Rinviata di un anno l’applicazione del Regolamento UE sulla deforestazione

A metà dicembre 2024, il Parlamento e il Consiglio dell’Unione europea hanno approvato formalmente il rinvio al 30 dicembre 2025 dell’applicabilità del Regolamento sulla deforestazione e il degrado ambientale, che vieta l’importazione di determinate materie prime e prodotti lavorati se la loro produzione è legata alla deforestazione.

Il Regolamento (UE) 2024/3234 del 19 dicembre 2024, approvato il 17 e il 18 dicembre 2024 rispettivamente dal Parlamento e dal Consiglio dell’UE, che modifica il Regolamento sulla deforestazione per quanto riguarda le disposizioni relative alla data di applicazione. È  stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’UE il 23 dicembre 2024 ed è entrato in vigore tre giorni più tardi, concedendo alle aziende un anno di tempo per prepararsi al rispetto delle nuove regole. Le nuove tempistiche di applicazione sono le seguenti:

  • 30 dicembre 2025 per le grandi e medie imprese
  • 30 giugno 2026 per le piccole e micro imprese.

Il regolamento 2023/1115 in breve

Come già anticipato su questo canale (cfr. articolo Prodotti a “deforestazione zero” nell’UE – Cc-Ti del 15 febbraio 2024), il regolamento (UE) 2023/115 sulla deforestazione (EU Deforestation Regulation, EUDR) mira a regolamentare l’immissione e la messa a disposizione sul mercato comunitario, nonché l’esportazione dall’UE, di sette materie prime – bovini, cacao, caffè, palma da olio, gomma, soia e legno – e dei prodotti che le contengono o che sono stati fabbricati a partire da esse. L’obiettivo è  evitare il consumo nell’UE di beni che abbiano contribuito alla deforestazione e al degrado forestale.

In sostanza, a partire dal 30 dicembre 2025, l’UE impone alle aziende di documentare in modo completo l’origine delle materie e dei prodotti elencati tramite voce di tariffa doganale nell’allegato I (pagg. 38-42) dell’EUDR. Tali prodotti sono altresì assoggettati ad undivieto  di commercializzazione e di esportazione sul e dal mercato dell’UE a meno che non soddisfino le seguenti tre condizioni:

  • essere a deforestazione zero
  • essere stati prodotti conformemente alla legislazione applicabile nel Paese di produzione, e
  • essere accompagnati da una dichiarazione di dovuta diligenza (Due Diligence Statement, DDS) supportata da informazioni verificabili, come tracciabilità, monitoraggio continuo, ecc. che dimostrino che i prodotti non hanno causato né deforestazione né degrado forestale dopo il 31 dicembre 2020.

Contrariamene ad altre regolamentazioni, il regolamento 2023/115 non si applica direttamente agli operatori extra-UE: sarà infatti il primo operatore stabilito nell’UE a dover farsi carico del rispetto degli obblighi stabiliti dalla norma. Gli operatori extra-UE dovranno tuttavia essere pronti a fornire le informazioni e i documenti necessari al proprio partner europeo (per importazioni nell’UE) o assicurarsi di ottenerli da quest’ultimo (per esportazioni dall’UE). Essi dovranno anche verificare che sia stata eseguita la dovuta diligenza a monte della catena di fornitura (tramite dichiarazione di dovuta diligenza o Due Diligence Statement, DDS).

Le informazioni da fornire riguardano i prodotti, i produttori e le zone di produzione (attraverso dati di geolocalizzazione degli appezzamenti), nonché la catena di fornitura (mostrando di tutti i passaggi dei prodotti tra operatori economici). Per quanto riguarda invece la DDS, il numero di riferimento dovrà figurare nella dichiarazione doganale di importazione o esportazione per consentire i controlli in dogana. In tal senso, la Direzione generale fiscalità ed unione doganale (DG TAXUD) ha pubblicato già a settembre 2024, i codici TARIC relativi ai requisiti stabiliti dall’EUDR.

La Commissione europea metterà in atto un sistema volto a classificare i Paesi in base al loro rischio di deforestazione (basso, normale, alto). Gli obblighi di diligenza possono essere semplificati se le aziende si riforniscono di materie prime e prodotti da Paesi a basso rischio di deforestazione: esse possono infatti rinunciare alla valutazione se rispettano l’obbligo di fornire, su richiesta dell’autorità competente, documentazione a dimostrazione che il rischio di deforestazione è effettivamente trascurabile.

Per ulteriori ragguagli:
FAQ della Commissione europea (PDF in inglese)
Documento di orientamento della Commissione europea (PDF in italiano)

Prodotti ottenuti con il lavoro forzato: divieto UE dal 14 dicembre 2027

Il Regolamento UE sul lavoro forzato è entrato in vigore il 13 dicembre 2024. Dal 14 dicembre 2027 sarà vietato immettere sul mercato UE e mettere a disposizione beni realizzati attraverso il lavoro forzato.

Il Regolamento (UE) 2024/3015 che vieta i prodotti ottenuti con il lavoro forzato sul mercato dell’Unione (Regolamento sul lavoro forzato, FLR), allinea la definizione di “lavoro forzato” (o “lavoro obbligatorio”) alla Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n. 29 (Convenzione sul lavoro forzato). Questo termine indica ogni lavoro o servizio “estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per la quale detta persona non si sia offerta spontaneamente”, o usato come misura di coercizione, sanzione, disciplina o discriminazione.

Il regolamento si applica a tutti i prodotti venduti nell’Unione europea o da essa esportati, indipendentemente dalla loro origine o dal settore e senza soglie di valore: a partire dal 14 dicembre 2027, i prodotti e i loro componenti saranno banditi dal mercato se è stato fatto ricorso al lavoro forzato in qualsiasi fase della loro produzione, fabbricazione, raccolta o estrazione, in tutto o in parte, compreso le lavorazioni o trasformazioni connesse a tali prodotti.

Il regolamento non introduce nuovi obblighi di diligenza in materia di diritti umani per le imprese, ma rafforza la legislazione degli Stati membri sul lavoro forzato e i quadri normativi dell’UE, tra cui la direttiva UE sulla dovuta diligenza in materia di sostenibilità delle imprese (CSDDD). Laddove la CSDDD stabilisce obblighi di due diligence relativi all’impatto del lavoro forzato per le imprese lungo tutta la catena del valore, ma non include disposizioni per vietare l’importazione di prodotti nel mercato dell’UE, il FLR implementa meccanismi per il divieto, il ritiro o lo smaltimento di prodotti realizzati con il lavoro forzato, chiedendo che tali  prodotti siano riciclati, resi inutilizzabili o distrutti.

Entro il 14 dicembre 2025, gli Stati membri devono nominare un’autorità competente e notificarla alla Commissione europea, che ne pubblicherà l’elenco nel cosiddetto “Portale unico del lavoro forzato”. Il portale, che dovrà essere istituito entro il 14 giugno 2026, servirà anche come archivio per le decisioni e le linee guida per le imprese, ivi comprese le procedure di due diligence e le migliori pratiche far cessare i rischi di lavoro forzato o per riparare ai casi di lavoro forzato. La Commissione europea è inoltre tenuta a istituire una banca dati pubblica delle zone geografiche o dei prodotti o gruppi di prodotti a rischio di lavoro forzato, anche per quanto riguarda il lavoro forzato imposto dalle autorità statali. Le decisioni relative al divieto, al ritiro o allo smaltimento dei prodotti saranno riconosciute in tutti gli Stati membri. Le imprese che non si conformano alle decisioni prese ai sensi del regolamento possono incorrere in sanzioni pecuniarie.

Raccomandazioni

Le imprese hanno tre anni di tempo per valutare l’esistenza di rischi legati al lavoro forzato all’interno delle loro catene di approvvigionamento, sia direttamente attraverso le loro attività di importazione o esportazione, sia indirettamente attraverso la dipendenza da prodotti importati o esportati, e mappare la loro potenziale esposizione. Allo stesso tempo, dovrebbero provvedere ad inserire nei contratti con i loro fornitori clausole volte a mitigare il rischio che determinati prodotti vengano trattenuti alle frontiere dell’UE, con conseguente loro ritiro dal mercato o smaltimento.

Origine preferenziale e Convenzione PEM: cos’è cambiato?

La Convenzione paneuromediterranea riveduta è entrata in vigore il 1° gennaio 2025 per tutti gli accordi di libero scambio (ALS) che contengono un cosiddetto “riferimento dinamico” alla Convenzione. Fino al 31 dicembre 2025 le norme di origine della vecchia Convenzione PEM possono continuare ad essere applicate in parallelo.

Dal 1° gennaio 2025 all’interno della zona PEM si applicano due serie di norme: quelle vecchie e quelle della Convenzione PEM riveduta. Negli scambi commerciali bisogna pertanto considerare diversi casi, a seconda del partner e/o dell’accordo di libero scambio:

Caso 1: ALS con riferimento dinamico e disposizioni transitorie

  • applicazione facoltativa delle norme vecchie o rivedute
  • possibilità di cumulo diagonale basato sulle norme rivedute e permeabilità con le vecchie norme, ciò comporta l’accettazione di un certificato di origine stabilito secondo le regole della vecchia Convenzione PEM come prova di origine valida ai sensi delle regole rivedute (ma non il contrario)

Questo caso si applica ai seguenti accordi di libero scambio: Svizzera-Unione europea, Convenzione AELS, AELS-Bosnia ed Erzegovina, AELS-Georgia, AELS-Macedonia del Nord, AELS-Serbia, AELS-Turchia.

Caso 2: ALS con riferimento dinamico ma senza disposizioni transitorie

  • applicazione delle norme rivedute
  • il cumulo diagonale è possibile unicamente in base alle norme rivedute

Questo caso si applica agli accordi AELS-Albania e AELS-Montenegro.

Caso 3: ALS senza riferimento dinamico e senza disposizioni transitorie

  • applicazione delle vecchie norme
  • il cumulo diagonale è possibile solo in base alle vecchie norme

Questo caso si applica ai seguenti ALS: CH-Isole Faroe, AELS-Egitto, AELS-Giordania, AELS-Israele, AELS-Libano, AELS-Marocco, AELS-OLP, AELS-Tunisia, AELS-Ucraina.

A partire dal 1° gennaio 2026 si applicheranno solo le norme rivedute. Dopo tale data, il cumulo diagonale con Paesi partner che non avranno ancora inserito il riferimento dinamico alla Convenzione PEM nei loro ALS non sarà più possibile.

Matrix

La Matrix (PDF) è stata aggiornata di aggiornata di conseguenza:

Prove dell’origine e cumulo

L’UDSC ha aggiornato i seguenti documenti e istruzioni:

Per semplificare l’applicazione delle norme di origine rivedute, la Convenzione PEM riveduta introduce la cosiddetta “permeabilità”: gli esportatori che applicano le norme di origine rivedute possono cumulare anche se i loro fornitori applicano ancora le vecchie norme di origine. A tal fine e sino al 31 dicembre 2025, gli esportatori che applicano le norme rivedute devono contrassegnare la prova di origine con la dicitura «REVISED RULES» (esclusivamente in inglese, nella sezione 7 del certificato di circolazione EUR.1 o alla fine del testo della dichiarazione di origine). Il cumulo nell’altro senso (cioè se il fornitore applica le norme rivedute e gli esportatori applicano ancora le vecchie norme) non è invece possibile.

È opportuno sottolineare che la permeabilità può essere applicata solo alle seguenti merci per il cumulo secondo le norme rivedute fino al 31.12.2028: merci dei capitoli 1 e 3 del sistema armonizzato (SA), prodotti della pesca trasformati del capitolo 16 del SA e merci dei capitoli 25-97 del SA.

Tra le altre novità introdotte dalle norme rivedute figurano:

  • in generale le regole della lista per i prodotti industriali sono state semplificate: se viene applicato il criterio del valore, la percentuale autorizzata di materiali non originari passa dal 40% al 50% del prezzo franco fabbrica del prodotto; per i prodotti tessili, il carattere originario può essere ottenuto sulla base di un maggior numero di fasi di trasformazione, per i prodotti agricoli il limite autorizzato di materiali non originari non è più basato sul valore, ma sul peso.
  • il certificato di circolazione delle merci (CCM) EUR-MED e la dichiarazione di origine EUR-MED sono soppressi;
  • ai sensi dell’art. 8 par. 3 delle norme di origine della Convenzione PEM riveduta, la dicitura «CUMULATION APPLIED WITH…» deve essere indicata nella prova di origine se è stato applicato il cumulo dell’origine. Tuttavia, le Parti contraenti possono rinunciare a questa indicazione nella prova d’origine per le importazioni. La Svizzera non richiede informazioni sul cumulo nella prova d’origine. Allo stato attuale, nemmeno altre Parti contraenti che hanno ratificato la Convenzione PEM riveduta al 1° gennaio 2025 la richiedono (cfr. Comunicazione dell’UDSC, 01.01.2024);
  • nel quadro delle norme rivedute si può ora applicare il cosiddetto “cumulo totale”: la lavorazione o la trasformazione sufficiente non deve avvenire necessariamente nel territorio doganale di una Parte contraente, ma può avvenire complessivamente nella zona di cumulo delle norme rivedute. Eccezione: per quanto riguarda i prodotti dei capitoli 50–63 del SA, il cumulo totale si limita agli scambi bilaterali;
  • contrariamente alle vecchie norme di origine della Convenzione PEM, nel quadro delle norme rivedute sussiste la possibilità di far eseguire singole fasi di produzione in un Paese terzo anche per i prodotti dei capitoli 50–63 del SA, a condizione che il valore aggiunto acquisito in tale Paese non superi il 10% del prezzo franco fabbrica (principio di territorialità);
  • è introdotto il principio di non modificazione: i prodotti possono essere trasportati attraverso Paesi terzi a condizione che l’importatore possa provare che tali prodotti sono gli stessi che sono stati esportati dalla parte esportatrice. Le merci originarie devono continuare a rimanere sotto controllo doganale nel Paese terzo e possono essere lavorate solo in modo che rimangano invariate. È tuttavia consentita, in un Paese terzo, l’apposizione di marchi, etichette, sigilli o di qualsiasi altra documentazione atta a garantire la conformità a disposizioni nazionali specifiche. Inoltre ora è possibile dividere le spedizioni nel Paese di transito;
  • il cosiddetto “divieto di drawback” vale ora solo per i materiali di Paesi terzi utilizzati per la fabbricazione di prodotti dei capitoli 50–63 del SA. In tutti gli altri casi è possibile importare i materiali nel traffico di perfezionamento attivo. Tuttavia, tale divieto non vale per gli scambi bilaterali nei casi in cui l’origine preferenziale è stata ottenuta grazie al cumulo totale.

Ulteriore documentazione utile

Anche lo Stato deve fare la sua parte

Il mercato europeo dell’automobile sta soffrendo. Le immatricolazioni di nuove automobili nel 2024 hanno registrato dei numeri negativi su praticamente tutti i mercati nazionali, Svizzera compresa.

Le motivazioni dietro a questa flessione sono sicuramente diverse. Da un lato la situazione geopolitica del continente con due guerre alle porte dell’Europa, la recessione economica in diversi settori e, non da ultimo, le imposizioni al settore dell’automobile da parte della Commissione Europea. Questi aspetti hanno minato la fiducia dei consumatori già sottoposti ad un marcato calo del loro potere d’acquisto. A questa difficile situazione congiunturale non sfugge nemmeno il mercato dell’automobile elettrica (BEV). Anzi, verrebbe da dire che quest’ultima, dopo la decisione della Commissione Europea di vietare la vendita di nuove automobili con motore a combustione a partire dal 2035, sia stata maggiormente penalizzata. Se da un lato, questa decisione, ha indicato ai fabbricanti di auto una via verso la mobilità elettrica certa, portandoli così ad abbandonare lo sviluppo ulteriore dei motori a combustione per concentrarsi unicamente sulla propulsione elettrica, sembra che essa abbia avuto l’effetto contrario nei consumatori.

È proprio a partire da inizio 2024 che le vendite di auto completamente elettriche hanno subito una brusca frenata mettendo a rischio la transizione verso una mobilità più rispettosa dell’ambiente. Cercando di analizzare il contesto da parte del consumatore questa situazione appare comprensibile. Da un lato tutti noi siamo sicuramente orientati ad una maggiore sostenibilità per l’ambiente per quanto riguarda l’utilizzo di energia e, oggi con la tecnologia a disposizione,  per il trasporto privato l’unica via percorribile è appunto quella della mobilità elettrica.
Dall’altra però le incognite per chi acquista un’automobile elettrica sono ancore molte e alcune senza risposte. Se con alcuni “limiti” delle  auto elettriche, come ad esempio la presuntascarsa autonomia, l’automobilista può imparare a conviverci e a gestirla, l’assenza della possibilità di ricarica della batteria al domicilio o sul posto di lavoro è un problema per alcuni insormontabile. Oggi viaggiare in Svizzera e nelle nazioni confinanti con un’auto a batteria con presa di ricarica (BEV) non è assolutamente un problema visto l’elevato numero di colonnine di ricarica pubbliche ben distribuite lungo i principali assi di transito e nelle località di destinazione.

Per esempio, al momento in Svizzera, si contano oltre 18’600 punti ricarica, un numero più che sufficiente per garantire tranquillità a tutti i possessori di un’auto elettrica. Ma si sa, gli svizzeri sono un popolo di inquilini che vivono nella stragrande maggioranza dei casi in condomini in affitto o in proprietà per piani. Per loro avere una colonnina di ricarica nel proprio posto auto è, ad oggi, praticamente impossibile.
Le amministrazioni o i proprietari degli stabili non son infatti disposti ad investire somme importanti per elettrificare i parcheggi o i garage. E, come è stato menzionato anche in articoli precedenti, guidare un’auto elettrica senza possibilità di ricaricarla quando è ferma, quindi durante la  notte al domicilio o durante il giorno sul posto di lavoro, non è assolutamente conveniente e praticabile.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che le Istituzioni avrebbero dovuto puntare per stimolare la transizione verso la mobilità elettrica. Ed invece, con la commissione europea in prima linea, è stato deciso di imporre la transizione verso la mobilità elettrica inasprendo a dismisura le norme contro le emissioni di CO2, sanzionando quindi i fabbricanti che superano i valori obiettivi a causa della ridotta vendita di automobile ad emissioni zero. Le proposte di miglioramento tuttavia non mancano.
Luca Cifferi, Associate Publisher & Editor @ Automotive News Europe, durante un’intervista andata in onda su RSI RETE1 sul tema della crisi dell’auto elettrica in Europa, suggerisce un sanzionamento anche per gli stati che vengono meno alla messa in atto delle misure quadro per uno sviluppo generale delle colonnine di ricarica private. Solo così, secondo il suo punto di vista, sarebbe possibile una transizione ordinata e sostenibile verso la mobilità del futuro più pulita e sostenibile.

L’approvvigionamento energetico con energia verde e rinnovabile è l’altra sfida che le autorità politiche devono affrontare e risolvere. Ancora quasi ovunque vengono proposti incentivi per l’installazione, ad esempio, di impianti fotovoltaici su tetti di case private o di capannoni industriali per poi accorgersi che l’elettricità prodotta da quest’ultimi è difficilmente gestibile se non addirittura problematica per la gestione della rete di distribuzione elettrica. Anche inquesto caso si può ipotizzare una scarsa visione generale da parte di chi detta le regole del gioco che non ha previsto una gestione coordinata di tutte le tecnologie oggi a disposizione per una transizione ecologica. Impianto fotovoltaico sul tetto di casa e auto elettrica in garage, se ben gestiti, sono sicuramente una delle vie da percorrere per rendere più sostenibile la mobilità individuale privata e non solo.

Ma è proprio qui che lo Stato deve intervenire: sostenendo il privato cittadino o l’imprenditore lungimirante nell’implementazione di un sistema globale della gestione energetica. Lo Stato deve fare la sua parte.

Recupero crediti  e fallimento: le novità per le aziende

A partire dal 1° gennaio 2025, i crediti di diritto pubblico (IVA, multe, imposte, contributi previdenziali o premi assicurativi obbligatori) non saranno più perseguiti tramite pignoramento, ma tramite fallimento.

Quando nel 1889 è entrata in vigore la Legge federale sull’esecuzione e sul fallimento (LEF), è stata concordata un’eccezione per i crediti di diritto pubblico. I crediti di diritto pubblico sono perseguiti tramite pignoramento e non tramite fallimento, come avviene per i crediti di diritto privato. A partire dal 1° gennaio 2025, le eccezioni previste dai paragrafi 1 e 2 dell’articolo 43 della Legge federale sulla esecuzione e sul fallimento (LEF) saranno abrogate. Questa modifica legislativa fa parte della nuova legge federale sulla lotta all’abuso del fallimento.

Di conseguenza, a partire dal 1° gennaio 2025, i crediti di diritto pubblico (IVA, multe, imposte, contributi previdenziali o premi assicurativi obbligatori) non saranno più perseguiti tramite pignoramento, ma tramite fallimento. Questo vale solo per le persone giuridiche (società, associazioni) e le persone fisiche (ditte individuali) iscritte nel registro di commercio ai sensi dell’articolo 39 LEF. Si noti che il titolare di una ditta individuale è soggetto al fallimento nel suo cantone di domicilio, anche se la sua società è iscritta nel registro di commercio di un altro cantone.

Quali debiti sono coinvolti?

Questo vale per tutti i crediti di diritto pubblico, comprese le imposte (comunali, cantonali e federali), l’IVA, le multe, le sanzioni e i contributi sociali (compresi i contributi AVS). Sono compresi anche i premi dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni. Tuttavia, due tipi di crediti di diritto pubblico continueranno a essere disciplinati dal regime eccezionale previsto dall’art. 43 LEF. Si tratta dei crediti relativi al recupero degli alimenti periodici e dei contributi alimentari derivanti dal diritto di famiglia, nonché dei contributi alimentari derivanti dalla legge sul  partenariato del 18 giugno 2004 (art. 43 cpv. 2) e della prestazione di garanzie (art. 43 cpv. 3).

Questa revisione prevede una particolarità giuridica: oltre ai procedimenti giudiziari avviati a partire dal 1° gennaio 2025, saranno interessate anche le procedure avviate prima di tale data. Inoltre, anche le persone con un certificato di inadempimento patrimoniale emesso prima del 1° gennaio 2025 potranno avviare una nuova procedura fallimentare. Va notato che un credito stabilito da un atto di mora si prescrive dopo 20 anni dalla data di emissione (art. 149° cpv. 1 LEF).

Cosa ci si può aspettare?

Tutti i crediti, recenti o pregressi, compresi i certificati di inadempimento rianimati, saranno ora soggetti alla procedura fallimentare. In pratica, la procedura iniziale (solleciti, citazioni) rimane invariata. Tuttavia, dopo la notifica dell’intimazione di pagamento e in caso di opposizione,

il creditore beneficerà di un processo di recupero semplificato, poiché le decisioni dell’autorità pubblica costituiranno titoli di scarico definitivi. In questo modo sarà più facile revocare l’ingiunzione di pagamento e procedere direttamente alla procedura fallimentare. Il creditore dovrà quindi richiedere un decreto di fallimento, che darà il via alla liquidazione di tutti i beni dell’azienda. Uno dei vantaggi del fallimento è che consente a un maggior numero di creditori di partecipare alla procedura, garantendo così una distribuzione più equa dei beni. Al termine del fallimento, il creditore ottiene un certificato di inadempienza per l’importo del credito non pagato. Tuttavia, la chiusura del fallimento comporta lo scioglimento della società e la sua cancellazione dal registro di commercio.

Gli amministratori possono comunque essere ritenuti personalmente responsabili, in particolare se l’amministratore non ha adempiuto ai suoi obblighi, come il pagamento dei contributi sociali (art. 51 LAVS), causando così un danno.

Come prevenire la situazione?

Per evitare spiacevoli sorprese, si consiglia alle aziende interessate di saldare gli arretrati entro il 31 dicembre 2024. Se ciò non fosse possibile, si consiglia di contattare i creditori (autorità fiscali, fondo AVS, ecc.) per negoziare accordi o piani di pagamento che consentano di ripartire i debiti nel tempo. È inoltre possibile avviare una procedura di riorganizzazione richiedendo una moratoria per la ristrutturazione del debito. Se non si raggiunge un accordo, l’ufficio di recupero crediti non avrà alcun margine di manovra per concedere una dilazione degli arretrati, essendo vincolato alle scadenze legali obbligatorie. Il rischio di fallimento è quindi molto concreto.

Fonte: CVCI – Scheda giuridica, ottobre-novembre 2024

AVS 21: nessuna nuova votazione

Il Tribunale federale ha deciso oggi che l’errore di calcolo delle previsioni AVS non porterà a una nuova votazione sulla riforma AVS 21

I datori di lavoro accolgono con favore questa decisione: l’annullamento della votazione avrebbe comportato un carico di lavoro sproporzionato e avrebbe sollevato molte domande sul resto della procedura.

L’errore nel calcolo delle previsioni AVS dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (UFAS) non porta ad una nuova votazione sulla riforma AVS 21: oggi il Tribunale federale ha respinto un ricorso in tal senso. Pertanto, le modifiche già in vigore o previste vengono mantenute.

I datori di lavoro accolgono con favore questa decisione perché consente di mantenere importanti misure di stabilizzazione dell’AVS. Inoltre, è giusto, in termini di uguaglianza e di aspettativa di vita, che donne e uomini abbiano la stessa età ufficiale di riferimento. Inoltre, ciò fa risparmiare molti sforzi e problemi sia all’amministrazione che alla popolazione – per quanto riguarda la riforma AVS 21, ma anche voti futuri e previsioni calcolate a monte.

L’annullamento del voto avrebbe reso obsoleta la base giuridica per l’aumento dell’IVA in vigore dal 1° gennaio 2024. Non si sa cosa sarebbe successo alle entrate aggiuntive già generate.

Per i datori di lavoro è chiaro che, data la forte pressione finanziaria che continua a gravare sulle finanze dell’AVS, è necessario adottare altre misure strutturali.

Si aspetta dal Consiglio federale una soluzione praticabile nel quadro della riforma AVS 2026, che prevede un aumento realistico dell’età di riferimento in base alla speranza di vita.


Fonte: Union patronale suisse, dicembre 2024

Riduzione delle vacanze e incapacità lavorativa parziale

Scheda redatta dall’Avv. Michele Rossi, Delegato alle relazioni esterne Cc-Ti.

Le vacanze sono un diritto dei dipendenti. Lo dice la legge. E questo diritto viene maturato sulla base del tempo passato al servizio dell’azienda per cui si lavora. Infatti, per un anno incompleto di lavoro, le vacanze sono date proporzionalmente alla durata del rapporto di lavoro nell’anno considerato. Fino a qui tutto chiaro. Ma cosa succede se il dipendente non lavora a causa, ad esempio, di una malattia? Nonostante l’assenza, continua a maturare i suoi giorni di vacanza per l’anno considerato?

Su questo punto il Codice delle obbligazioni prevede, a determinate condizioni, la possibilità di ridurre il diritto alle vacanze. Nel caso in cui l’impedimento al lavoro è causato da motivi inerenti alla persona del lavoratore, come malattia, infortunio, adempimento d’un obbligo legale, esercizio d’una funzione pubblica o congedo giovanile, senza che vi sia colpa da parte sua, il datore di lavoro non ha diritto di ridurre la durata delle vacanze se l’impedimento non dura complessivamente più d’un mese nel corso d’un anno di lavoro. E la riduzione scatta comunque solo dopo un successivo mese completo di assenza.

Se invece l’assenza è imputabile ad una colpa del dipendente la riduzione può scattare già dopo il primo mese completo di assenza. La situazione si complica se il dipendente è incapace al lavoro solo parzialmente, al 50% ad esempio.
Come si procede in simili situazioni?

In questi casi il periodo di attesa si calcola allungandolo proporzionalmente al grado di incapacità lavorativa. Ciò significa che per avere un mese completo di assenza bisognerà attendere  due mesi, essendo la persona presente al lavoro per la metà del suo tempo. E di conseguenza il diritto alle vacanze potrà essere ridotto solo dal terzo mese completo di assenza dal posto di lavoro.

Scopri il Servizio giuridico della Cc-Ti!

Il ritorno di Trump: rischi e opportunità per l’export svizzero (e non solo)

La vittoria di Trump e, più in generale, il verosimile orientamento della sua amministrazione verso il prolungamento o l’intensificazione del protezionismo commerciale e il disaccoppiamento economico dalla Cina presentano opportunità e rischi per le aziende che esportano negli Stati Uniti, in particolare nei casi in cui le vendite negli Stati Uniti costituiscono quote significative delle vendite globali. Questo vale anche per gli esportatori svizzeri, visto che da ormai alcuni anni la Nazione nordamericana rappresenta il principale mercato di destinazione dell’export elvetico.

Durante la sua recente campagna, Trump si è impegnato a imporre dazi del 60% sulle importazioni dalla Cina e del 10-20% sulle importazioni provenienti dal resto del mondo. Una recente analisi di Global Trade Alert (Briefing 42, 05.11.2024), iniziativa nata come progetto di ricerca dell’Università di San Gallo e ora guidata dal St. Gallen Endowment for the Prosperity Through Trade (SGEPT), basata sulle importazioni complessive degli Stati Uniti nel 2022 (l’ultima serie completa di dati sul commercio internazionale delle Nazioni Unite), mostra che i fornitori stranieri di veicoli, motori, hardware per computer e dispositivi medici sarebbero più vulnerabili delle controparti che forniscono petrolio greggio, prodotti farmaceutici, batterie, apparecchiature per le telecomunicazioni e semiconduttori.

Anche gli esportatori svizzeri sarebbero colpiti dall’aumento dei dazi, come tutti gli altri; tuttavia, a causa delle specifiche dinamiche di mercato e della base di clienti, alcuni settori potrebbero esserlo più di altri. È il caso dell’industria farmaceutica: sebbene sia attualmente poco esposta ai dazi, l’aumento di questi tributi potrebbe avere un impatto significativo sull’intero settore a causa dei volumi esportati. Oltre ai prodotti farmaceutici, la Svizzera esporta principalmente beni di fascia alta, sofisticati e costosi, come macchinari ed elettronica, strumenti di precisione e orologi. Molte aziende svizzere, indipendentemente dall’industria in cui operano, non saranno in grado di incorporare i dazi nella loro struttura dei costi, e quindi potrebbero pensare a trasferire i costi al consumatore. Ciò comprometterebbe la loro competitività e influenzerebbe la domanda, poiché i loro clienti cercherebbero opzioni meno costose. Tuttavia, sottolineare ancora di più la qualità e l’affidabilità della tecnologia svizzera potrebbe aiutarle a giustificare i prezzi più alti derivanti dall’aumento dei dazi. Inoltre, potrebbero aumentare il valore del prodotto fornendo consulenza, manutenzione, personalizzazione e servizi che vanno oltre il prodotto stesso, rendendo più difficile per i concorrenti sostituirlo o replicarlo. Questo aumenterebbe il valore del marchio e i clienti potrebbero essere più disposti a pagare un prezzo più elevato per servizi e competenze unici.

Una politica commerciale aggressiva di Trump potrebbe causare anche nuovi conflitti commerciali con la Cina, e non solo. Ciò potrebbe provocare ritorsioni da parte di altri partner commerciali, che a loro volta potrebbero colpire indirettamente la Svizzera: nel 2018, ad esempio, il tycoon ha imposto un dazio del 25% su alcuni prodotti dell’acciaio e un dazio del 10% su alcuni prodotti dell’alluminio. In risposta, l’Unione europea ha introdotto misure di salvaguardia su alcune importazioni di acciaio, e nello specifico un dazio del 25% sulle importazioni che superano determinati contingenti; questo dazio che è stato applicato anche alle importazioni svizzere.

A proposito dell’“elefante nella stanza”: la Cina è il terzo partner commerciale della Svizzera. Dal 2014 la Svizzera e il Dragone hanno un accordo di libero scambio (ALS). A settembre, il governo svizzero ha dato il via libera ai negoziati per ampliare l’ALS. Tuttavia, se le politiche di Trump dovessero portare a ulteriori restrizioni al commercio con il gigante asiatico, le aziende esportatrici svizzere che fanno affidamento su componenti cinesi potrebbero incontrare difficoltà significative. In effetti, un’indagine del 2023 del Centro di ricerca congiunturale del Politecnico di Zurigo (KOF) afferma che un quinto delle imprese industriali svizzere dipende da input essenziali provenienti dalla Cina (materie prime, componenti) in misura da moderata a forte. L’elettronica è il settore più dipendente, seguito dai comparti farmaceutico e chimico. Dall’indagine emerge che un disaccoppiamento dalla Cina sarebbe al momento insostenibile.

Da tempo la Svizzera auspica di concludere un ALS con gli Stati Uniti. La precedente amministrazione Trump si è dimostrata favorevole agli accordi commerciali bilaterali e il nuovo governo potrebbe essere interessato a raggiungere un accordo con il nostro Paese, che però sarà chiamato a gestire attentamente i rapporti con le due super potenze perché una maggiore cooperazione con l’una potrebbe condizionare le relazioni con l’altra. Allo stesso modo, le aziende svizzere che operano o vogliono operare negli Stati Uniti, in particolare quelle attive in settori sensibili, devono essere caute perché le loro operazioni con partner cinesi potrebbero influenzare loro attività negli Stati Uniti, e viceversa. In sostanza, gli esportatori svizzeri devono monitorare attentamente le regolamentazioni in vigore e quando gestiscono la doppia catena di fornitura devono assicurarsi di agire in conformità con le normative di entrambi le Nazioni. Ne derivano un aumento dei costi e della complessità, soprattutto nel caso in cui sia negli Stati Uniti sia in Cina si rendano necessari investimenti produttivi.

Poiché la nuova strategia “America first” di Trump probabilmente favorirà il reshoring delle aziende statunitensi e gli investimenti esteri nel settore manifatturiero, questa opzione sta diventando sempre più concreta. Di conseguenza, le aziende svizzere che esportano attualmente prodotti negli Stati Uniti potrebbero essere incentivate a istituire sedi produttive in loco per evitare i dazi e migliorare la loro posizione sul mercato. Tuttavia, ciò comporterebbe anche delle sfide, come gli elevati costi iniziali di investimento e operativi, la complessità delle normative e delle pratiche commerciali, la ricerca di lavoratori qualificati o l’attuazione di programmi di formazione.

Le aziende svizzere dovranno continuare ad essere innovative e attente, nonché pronte ad adottare le misure necessarie per mantenere la loro posizione nei mercati statunitensi e internazionali.

La Svizzera è un Paese medtech

L’industria svizzera delle tecnologie mediche è solida e importante per l’economia svizzera. Con un aumento del fatturato di oltre il 6% negli ultimi due anni, il medtech ha registrato una crescita doppia rispetto al PIL nominale in Svizzera nello stesso periodo.

«L’ottimizzazione dei processi a livello di efficienza rientra tra le competenze chiave del settore medtech svizzero. Dobbiamo assumere un ruolo di precursori nella digitalizzazione e nell’uso dell’IA, se vogliamo assicurare la concorrenzialità della produzione medtech in Svizzera, paese caratterizzato da prezzi elevati.»
Adrian Hunn, Direttore di Swiss Medtech

Il settore crea un numero di posti di lavoro superiore alla media – rispetto ad altri comparti industriali -, come dimostrano i 20’000 nuovi posti di lavoro creati negli ultimi dieci anni. Nel 2023, circa 71’700 persone, di cui il 40% donne, sono stati impiegati nel settore – uno dei tassi di occupazione pro capite più alti d’Europa.

Tuttavia, questa storia di successo dell’industria medtech presenta anche delle sfide. La densità normativa e l’aumento dei costi mettono le aziende sotto forte pressione. Il Regolamento europeo sui dispositivi medici (MRD – Medical Device Regulation) grava su molte aziende medtech con costi elevati. Per gestire la MDR l’80% delle imprese ha assunto ulteriore personale e il 60% ha dovuto dirottare risorse di personale, spostandole dal settore ricerca e sviluppo. La metà delle imprese ha ridotto il suo portafoglio prodotti di, mediamente, il 20%.

Un aspetto fondamentale che emerge dall’ultimo studio di settore di Swiss Medtech è la crescente importanza della digitalizzazione. Il medtech la vede come una delle sue maggiori opportunità. La trasformazione digitale sta cambiando i processi di innovazione, produzione e vendita. L’intelligenza artificiale e le soluzioni digitali contribuiscono ad aumentare l’efficienza e a garantire la posizione di leader globale dell’industria medtech svizzera.

Un altro tema importante per il settore è la sostenibilità, aspetto fondamentale per l’accesso al mercato. Clienti e investitori richiedono sempre più informazioni sulla sostenibilità, in particolare sulla protezione del clima. Il 74% delle aziende medtech è già impegnato in questo ambito e Swiss Medtech sta lavorando a una roadmap del settore per la decarbonizzazione. Questo dovrebbe rafforzare la competitività e attirare anche i giovani talenti, per i quali la sostenibilità è un criterio importante nella scelta del datore di lavoro.

Il networking internazionale gioca un ruolo decisivo per la competitività. L’UE rimane il principale partner commerciale dell’industria medtech svizzera, ma anche gli Stati Uniti e i mercati asiatici stanno acquisendo sempre più importanza. L’industria medtech svizzera ha bisogno di una politica estera ed economica che promuova relazioni commerciali stabili e affidabili con importanti mercati globali. In un contesto sempre più protezionistico, la risposta è la “diversificazione”: portare avanti nuovi accordi di libero scambio, ad esempio con il Mercosur, riprendere i negoziati per un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e rafforzare le nostre relazioni con l’UE attraverso gli Accordi Bilaterali III – questo è l’impegno di Swiss Medtech.

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Swiss Medtech Ticino spegne due candeline

Intervista con Giuseppe Perale, Presidente Swiss Medtech Ticino

Swiss Medtech Ticino ha alle spalle due intensi anni di attività? Può fare un bilancio e parlarci delle sinergie con altri comparti economici?

I primi due anni di vita di Swiss Medtech Ticino sono sicuramente stati molto intensi, caratterizzati da importanti sviluppi e iniziative volte a consolidare la nostra posizione sia a livello cantonale che nazionale. Stiamo, infatti, uscendo dalla fase di start-up e guardiamo al prossimo anno con lo spirito di continuare a crescere organicamente e, sulla scorta degli obiettivi della nostra associazione madre nazionale, consolidare il nostro ruolo tra gli attori economici di riferimento.
La nostra sezione ticinese in soli due anni è passata da 13 iscritti all’importante traguardo di 50 associati, passato proprio oggi: un segno importante e tangibile della dinamicità del contesto medicale ticinese, dell’interesse verso la vita associativa e verso i temi affrontati durante i nostri eventi. Gli associati hanno infatti chiaramente espresso una forte volontà di networking sia su base locale che nazionale, confermando anche l’interesse per gli argomenti chiave del settore medtech. Dal nostro avvio, infatti, abbiamo lavorato intensamente per creare un ecosistema collaborativo, puntando su innovazione, ricerca e sviluppo, regolatorio, formazione, sviluppo di sinergie e proiezione internazionale. Nei primi due anni abbiamo organizzato 12 eventi tematici, spesso ospitati presso aziende associate, permettendo così non solo l’approfondimento specifico ma anche la conoscenza reciproca tra colleghi. Questo, grazie ad un Comitato locale estremamente attivo ed al supporto segretariale della Cc-Ti rappresentata dal Vicedirettore Michele Merazzi, ci ha permesso di sviluppare anche numerose sinergie con altri comparti economici ed industriali, laddove le nuove frontiere della ricerca tecnologica stanno facendo sfumare sempre di più i tradizionali confini settoriali. Su tutte meritano menzione l’intelligenza artificiale, la chimica, la scienza dei materiali e l’elettronica. Non mancano le collaborazioni con istituzioni accademiche e sanitarie, che ci hanno permesso di promuovere progetti comuni, spesso con il diretto coinvolgimento dei colleghi di Farma Industria Ticino, al fine di consolidare il ruolo del comparto economico delle scienze della vita nella vita del nostro Cantone. La volontà è e resta quella di fare fronte comune alle grandi sfide sistemiche e geopolitiche che colorano di tinte chiaro-scure la fase storica in cui viviamo ma che vanno affrontate uniti come imprenditori, come economia e come Paese. Pur restano le perduranti incertezze legate al sempre più caotico quadro normativo europeo per il settore medicale, i vicini conflitti, le tensioni valutarie e la carenza di personale specializzato, il bilancio resta complessivamente positivo. Si è consolidata anche la collaborazione tra Ticino e la nostra associazione madre a Berna, facilitata sicuramente dall’introduzione dell’italiano come lingua ufficiale nelle comunicazioni a tutti i livelli ma soprattutto dall’arrivo di una imprenditrice ticinese di spicco, Nicoletta Casanova, nel board nazionale.

Un elemento su cui puntare per il futuro è sicuramente la formazione continua. Come vi state muovendo?

Come tutti i settori ad alto valore aggiunto, anche il comparto medtech svizzero soffre l’endemica carenza di personale specializzato e, a livello cantonale, questo aspetto è ulteriormente accentuato da una crescente competizione con le aziende di oltre confine, in un quadro aggravato anche dai complessi rapporti fiscali e normativi. Swiss Medtech Ticino si è attivata nel mappare le offerte educative presenti attualmente sul territorio e che sono mirate o affini al nostro settore. Una volta ultimata questa prima attività ci occuperemo ora di rendere maggiormente attrattive le formazioni da offrire ai ragazzi e alle ragazze che si avvicinano al mondo del lavoro attraverso la formazione duale. Sarà inoltre imprescindibile un incremento della collaborazione con USI e SUPSI per favorire l’interazione tra le nostre aziende e i loro studenti, in corsi di bachelor e master legati direttamente all’ambito medicale e/o ingegneristico. Un primo strumento concreto cui si sta già lavorando è pensato per i collaboratori già attivi nelle aziende medicali ticinesi e vede la creazione di una “Swiss Medtech Academy” (declinata nelle differenti regioni linguistiche della Confederazione e dunque anche in Ticino) volta proprio ad offrire dei percorsi specifici per questo settore che rappresenta una fetta sempre più importante e crescente del PIL nazionale. Grazie al ruolo del Comitato di Swiss Medtech Ticino, anche in questo ambito il nostro Cantone è all’avanguardia potendo mirare in tempi brevi ad essere il primo in Svizzera ad offrire questi percorsi dedicati. Tutto questo è reso possibile grazie agli ottimi rapporti con le nostre università e con il DECS, in particolare con la Divisione per la formazione professionale: tutte istituzioni che hanno mostrato una grande disponibilità e un forte interesse per le nostre realtà aziendali. Siamo convinti che grazie a queste fondamentali basi riusciremo a proporre tutti insieme delle formazioni all’avanguardia e a sopperire alla prevista carenza di manodopera traversale che accomuna il nostro settore con tutte le altre categorie.

Centro di competenze sulle scienze della vita. Quo vadis?

Quanto al tema dell’innovazione, cardine per il nostro settore, va sottolineato che Swiss Medtech Ticino è stata tra i fondatori del Centro di Competenze in Scienze della Vita all’interno del progetto Ticinese dello Swiss Innovation Park. In questo contesto la nostra associazione sta lavorando al consolidamento del centro di competenze, con un’ottima comunione di intenti e visione con gli altri attori istituzionali coinvolti. La risposta delle aziende associate è stata notevole e si stanno profilando le tematiche su cui incardinare il centro di competenze, in primis quella tecnologica che collega il mondo delle disabilità agli strumenti dell’intelligenza artificiale. Queste sinergie sono essenziali per creare una rete forte e coesa, che possa competere a livello globale, attrarre investimenti e promuovere l’eccellenza ticinese nel settore medtech. Continueremo a lavorare su questa strada, rafforzando la collaborazione tra pubblico e privato e supportando l’intero comparto verso una crescita robusta e innovativa.