un brevetto svizzero ottenuto, con esame solo parziale, attraverso il percorso di rilascio nazionale.

Le principali modifiche introdotte

A seguito della revisione approvata della Legge Federale sui Brevetti d’Invenzione, l‘IPI eseguirà una ricerca sullo stato della tecnica dell‘invenzione per ogni domanda di brevetto, in modo da segnalare documenti anteriori (vale a dire resi pubblici prima della data di deposito o di priorità della domanda di brevetto) ritenuti rilevanti per un apprezzamento di novità e/o attività inventiva delle rivendicazioni depositate.
Tale ricerca sarà resa pubblica per consentire a chiunque di verificare la validità del brevetto.
La disponibilità della ricerca creerà maggiore trasparenza e certezza giuridica sia per i depositanti, sia per terze parti.
Entrando maggiormente nello specifico, i depositanti potranno stabilire se vorranno ottenere un brevetto svizzero parzialmente esaminato (come con l’attuale procedura, senza obblighi di apportare modifiche all’ambito di tutela) ma comunque accompagnato dalla ricerca eseguita dall’IPI, oppure se richiedere un esame completo della domanda. Nell’esame completo i depositanti potranno dialogare con un Esaminatore dell’IPI per concordare modifiche alle rivendicazioni e/o alla descrizione alla luce di eventuali criticità emerse dalla ricerca.
Da notare, ciononostante, che l’esame completo di una domanda di brevetto potrà anche essere avviato su istanza di parti terze (ad esempio, di concorrenti), ma solo dopo che il depositante avrà fatto la richiesta d’esame della propria domanda. Tale meccanismo eviterà che un depositante sia costretto ad affrontare l’esame completo di una propria domanda alla quale non è più interessato.
L’opposizione amministrativa all’IPI a valle della concessione del brevetto svizzero non sarà più disponibile dato che, in sostanza, non è mai stata utilizzata dalla sua introduzione. In sostituzione all’opposizione amministrativa si aprirà la facoltà di depositare, entro 4 mesi dalla data di concessione del brevetto, un appello al Tribunale Federale Brevetti per contestare una decisione dell’IPI.
Nell’ambito della procedura di appello un terzo dovrà essere legittimato, dovendo motivare un interesse legale ad agire, per invocare carenze di novità e/o di attività inventiva alla luce di uno stato della tecnica a lui noto e/o dei documenti emersi dalla ricerca dell’IPI. Tuttavia qualsiasi terzo (pur non legittimato) potrà invocare che l’invenzione non è brevettabile in virtù delle suddette esclusioni assolute.
Da notare che l’appello depositato dal terzo non avrà effetti sospensivi sulla concessione, principalmente in modo da evitare che la procedura possa essere abusata per impedire al titolare di azionare il brevetto contro un presunto contraffattore.
Un’ulteriore novità riguarderà il regime linguistico dell’IPI, aprendo la possibilità di utilizzare la lingua inglese nella procedura di concessione, e non più le sole lingue ufficiali svizzere. Le domande saranno quindi depositabili in lingua inglese senza dover far seguire traduzioni in italiano, francese o tedesco. Tale misura consentirà un risparmio di costi, e una riduzione di possibili errori di traduzione.

Conclusioni

Le revisioni mirano a rendere il brevetto svizzero attrattivo soprattutto per PMI e inventori individuali, e ad armonizzarlo rispetto agli standard internazionali.


Articolo di Enrico Eterno, European Patent, Attorney ed European Patent Litigator, M. Zardi & Co. SA

Sanità del futuro: tra innovazione tecnologica e diritti individuali

L’orizzonte della tecnologia sanitaria si allarga, cancellando i confini tra fisico e digitale e inaugurando un’era in cui il nostro corpo diventa un’interfaccia vivente.

Immagine generata da Open AI (DALL.E)

Dispositivi indossabili e impianti interni ci circondano, monitorando movimenti e battiti cardiaci con precisione, anticipando un futuro dove le nostre funzioni biologiche interagiscono direttamente con il mondo digitale. Questo non è solo in concetto di fantascienza ma l’alba dell’Internet of Bodies (IoB), una rivoluzione tecnologica che si annuncia tanto impattante quanto la scoperta del DNA.

In questo contesto, emergono innovazioni rivoluzionarie come Neuralink, che promette di amplificare le nostre capacità cognitive mediante un’interfaccia diretta tra cervello e computer. Quest’epoca di confini sempre più sfumati tra biologia e tecnologia porta sfide inedite per la nostra privacy e identità personale, specialmente nel settore sanitario dove l’IA sta già trasformando la precisione diagnostica e ottimizzando i trattamenti. L’IA, unita alle potenzialità dell’IoB di fornire monitoraggi in tempo reale e terapie personalizzate attraverso l’analisi di dati biologici, getta le fondamenta per un approccio alla cura sempre più preciso e personalizzato. Tuttavia, è essenziale riconoscere che, al di là dell’automazione e della precisione dei dati, il giudizio finale spetta sempre all’esperto clinico, il cui ruolo rimane centrale e insostituibile nel processo decisionale clinico.

Questo nuovo paradigma di salute digitale solleva interrogativi critici su privacy, etica, sicurezza e proprietà dei dati personali, richiedendo una riflessione profonda su come navigare le acque di questa rivoluzione tecnologica senza compromettere i diritti fondamentali dell’individuo. Queste sfide si fanno ancor più pressanti di fronte all’emergere di tecnologie pionieristiche quali Neuralink, che quest’anno ha inaugurato una nuova era con l’impianto del primo dispositivo BCI (Brain Computer Interface) su un paziente, spostando i confini del possibile verso ambiti un tempo considerati pura fantascienza. In questo scenario emergente che si spinge alle frontiere dell’etica, si comincia a delineare una distinzione tra gli esseri umani “1.0”, ovvero quelli non modificati o potenziati tecnologicamente, e gli “umani 2.0”, individui che incorporano tecnologie avanzate per estendere le proprie capacità fisiche e cognitive.

Questa dicotomia solleva questioni etiche fondamentali, interrogandoci su cosa significhi veramente essere umani in un’epoca di profonda trasformazione digitale.

La “Cognizione Collettiva”, un concetto che descrive una nuova forma di intelligenza e di connessione tra individui mediata dalla tecnologia, ad esempio, sta diventando una realtà sempre più tangibile, richiedendo una riflessione critica sul nostro futuro collettivo. Nell’affrontare questa accelerazione dell’innovazione tecnologica, le normative come la LPD, il GDPR e l’EU AI Act sono state create e adattate per cercare un equilibrio tra il progresso tecnologico e la tutela dei diritti individuali. Introducendo standard elevati per la gestione dei dati personali, in particolare quelli sensibili come i dati sanitari, queste leggi riflettono il tentativo di armonizzare l’avanzamento tecnologico con i principi etici e sociali, enfatizzando
l’importanza di adottare approcci come il “privacy by design” e il “privacy by default”.

Questi principi non rappresentano solo una risposta alle complessità etiche emergenti, ma diventano parte integrante dell’innovazione responsabile, puntando a un rispetto completo della persona. All’interno del settore sanitario, questa evoluzione normativa si traduce in un cambiamento importante nell’approccio al trattamento dei dati sensibili, stimolando un’avanzata collaborazione tra pazienti, professionisti sanitari e legislatori. La pratica medica si adatta non solo agli obblighi normativi ma rafforza la fiducia, elevando strumenti come il consenso informato oltre la mera burocrazia per migliorare trasparenza e protezione dei diritti nell’era digitale. In questo contesto, l’Internet of Bodies, l’intelligenza artificiale e le interfacce cervello-computer (BCI) catalizzano la transizione verso cure mediche altamente personalizzate, richiedendo norme
che superino la mera conformità burocratica per favorire un’innovazione etica e centrata sull’individuo.

Così, l’avanzamento legislativo, guidato dalle sfide poste dalle nuove tecnologie
sanitarie, emerge non solo come risposta alle necessità di conformità ma come componente fondamentale di un futuro dove ogni innovazione tecnologica è al servizio del benessere collettivo, preservando i valori fondamentali di rispetto e dignità personale.


Articolo di Baroum Mrad MLaw, CAS-DPO HSG, Data Protection Officer, EOC

Intelligenza artificiale e mondo del lavoro: una sfida per le imprese

Il termine “Intelligenza Artificiale (IA)” è oggi sulla bocca di tutti

Pur essendo oltre 50 anni che se ne parla, sono stati i più recenti progressi nella potenza dei computer, la disponibilità e la capacità di analizzare enormi quantità di dati e lo sviluppo di nuovi e sempre più complessi algoritmi, ad aver fatto fare balzi in avanti giganteschi all’IA.

Balzi avanti talmente dirompenti che oggi i Governi di tutto il mondo discutono di come “gestire” questa tecnologia e, soprattutto, come stabilire delle norme che ne regolino l’applicazione ed il funzionamento garantendo i diritti fondamentali dell’individuo i cui dati sono coinvolti nei processi.

Con IA si definisce “l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività”. In altre parole, l’IA è una tecnologia che simula i processi dell’intelligenza umana attraverso la creazione e l’applicazione di algoritmi (sequenza finita di operazioni da svolgere per risolvere un problema).

L’applicazione dell’IA nel mondo del lavoro non è fantascienza ma ormai realtà. Il mondo digitale ha visto emergere nuove professioni inesistenti fino a pochi anni fa ma anche l’incremento di lavoratori autonomi che offrono servizi tramite piattaforme o applicazioni mobili che utilizzano l’IA basandosi su algoritmi predefiniti. Far queste citiamo Uber, Deliveroo o Airnbnb.

L’IA non tocca solo la “forma” del lavoro ma ne influenza e stravolge anche la sostanza, andando a condizionarne le strutture di funzionamento ed i processi più profondi.
Ormai da tempo l’IA è parte integrante dei programmi di recruiting utilizzati dalle aziende per la selezione del personale. Significa che sempre più aziende delegano alle macchine la gestione dei colloqui di selezione e di conseguenza la scelta dei collaboratori. Tali sistemi riposano su un sistema di presa di “decisione automatizzata” e sono altresì utilizzati nella sorveglianza e nella valutazione del personale. Questo determina il fatto che l’IA non interviene solo nelle procedure di selezione ma anche nella valutazione dei collaboratori e, in ultima analisi, può determinare eventuali collaboratori non più idonei a svolgere il lavoro attribuitogli.

Un altro esempio. Oggi l’IA è in grado di redigere agilmente e in maniera autonomia testi anche complessi, la piattaforma più famosa in questo ambito è senz’altro Chat GPT (Generative Pretrained Transformer). Applicando questa capacità alla casella mail di una persona, l’IA è in grado, in brevissimo tempo, di sostituirla. L’IA è in grado di leggere e comprendere le mail in entrata e in uscita. Può rispondere simulando lo stile di chi scrive, il suo modo di ragionare, il suo atteggiamento e addirittura la sua fantasia. L’interlocutore, artificiale o umano o che sia, non si accorgerà della sostituzione.

Questa tecnologia specifica, sviluppata ad esempio da Microsoft, è già in uso in numerose aziende, soprattutto americane, dove l’IA si occupa della gestione delle mail e di tutta una serie di processi aziendali un tempo appannaggio degli uomini e oggi sempre più delegati ai computer.

Se l’IA costituisce un’importante opportunità di sviluppo, non mancano i rischi ad essa connessi. In particolare, l’utilizzo improprio dell’IA potrebbe comportare rischi anche gravi. L’Unione Europea parla espressamente del rischio di manipolare il comportamento delle persone, violandone, di fatto, i diritti fondamentali.

Proprio allo scopo di definire e contenere i potenziali rischi dell’IA, la Commissione Europea ha stabilito delle linee guida e dei limiti chiari: i sistemi di IA devono essere “sicuri, trasparenti, tracciabili, non discriminatori e rispettosi dell’ambiente”. Inoltre, è esplicito che la supervisione deve essere affidata a delle persone e non a degli automi. Dunque, non può essere l’IA a controllare l’IA.
Nelle scorse settimane, il Consiglio e il Parlamento europeo sono riusciti a trovare un’intesa su quello che sarà il contenuto del primo atto normativo che regolamenterà l’utilizzo dell’IA (Regolamento europeo sull’IA), il quale pone le basi per un utilizzo dell’IA sicuro e rispettoso dei diritti umani.

La Svizzera, come centro scientifico dello sviluppo dell’IA, seppur con un approccio moderato, vuole contribuire all’elaborazione di questo quadro normativo internazionale che consenta di sfruttare le opportunità offerte dall’IA e di affrontare in modo mirato le sfide che essa pone.

In attesa di norme che definiscano in modo più concreto l’utilizzo dell’IA, ci si chiede in che modo sia attualmente regolamentato l’utilizzo dell’IA all’interno dei rapporti professionali e in che misura i diritti fondamentali dei dipendenti siano tutelati.

Il punto centrale che permette da subito di definire delle regole è riconoscere che le tecnologie che si basano sull’IA utilizzano i dati personali degli individui e dunque rientrano indubbiamente nell’ambito del “trattamento dei dati personali”.
Il trattamento di dati è regolamentato in Svizzera dalla Legge sulla Protezione dei dati (la cui modifica sostanziale è entrata in vigore il 1° settembre 2023) e, per quanto riguarda il rapporto di lavoro, dall’art. 328b del Codice delle Obbligazioni che circoscrive la cerchia di dati che il datore di lavoro può utilizzare nell’ambito del rapporto di lavoro. Questa norma prevede infatti che il datore di lavoro è legittimato ad utilizzare (trattare) le informazioni (dati) dei dipendenti solo se si riferiscono all’idoneità lavorativa o se necessari all’esecuzione del contratto.
Un utilizzo, oltre questo scopo sarebbe illecito e comporterebbe una violazione della personalità del dipendente (diritto inalienabile e fondamentale dello stesso).
Questi principi sono validi anche nell’ambito dell’utilizzo dell’IA e, anzi, ne ampliano il campo d’applicazione.

Nel concreto, come per tutti i processi, il datore di lavoro è autorizzato ad utilizzare le tecnologie basate sull’IA solo ed esclusivamente se lo scopo ricercato è quello indicato nella norma citata.
È primordiale che nell’utilizzo delle tecnologie “permesse” il datore di lavoro salvaguardi la personalità del dipendente, applicando altresì in modo rigoroso i principi previsti dalla LPD. In particolare: liceità, informazione, consenso esplicito (dove necessario), buona fede, esattezza, finalità, trasparenza, proporzionalità e sicurezza.
Per quanto concerne il caso concreto delle “decisioni individuali automatizzate” (quali i casi di selezione di dipendenti per l’assunzione, la promozione o il licenziamento nel rapporto di lavoro), l’art. 21 LPD accorda a colui i cui dati sono oggetto di trattamento (in questo caso al dipendente) il diritto di ottenere un riesame della decisione da parte di una persona fisica (questa prerogativa può essere esclusa in caso di consenso preventivo e completo alla presa di decisione automatizzata).
È opportuno osservare che vi sono altre norme (sovente trascurate) che devono essere considerate nell’applicazione dell’IA al rapporto di lavoro, in particolare la Legge sul lavoro e la Legge sulla Partecipazione. Per ogni singolo caso, vi è una declinazione specifica dei principi citati che va discussa e delineata, ma vi è sempre un denominatore comune: un obbligo di informazione chiaro e completo.

Per approfondire il tema, circoscrivere e definire le norme applicabili a situazioni concrete durante il rapporto di lavoro, rinviamo al corso: “L’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel mondo del lavoro: quali obblighi per il datore di lavoro?” che si terrà il prossimo 6 maggio 2024 online.

Dettagli e iscrizioni:
https://www.cc-ti.ch/calendario/lutilizzo-dellintelligenza-artificiale-nel-mondo-del-lavoro-quali-obblighi-per-il-datore-di-lavoro-online/


Articolo a cura di Avv. Roberta Bazzana-Marcoli, titolare RB Legal

Il futuro dell’approvvigionamento energetico, fra flessibilità e sicurezza

L’obiettivo della Confederazione in ambito climatico è chiaro: la neutralità carbonica, ossia il saldo zero tra emissioni e assorbimento di gas serra, entro il 2050. Per raggiungerlo si prevede di trasformare radicalmente il sistema di approvvigionamento energetico del Paese, chiamando in causa tutti gli attori coinvolti: produttori, distributori e consumatori.

La chiave di questo piano risiede nella decarbonizzazione, ovvero la sostituzione delle fonti di energia di origine fossile, che emettono CO2 nell’atmosfera, con fonti rinnovabili a emissioni zero. Benzina, olio combustibile e gas, che oggi assicurano circa il 60% del consumo energetico svizzero, saranno sostituiti da energia proveniente da fonti rinnovabili, prevalentemente elettrica. Le termopompe sostituiranno gran parte dei sistemi di riscaldamento ad olio combustibile e i veicoli elettrici prenderanno il posto di quelli a combustione interna.

Decarbonizzare significa quindi elettrificare, che significa a sua volta accrescere il fabbisogno di energia elettrica. La maggiore efficienza dei motori e dei moderni sistemi di riscaldamento elettrici rispetto a quelli a combustione porterà ad un calo dei consumi globali di energia, ma la produzione di elettricità non potrà che aumentare in maniera importante e dovrà essere accompagnata, per quanto possibile, da misure di efficienza che ne ottimizzino l’impiego.

I piani elaborati dalla Confederazione prevedono che l’incremento del fabbisogno dielettricità venga coperto in primo luogo da una massiccia crescita della produzione fotovoltaica. Gli scenari per il 2050 prospettano un sistema di approvvigionamento basato su due pilastri, idroelettrico e fotovoltaico, dove il primo sarà chiamato a compensare l’assenza di produzione del secondo durante le ore senza sole (circa 6’750 delle 8’760 ore annue), in particolar modo nei mesi invernali. Lo sviluppo del solare dovrà quindi essere affiancato da un incremento della produzione idroelettrica invernale, ottenibile attraverso l’aumento della capacità dei bacini di accumulazione e la creazione di nuovi impianti di pompaggio-turbinaggio.

Gli obiettivi di produzione fissati dalla Confederazione sono molto ambiziosi e per il loro raggiungimento le Camere federali hanno recentemente approvato lo stanziamento di fondi miliardari. I primi importanti progetti, tra i quali spicca in Ticino l’innalzamento della diga del Sambuco, stanno vedendo la luce, ma il ritmo degli investimenti nel prossimo decennio dovrà crescere in maniera esponenziale, e non solo a parole.

Il tempo ci dirà se quanto previsto dalla Confederazione permetterà di centrare gli obiettivi climatici, riuscendo contemporaneamente a soddisfare il fabbisogno di energia del Paese in modo sicuro e continuativo. I piani per la transizione energetica sono diffusi in tutto il continente europeo, non solo in Svizzera, e se immaginiamo come influenzeranno le dinamiche degli scambi di energia elettrica tra i singoli Stati, le incognite si moltiplicano.

Ciò che sappiamo già oggi è che non sarà soltanto il fronte della produzione a dover agire. L’aumento della capacità di stoccaggio dei bacini permetterà di spostare una parte della produzione idroelettrica dall’estate all’inverno, compensando il naturale calo di produttività del fotovoltaico in questa stagione, ma le continue e crescenti oscillazioni delle nuove produzioni rinnovabili all’interno delle giornate e delle settimane richiederanno l’adozione di sistemi supplementari per la gestione dei carichi. I consumatori finali, imprese ed economie domestiche, diventeranno sempre più parte attiva del sistema energetico e saranno incentivati a investire in impianti di produzione, di accumulazione e di gestione della flessibilità.

Una quota crescente dei loro consumi sarà coperta dalla produzione di impianti fotovoltaici di proprietà, i veicoli elettrici potranno essere impiegati come sistemi di regolazione, capaci non solo di accumulare ma anche di cedere energia, e l’uso di impianti domestici – quali ad esempio le termopompe – potrà essere modulato in funzione dei carichi di rete. Questa evoluzione permetterà di flessibilizzare il consumo e la produzione dell’energia elettrica, ma richiederà importanti investimenti supplementari da parte delle aziende del settore per adeguare le reti di distribuzione. Parte della produzione di energia sarà ripartita tra migliaia di piccoli impianti e i punti di allacciamento alla rete dovranno gestire un’enormità di microflussi in entrata e in uscita.

Per regolare una tale complessità di transiti e la mole dei dati ad essi collegati, la rete dovrà essere potenziata in tutte le sue componenti. Un recente studio pubblicato dall’Ufficio federale dell’energia stima che l’adeguamento della rete di distribuzione richiederà investimenti superiori ai 40 miliardi di franchi entro il 2050.

Investimenti che, sommati a quelli paventati per lo sviluppo delle nuove produzioni rinnovabili e le ulteriori misure per la neutralità carbonica, faranno lievitare il costo globale della svolta energetica Svizzera ad oltre 100 miliardi di franchi.

Un ciclo di investimenti come non se ne vedevano dai tempi della realizzazione dei grandi impianti di produzione che hanno assicurato l’approvvigionamento del paese nel secondo dopoguerra, quasi 80 anni fa, i cui costi ricadranno su tutti gli attori coinvolti: dalle aziende del settore energetico ai consumatori, passando per il mondo delle imprese.

Ciò che verrà realizzato da qui al 2050 dovrebbe (ed uso il condizionale) garantire il fabbisogno di energia del Paese per i prossimi 80 anni, ma le incognite, a fianco delle opportunità, non mancano. Personalmente non posso non rimarcare come la sicurezza dell’approvvigionamento verrà esposta a grandi rischi e quanto i costi per il consumatore finale siano destinati ad aumentare.


Articolo a cura di Giovanni Leonardi, Presidente del CdA AET

Un sì per il clima: quali le conseguenze?

Lo scorso 18 giugno 2023 il popolo svizzero ha detto sì alla nuova legge sul clima e sull’innovazione. È stato grosso modo un quarto degli aventi diritto di voto a pronunciarsi a favore della nuova legge; infatti, come spesso succede, solo il 40% della popolazione si è recato alle urne e di questo il 60% ha detto sì.

La democrazia svizzera funziona così, quindi la maggioranza non votante della popolazione deve accettare quanto deciso da una minoranza di votanti.

Come ben sappiamo la nuova legge sul clima e l’innovazione, controprogetto moderato all’iniziativa sui ghiacciai, non pone di principio divieti o nuove tasse, ma incentiva iniziative per una transizione ecologica ad emissione zero di CO2 entro il 2050. Per cercare di raggiungere questo ambizioso traguardo è indispensabile che tutti i settori che concorrono alle emissioni di gas a effetto serra facciano la loro parte: i trasporti motorizzati in primo luogo.

Nel corso degli ultimi decenni, grazie alle varie norme di legge introdotte a livello mondiale e allo sviluppo tecnologico dei motori a combustione interna, le emissioni di gas inquinanti prodotte dal traffico stradale, aereo e marittimo (quest’ultimo in maniera meno marcata rispetto agli altri due) sono drasticamente diminuite. Purtroppo, questa diminuzione è stata in parte attenuata a causa dell’aumento del traffico.

Tornando ora agli obiettivi imposti dalla nuova legge sul clima cosa dobbiamo aspettarci per quanto riguarda la mobilità individuale e per il trasporto merci su strada? La domanda è lecita e la risposta, tenendo conto delle tecnologie attualmente disponibili è la seguente: la mobilità elettrica.

Sia chiaro, la mobilità elettrica non è l’unica tecnologia che permetterà raggiungere l’obiettivo, o almeno di avvicinarsi, di zero emissioni di CO2, ma è quella che sarà dominante nella mobilità individuale privata. Altre tecnologie sono in fase di sviluppo e comprendono l’idrogeno, i carburanti sintetici e, almeno in parte, i bio-combustibili. Produrre oggi e nei prossimi anni questi carburanti alternativi richiede investimenti importanti e strutture adeguate che al momento non sono ancora disponibili se non a livello sperimentale. Nel futuro a breve e medio termine, visto quindi la scarsa disponibilità, questi carburanti verranno utilizzati quasi esclusivamente dai trasporti aerei o dal trasporto merci su strada a lunga percorrenza.

Nei prossimi anni gli automobilisti svizzeri, ma anche quelli europei visto che l’Europa ha decretato lo stop alla commercializzazione di veicoli a benzina e diesel entro il 2035, dovranno accettare di spostarsi con automobili a propulsione elettrica e questo malgrado un’indagine appena svolta abbia evidenziato come il 70% degli intervistati non abbia intenzione di acquistare un’auto elettrica. Questo dato sembrerebbe collimare con il risultato della votazione del 18 giugno.

La tecnologia di propulsione elettrica è senza ombra di dubbio un’ottima soluzione per ridurre le emissioni di CO2 a livello locale visto che un motore elettrico non ne produce affatto e inoltre offre anche molti vantaggi a livello di consumo energetico essendo di principio più efficiente. Tuttavia, una delle principali sfide che dovrà essere affrontata sarà la disponibilità di energia elettrica per la ricarica delle batterie. Già oggi assistiamo ad una penuria di elettricità che, in alcune occasioni, ha addirittura minacciato di tradursi in blackout parziali o totali con conseguenze catastrofiche per tutti. La risposta è probabilmente nella produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili come fotovoltaico, eolico e idroelettrico. Questa sfida spetta al mondo politico.

Ammettendo di trovare le soluzioni adeguate all’approvvigionamento sufficiente di energia elettrica, rimane ancora da risolvere il problema della distribuzione della rete di colonnine di ricarica indispensabili per alimentare l’intero parco veicoli in circolazione. La sfida non è meno titanica della precedente. Anzitutto la rete di distribuzione dell’elettricità potrebbe non sopportare le importanti potenze di carica richieste per le ricariche rapide delle batterie e nemmeno per assorbire i picchi di consumo che si genereranno quando un numero sempre maggiore di automobilisti si collegheranno alla colonnina per fare il pieno della propria auto. Sicuramente andranno trovate delle soluzioni.

L’ultimo anello del sistema di ricarica delle batterie per automobili è la colonnina di ricarica domestica o pubblica. Ancora una volta, se vogliamo raggiungere gli obiettivi imposti dalla legge sul clima, non abbiamo tempo da perdere. Oggi il numero di stazioni di ricarica è ancora abbondantemente al disotto delle necessità e le difficoltà di installazione, in particolare nei condomini, sono ancora importanti. La Confederazione, in collaborazione con diversi enti del settore, ha redatto una roadmap che prevede l’installazione di due milioni di colonnine di ricarica private entro il 2035. Anche se questo obiettivo sarà raggiunto, rimarrà comunque oltre un milione di automobilisti che non potrà ricaricare la propria auto elettrica a domicilio. Per questi ultimi sarà indispensabile affidarsi alle stazioni di ricarica pubbliche il cui sviluppo dipenderà anche dall’imprenditoria privata: se questo diventerà un business redditizio gli investimenti necessari non mancheranno.

Le incognite della transizione ecologica sono molte e le soluzioni per nulla scontate. Ognuno di noi dovrà fare la sua parte adattando a volte anche il proprio modo di affrontare la vita quotidiana.


Testo a cura di Marco Doninelli, Responsabile mobilità Cc-Ti