La crisi delle materie prime rende il pane più caro

Il mercato delle materie prime soffre di una congestione della domanda nonché di prezzi elevati sin dalla fine del confinamento dovuto alla pandemia. La guerra in Ucraina e le sanzioni internazionali stanno ora aggravando la situazione, anche per prodotti come il grano e i fertilizzanti.

Lo scoppio della pandemia e il successivo lockdown hanno messo un freno al commercio globale, con ordini cancellati e tagli alla produzione. Dopo il lockdown, la propensione al consumo della popolazione e la rapida ripresa dell’economia hanno portato ad un rilancio del commercio globale molto più celere del previsto, con un aumento vertiginoso della domanda di tutti i tipi di beni e di energia. La conseguenza: tempi di approvvigionamento più lunghi e prezzi di produzione più elevati. La situazione, già difficile, è ora esacerbata dalla guerra in Ucraina e dalle numerose sanzioni internazionali.

Preoccupazione nei principali settori produttivi

La penuria di materie prime e l’esplosione dei prezzi preoccupa i principali settori produttivi. È infatti salito il prezzo di carta e cartone: il materiale scarseggia e ne risente non solo l’editoria, ma anche l’industria del packaging. Stesso dicasi per il vetro, dove mancano le bottiglie per il mondo del beverage e i contenitori per i cosmetici. Altre materie prime come il legno, l’acciaio e la plastica sono in cima alla classifica dei prezzi. Esse servono in grandi quantità per beni durevoli come immobili, macchine, cellulari, elettrodomestici e, nel caso della plastica, gli imballaggi alimentari.

La scarsità di alluminio e nichel è una conseguenza diretta del conflitto in corso: la Russia è infatti il terzo rispettivamente il secondo produttore mondiale di nichel e nichel raffinato, mentre il gruppo Rusal è il maggiore produttore industriale di alluminio al di fuori della Cina. Grazie alla sua resistenza alla corrosione, il nichel è fondamentale per la produzione di batterie, di acciaio inossidabile e di materiali utilizzati nelle industrie del petrolio e del gas, della produzione di energia, delle tecniche mediche. Mancano anche palladio, rodio e il più economico platino, utilizzati principalmente nei catalizzatori automobilistici, di cui la Russia è il secondo produttore mondiale. L’industria automobilistica non ha pace: assieme all’aerospaziale dipende anche dal titanio proveniente dalla Russia, con alternative limitate disponibili. Il conflitto ha compromesso anche la speranza di una ripresa delle catene di fornitura di microchip, essenziali non solo per il settore auto, ma anche per oggetti di uso quotidiano quali cellulari, elettrodomestici e computer: tra le materie prime essenziali alla produzione dei chip, oltre al palladio, vi è infatti anche il neon, di cui il 70% della produzione mondiale proviene dall’Ucraina.

Infine, anche le materie prime secondarie metalliche (ottenute attraverso il riciclaggio di prodotti metallici smaltiti e usate come materia prima per nuovi beni) registrano un aumento notevole di prezzo.

Russia e Ucraina granai del mondo

Sale anche il prezzo delle materie prime agricole, ambiti in cui Russia e Ucraina primeggiano: i due Paesi generano il 53% del commercio globale di olio di girasole e semi, il 27% di grano, il 23% di orzo, il 16% di semi di colza e il 14% di mais.

Alcuni Stati sono fortemente dipendenti dal grano proveniente dai due Paesi, è il caso della Turchia, dell’Egitto e di molti Paesi del Nordafrica e del Medio e Vicino Oriente. Si prospettano una crisi alimentare mondiale e ripercussioni politiche: non dimentichiamoci che la Primavera araba cominciò proprio a causa del prezzo del pane. L’effetto della guerra si sta già facendo sentire anche in Europa: in Italia c’è allarme grano per il settore della pasta e mais per l’alimentazione del bestiame, mentre la Germania sembra aver esaurito le scorte di olio di girasole.

Emergenza fertilizzanti

La Russia è il secondo produttore al mondo di ammoniaca, urea e potassio e il quinto produttore di fosfati lavorati. La Bielorussia è responsabile di un quinto della produzione mondiale di potassio. Tutti elementi essenziali per produrre fertilizzanti: la loro scarsa reperibilità mette a rischio la quantità e la qualità dei raccolti per gli anni commerciali 2021/22 e 2022/23. Le attuali perturbazioni spingono i prezzi dei fertilizzanti verso l’alto e gli agricoltori dovranno assorbire costi sostanziali per raccolti meno voluminosi. Il rischio di effetti a catena sui consumatori è molto elevato: la crisi delle materie prime potrebbe infatti rendere il pane quotidiano più costoso.

Anche la Svizzera soffre

Se nel medio-lungo termine altri attori potrebbero sostituire Ucraina e Russia nell’industria di alcune delle materie summenzionate, le interruzioni di produzione e consegna stanno minando l’attività economica globale.

Il settore svizzero delle costruzioni soffre già della mancanza di materie prime e semilavorati e dei loro prezzi elevati. Essendo un’economia molto aperta e priva di materie prime, la Svizzera risente degli effetti della guerra anche in altri settori. Le prossime settimane determineranno quanto forte sarà l’aumento dei prezzi in generale e se la produzione ristagnerà.

Complice il franco forte e una produzione interna meno energivora di quella europea, in complesso la Svizzera dovrebbe però cavarsela meglio dei Paesi europei. Il caro franco crea tuttavia pressioni sulle esportazioni: la perdita globale di potere d’acquisto rischia infatti di abbassare la domanda di prodotti e servizi svizzeri.

La Camera di commercio e dell’industria del Cantone Ticino sta attualmente conducendo un sondaggio tra le aziende della Svizzera italiana, volto ad ottenere una fotografia regionale dettagliata delle difficoltà legate agli approvvigionamenti e alle esportazioni.

Partecipate al sondaggio

Nuove sanzioni contro la Bielorussia

Il Consiglio federale ha proceduto ad una revisione totale dell’ordinanza che istituisce provvedimenti nei confronti della Bielorussia. Sulla scia di quanto adottato contro la Russia, le misure riguardano in particolare il settore commerciale e quello finanziario.

Tra le novità vi è il divieto di esportazione in Bielorussia di tutti i beni a duplice impiego (civile o militare), a prescindere dallo scopo o dal destinatario finale. Viene inoltre vietata l’esportazione di determinati macchinari e di beni per il rafforzamento militare e tecnologico o per lo sviluppo del settore della difesa e della sicurezza. In relazione a tali beni non è più permesso fornire assistenza tecnica, servizi di intermediazione né mezzi finanziari. Sono stati ampliati anche i divieti di importazione nei confronti della Bielorussia, che ora includono anche i prodotti del legno e della gomma, ferro, acciaio e cemento. In base alla nuova ordinanza è vietato fornire finanziamenti pubblici o assistenza finanziaria pubblica per gli scambi commerciali o gli investimenti in tale Paese. Altri provvedimenti in ambito finanziario concernono titoli di credito, mutui e l’accettazione di depositi. Le transazioni con la Banca centrale bielorussa non sono più consentite. Inoltre, le banche elencate nell’allegato sono escluse dal sistema di messaggistica internazionale SWIFT.

I nuovi provvedimenti possono essere visionati qui: https://www.seco.admin.ch/seco/it/home/Aussenwirtschaftspolitik_Wirtschaftliche_Zusammenarbeit/Wirtschaftsbeziehungen/exportkontrollen-und-sanktionen/sanktionen-embargos/sanktionsmassnahmen/massnahmen-gegenueber-belarus.html

Contatto per domande mirate: Segreteria di Stato dell’economia SECO, sanctions@seco.admin.ch, tel. 058 464 08 12


Situazione in Ucraina: ulteriori sanzioni contro la Russia

Il 4 marzo 2022 il Consiglio federale ha adottato la revisione totale dell’Ordinanza che istituisce provvedimenti per impedire l’aggiramento delle sanzioni internazionali in relazione alla situazione in Ucraina, riprendendo le sanzioni dell’UE del 23 e 25 febbraio e del 1° marzo 2022.

Si tratta principalmente di sanzioni commerciali e finanziarie, tra cui:

Provvedimenti relativi ai beni

  • fatte salve le deroghe previste all’art. 6, divieto di esportazione in Russia di beni a duplice impiego (art. 4 cpv. 1, allegato 2 OBDI), a prescindere dallo scopo o dal destinatario finale;
  • divieto di esportazione in Russia di beni militari speciali (art. 3 cpv. 1, allegato 3 OBDI) e, fatte salve le deroghe previste all’art. 6, divieto relativo ai beni che potrebbero contribuire al rafforzamento militare e tecnologico o allo sviluppo del settore della difesa e della sicurezza della Russia (art. 5 cpv. 1, allegato 1). In questo contesto sono vietate anche l’assistenza tecnica, l’intermediazione e la concessione di mezzi finanziari (art. 5 cpv. 2);
  • divieto di importare armi da fuoco, munizioni, esplosivi, pezzi pirotecnici e polvere da fuoco dalla Russia e dall’Ucraina (art. 2);
  • divieti relativi ai beni per l’aviazione e l’industria spaziale e ai servizi ad essi connessi (art. 9);
  • divieti relativi ai beni per la raffinazione del petrolio (artt. 10-12).

Provvedimenti finanziari

  • blocco di averi e di risorse economiche (art. 15);
  • obbligo di notifica relativo al blocco degli averi e delle risorse economiche (art. 16);
  • divieto concernente i valori mobiliari e gli strumenti del mercato monetario (artt. 18 e 23, allegati 9, 10 e 11);
  • divieto di concessione di mutui (art. 19);
  • divieto di accettare depositi di più di 100’000 franchi da cittadini russi o da persone fisiche e giuridiche nella Russia (art. 20);
  • dichiarazione obbligatoria relativa ai depositi esistenti (art. 21);
  • divieto legato alle transazioni con la Banca Centrale della Russia (art. 24);
  • divieto di fornire servizi specializzati di messaggistica finanziaria (art. 27).

Provvedimenti relativi ai territori designati

  • divieto d’importare i beni originari dei territori designati senza un certificato d’origine rilasciato dalle autorità ucraine (art. 13 cpv. 1);
  • divieto d’esportare certi beni e di fornire servizi connessi (art. 14);
  • divieto di finanziamenti, partecipazioni e certi servizi (art. 25).

Ulteriori restrizioni

  • divieto di entrata o di transito per talune persone (art. 29, allegato 8).

Coordinate di contatto per richieste specifiche sulle sanzioni: Segreteria di Stato dell’economia (SECO), sanctions@seco.admin.ch, tel. +41 58 464 08 12 (dalle 08:00-12:00 e 13:00-17:00)

Supply chain: concentrarsi sui clienti

Dalla fine del lockdown la domanda di taluni prodotti è in continuo aumento. Questo causa ripetutamente dei colli di bottiglia nella fornitura e nel trasporto. Le aziende della supply chain sono quindi nel mirino: devono superare i colli di bottiglia dell’approvvigionamento e fare di più per soddisfare i loro clienti.

Le richieste dei clienti sono aumentate significativamente spinte anche dalla rapida digitalizzazione nel settore delle vendite: sempre più processi legati ai prodotti si stanno spostando su internet (vedi e-commerce o shopping online).

Contatto e trasparenza

Cosa ricercano i clienti? Desiderano di certo modi facili e veloci di contatto attraverso vari canali. Richiedono anche informazioni/raccomandazioni complete e personalizzate su prodotti e servizi. È importante anche la rapidità nell’elaborazione di un ordine, non soltanto nella consegna.

Si evidenzia una tendenza alla trasparenza: innanzitutto, i clienti stessi vogliono leggere su internet le informazioni inerenti ai servizi. Inoltre, vogliono poter seguire l’intero processo di trasporto e le transazioni commerciali e vederli adattati ai loro standard personali (order-to-cash-process).

Quali sono questi standard personali? Sempre più clienti sono interessati alla protezione dell’ambiente e agli standard etici. Pertanto, spesso vogliono un monitoraggio in tempo reale per poter conoscere direttamente lo stato delle cose.

Incidono gli strumenti digitali

Gli strumenti di comunicazione sono cruciali. Le aziende devono essere raggiungibili via e-mail, telefono fisso, social media e anche tramite una chat sul proprio sito web. In questo contesto è utile disporre di un’unica piattaforma digitale per tutti i canali di comunicazione (omnichannel solution).

Oltre a ciò, le aziende dovrebbero anche essere in grado di inviare SMS e messaggi personali alle applicazioni smartphone dei clienti: infatti, i clienti apprezzano il fatto di ricevere messaggi utili al momento giusto.

Un unico sistema digitale può anche coordinare l’ordine, la consegna e consentire il monitoraggio in tempo reale della merce da parte dei clienti stessi. In questo caso, aiutano gli strumenti basati sull’Internet of Things (IoT). L’IoT può anche far uso di telecamere speciali in loco che permettono di monitorare le merci nei magazzini e durante il trasporto.

Infine, le aziende della catena di approvvigionamento dovrebbero mettere in rete i singoli dipartimenti e filiali. Così facendo, avranno ovunque gli stessi standard elevati di qualità e di servizio al cliente. In questo contesto la tecnologia blockchain può fornire un accesso rapido a tutti i documenti e processi interni.

La consulenza personale

Un servizio clienti personalizzato significa anche digitalizzare i processi banali e impiegare i dipendenti in modo mirato per la consulenza personale ai clienti. In questo modo, i collaboratori possono fidelizzare i clienti coniugando l’accoglienza e l’empatia alla loro competenza in materia di prodotti e servizi.

È altresì importante trattare i reclami in modo positivo: i clienti lo apprezzano. Infine, ogni feedback è utile all’ottimizzazione dei processi interni dell’azienda.

Commercio estero e “best practices” di sostenibilità

La sostenibilità è diventata un argomento rilevante nel mondo economico, anche nel commercio con l’estero.

Secondo diversi sondaggi internazionali, vi è un trend importante tra i consumatori: la stragrande maggioranza dei millenials, cioè i nati tra i primi anni ’80 e la metà degli anni ‘90, pagano volentieri di più per acquistare i prodotti se questi sono ecologicamente ed eticamente sostenibili. C’è anche un secondo trend: i clienti, così come i dipendenti, favoriscono le aziende che agiscono in modo ecologico e socialmente responsabile. Inoltre, sempre più investitori vogliono investire in aziende considerate sostenibili.

Sostenibilità economica, ecologica e sociale

Queste tendenze hanno implicazioni complesse per il supply chain management (SCM). Tre sono infatti gli aspetti importanti: la sostenibilità economica (efficienza delle risorse, costi), la sostenibilità ecologica (protezione dell’ambiente) e la sostenibilità sociale (etica sul lavoro).

Quali sono le “best practices” di sostenibilità per l’SCM? Queste risultano abbastanza chiare nell’area della sostenibilità economica: già da anni le aziende cercano di utilizzare le risorse in modo efficiente, ottimizzando i processi di lavoro tramite la tecnologia digitale e riducendo così i costi. Lo stesso vale per l’uso mirato dell’energia.

Qui incide anche il concetto della “circular economy” che incoraggia sempre più produttori e venditori a utilizzare più volte materiali e componenti di prodotti. Anche gli elementi che sono già stati smistati possono essere conseguentemente riciclati e rimessi in circolazione.

Le emissioni di CO2

Nell’ambito della sostenibilità ecologica, l’attenzione è rivolta alla riduzione delle emissioni di CO2. Il criterio della “product/corporate carbon footprint” (impronta di carbonio dell’azienda o del prodotto stesso) è decisivo: lungo tutta la catena di approvvigionamento si determina in modo trasparente il punto esatto in cui le emissioni di gas serra sono causate direttamente o indirettamente. In questo modo, si possono identificare i maggiori driver di CO2 e sviluppare contromisure mirate, come l’uso di materiali regionali a costi reali.

È anche importante usare le tecnologie moderne per monitorare o tracciare la sostenibilità della supply chain in ogni fase. Qui, il sistema dell’“internet of things” (IoT) offre la possibilità di monitoraggio in tempo reale tramite l’uso di dispositivi di misurazione e di telecamere esterne.

La sostenibilità etica

La sostenibilità etica riguarda il rispetto degli standard lavorativi e sociali che, nei principali paesi industrializzati, sono generalmente allineati. Questi standard non sono invece automaticamente garantiti nei vari siti di produzione delle catene di approvvigionamento internazionali. È qui che le aziende della supply chain europee possono intervenire, per esempio offrendo la prospettiva di benefici economici se si migliora la sostenibilità sociale oppure selezionando a monte fornitori che rispettino prerequisiti specifici.

Il database “Standards Map”

E dove si possono trovare le “best practices” di sostenibilità? Il database “Standards Map“, gestito dall’International Trade Center (ITC), offre una panoramica dettagliata: infatti si possono mettere a confronto più di 200 norme e i loro criteri, semplificando così il processo di valutazione dei fornitori o dei prodotti stessi.

Come stanno affrontando il tema della sostenibilità ambientale e sociale le aziende ticinesi che operano a livello internazionale? Ce ne parlerà il 24 marzo 2022 l’azienda Geomagworld SA di Novazzano, nel corso di un Lab congiunto di NZZ Impact e Switzerland Global Enterprise, con la collaborazione della Cc-Ti, di SUPSI e Rytec Circular. Maggiori ragguagli qui: Abbracciare la filosofia dell’economia circolare – Cc-Ti

Abbracciare la filosofia dell’economia circolare

Se ne parlerà il 24 marzo 2022

Oggi più che mai, l’innovazione deve andare di pari passo con due priorità fondamentali: minimizzare l’impatto sull’ambiente e massimizzare i benefici sociali. Il nostro pianeta ha bisogno che tutti noi facciamo uno sforzo consolidato per ridurre l’impatto ambientale dei nostri prodotti. Ma come si può attuare l’economia circolare in un contesto commerciale internazionale? Geomag gioca un ruolo di primo piano nella ricerca di soluzioni a questi problemi, anche in collaborazione con gli istituti locali.

Come? Se ne parlerà il 24 marzo 2022 presso Geomagworld SA a Novazzano: il Lab congiunto di NZZ Connect e Switzerland Global Enterprise, con il supporto della Camera di commercio e dell’industria del Canton Ticino, di SUPSI e Rytec Circular, inizia con un’immersione nel mondo Geomag, dove i partecipanti avranno la possibilità di visitare lo stabilimento e di partecipare ad un workshop di creazione.

Il direttore della Cc-Ti Luca Albertoni darà poi l’avvio alla tornata di discussioni, che prevede un keynote sulla circolarità nel business internazionale e tre workshop paralleli durante i quali i partecipanti potranno sviluppare con esperti soluzioni per implementare più circolarità nel loro business internazionale.

Il programma completo e il formulario d’iscrizione sono disponibili qui: CE2 | Labs (ce2lab.ch)

La Corea del Sud si unisce al RCEP

Il 1° febbraio 2022, il blocco commerciale più grande al mondo è entrato in vigore anche per la Corea del Sud.

Dell’RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) se ne è parlato molto a fine 2020-inizio 2021 dopo che è stato siglato, ma la sua entrata in vigore – il 1° gennaio 2022 – è avvenuta un po’ in sordina.

Questo accordo di partenariato economico globale regionale rappresenta circa il 30% della popolazione mondiale e il 30% del PIL globale e, oltre a mettere il Pacifico al centro del mondo, costituisce oggi il blocco commerciale più grande di sempre.

Vi hanno aderito i dieci Stati membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico ASEAB (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam), l’Australia, la Cina, la Corea del Sud, il Giappone e la Nuova Zelanda.

L’entrata in vigore sottotono è data dallo stato del processo di ratifica: dal 1° gennaio 2022 il RCEP si applica infatti unicamente a Brunei, Cambogia, Laos, Singapore, Thailandia, Vietnam, Australia, Cina, Giappone e Nuova Zelanda. La Corea del Sud si è unita al blocco il 1° febbraio 2022 e gli Stati rimanenti seguiranno 60 giorni dopo aver ratificato l’adesione.

Il RCEP è più che altro un accordo commerciale di prima generazione, in quanto si focalizza sulle concessioni tariffarie (oltre il 90% dei dazi saranno ridotti o eliminati a tappe) e l’armonizzazione delle regole d’origine. Esso copre però anche il commercio di servizi, gli investimenti, la cooperazione tecnica e commerciale, la proprietà intellettuale, la concorrenza e gli appalti pubblici.

È la prima volta che la Cina aderisce ad un patto commerciale multilaterale regionale, prediligendo finora accordi commerciali bilaterali. La particolarità del RCEP è però quella di essere il primo accordo di libero scambio che vede coinvolte Cina, Giappone e Corea del Sud, Paesi che non sempre hanno rapporti distesi. La grande assente è invece l’India, ritiratasi dai negoziati e la cui adesione non solo avrebbe reso ancora più ampia la portata dell’accordo, ma avrebbe anche attenuato il peso della Cina.

Questo accordo di partenariato cambia non solo il commercio con l’Asia, ma influisce anche direttamente sulle catene regionali del valore, con una potenziale riallocazione degli investimenti in risposta ai crescenti costi del lavoro in Cina e all’esigenza di differenziazione, contribuendo più in generale a rafforzare le catene globali del valore.

AVETE DOMANDE? CONTATTATECI!
Servizio commercio internazionale
T +41 91 911 51 35
internazionale@cc-ti.ch

Reshoring, nearshoring, backshoring

…e se la supply chain puntasse invece sulla circolarità?

La ripresa in contemporanea delle attività manifatturiere dopo i vari lockdown, la forte crescita della domanda di prodotti inaccessibili durante le chiusure, i ritardi nelle consegne, il rincaro dei trasporti (leggi: aumento dei costi di noli) così come l’aumento dei prezzi delle materie prime continuano ad esacerbare lo stato di salute delle catene di approvvigionamento. Molte fonti lo affermano: i colli di bottiglia e l’esplosione dei costi dovrebbero perdurare fino a fine 2022. Allo stesso tempo, notizie di reshoring, nearshoring e persino backshoring, in particolare delle attività attualmente basate in Cina, sono all’ordine del giorno. Non tutte però sono strettamente collegate con la pandemia… anche perché le catene di fornitura non possono essere cambiate rapidamente o facilmente: qualificare nuovi fornitori richiede analisi di qualità, accordi sui diritti di proprietà intellettuale, nuove certificazioni e molte altre valutazioni.

Un sondaggio effettuato a febbraio/marzo 2020 dalla società di consulenza strategica e di ricerca Gartner, Inc. su 260 leader della catena di approvvigionamento globale ubicati nei quattro angoli del mondo, ha ad esempio evidenziato che già all’epoca il 33% degli intervistati aveva trasferito la propria attività fuori dal Regno di Mezzo o prevedeva di farlo entro il 2023.
Tali decisioni erano pertanto state prese ben prima pandemia. Un dato confermato anche da Resilinc, che si occupa di supply chain analytics e secondo la quale il 2019 aveva registrato il più alto tasso di interruzioni delle catene di approvvigionamento degli ultimi anni.
Le cause? Chiusura di fabbriche sì, ma anche cambiamenti di proprietà dovuti a fusioni e acquisizioni, eventi meteorologici estremi e disastri naturali (inondazioni, terremoti), cambiamenti normativi e, non meno importante, i conflitti geopolitici. Negli ultimi anni pre-pandemia, quindi, sempre più aziende si sono trovate a far fronte a grossi rischi e interferenze per la propria filiera.

Una ricetta miracolosa per rafforzare le proprie catene di approvvigionamento non esiste. È vero però che gli enti regolatori chiedono però sempre più spesso alle aziende di stabilire catene del valore trasparenti e di effettuare una due diligence sulla condotta sociale e ambientale dei loro fornitori – non che questo influisca sulla capacità di questi ultimi di fornire nei tempi voluti i prodotti o materiali richiesti. Allo stesso tempo, da parte dei consumatori cresce la domanda di prodotti sempre più sostenibili. In generale si constata quindi un aumento delle pressioni su sostenibilità e trasparenza. Ciò crea per le aziende nuove opportunità di mercato e potenziali benefici in materia di reputazione.
Ne conseguono però per loro anche nuovi compiti, quali ripensare in modo strategico a come affrontano, valorizzano, costruiscono e ottimizzano le catene del valore.

La pressione sulla filiera dovuta alla pandemia da un lato, le esigenze degli enti regolatori e le tendenze di consumo dall’altro… perché non prendere due piccioni con una fava e rivoluzionare quindi i propri paradigmi e il proprio modo di intendere e di fare business? E quale paradigma economico integra sostenibilità ambientale (e sociale), all’interno di una nuova strategia aziendale meglio dell’economia circolare?

L’economia circolare è un modello economico che si basa sul riutilizzo, la riparazione, il riciclaggio di prodotti e materiali: allungando il ciclo di vita dei prodotti, essa riduce il volume, la velocità e il chilometraggio dei flussi di materiali, offrendo una soluzione contro il moltiplicarsi dei colli di bottiglia nella catena d’approvvigionamento, risparmi sui costi di approvvigionamento delle risorse e una minore esposizione al rischio legato alla volatilità dei prezzi delle materie prime. In sostanza l’economia circolare risponderebbe quindi a tematiche chiave quali la continuità del business e la gestione dei rischi (ambientali e di fornitura), contribuendo altresì a rafforzare la resilienza della filiera.

Come del caso del reshoring, nearshoring o backshoring, anche l’introduzione della circolarità non è però esente da sfide e sicuramente non è un processo a breve termine, in primis perché si tratta di una trasformazione che non può essere compiuta in modo isolato: riconfigurare le supply chain significa sperimentare nuove forme di collaborazione con tutti gli attori coinvolti – ovunque essi siano ubicati ed attuare meccanismi di reverse logistics (logistica inversa o logistica di ritorno) in grado di recuperare i prodotti a fine vita. Sì, perché i prodotti vanno riprogettati, adottando materiali green e biocompatibili così come logiche di durabilità, pensando quindi fin da subito al loro reimpiego e pertanto con caratteristiche tali da permetterne lo smontaggio o la ristrutturazione.

Il reparto acquisti deve lavorare con la squadra di progettazione per identificare i partner delle materie prime per le innovazioni e le tecnologie più adatte. L’approvvigionamento di materiali e tecnologie per prodotti circolari cambia quindi il processo di selezione dei fornitori influenzandone i criteri di valutazione e il modo in cui ci si relaziona con loro. Gestire e mantenere tali collaborazioni richiede tempo e risorse. La logistica inversa che ha l’impatto più diretto sulle catene di approvvigionamento è invece il ritorno dei prodotti dal consumatore finale al produttore: affinché questo modello possa funzionare, le aziende devono poter aver accesso ai loro prodotti a fine vita.
In alcuni settori la gestione della logistica di ritorno dei prodotti è già una realtà per le aziende, grazie a leggi specifiche. È il caso dei prodotti elettronici di consumo, che nell’Unione europea sono regolati dalla direttiva sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (WEEE), la quale obbliga i fabbricanti ad occuparsene a fine vita. Molte aziende di altri settori hanno invece “risolto” il problema promuovendo modelli alternativi di utilizzo, come lo sharing o il pay-peruse, che consentono loro di rientrare in possesso dei prodotti ad utilizzo terminato.

In conclusione, le attuali problematiche della supply chain rappresentano sì una sfida non indifferente per le aziende, ma anche un’opportunità per ripensare il proprio business e rendere la propria filiera più resiliente ma soprattutto più inclusiva.

Supply chain tra collaborazioni esistenti e diversificazione

Già prima della pandemia, le guerre commerciali in atto stavano mostrando i limiti delle filiere impostate sull’utilizzo di materie prime e semilavorati provenienti esclusivamente da alcuni Paesi, la Cina in particolare, e si iniziavano a intravvedere spostamenti di produzioni a basso costo.

Le interruzioni delle forniture causate dall’emergenza Covid e la ricerca simultanea di soluzioni alternative da parte di tutte le aziende hanno poi generato sui mercati turbolenze che non si vedevano da decenni, mettendo ulteriormente in risalto non solo la grande fragilità delle supply chain ma anche le debolezze del modello just in time (metodo Toyota), volto all’abbattimento dei costi di stoccaggio e alla riduzione del rischio di obsolescenza dei prodotti.

Oggi le supply chain stanno guardando sempre più oltre la Cina. Si parla di tendenze al reshoring e nearshoring: la prima soluzione potrebbe funzionare per i prodotti con un processo di produzione altamente automatizzato, mentre la seconda può portare a tempi di consegna più brevi e a costi di distribuzione inferiori rispetto alle spedizioni dall’Asia.
Vi sono però anche altre opzioni, forse più realistiche: quella del mantenimento dei fornitori attuali rivalutandone la collaborazione e, al suo opposto, quella della diversificazione dei fornitori, postando alcune linee di prodotti dalla Cina verso altri Paesi asiatici. Nel primo caso, per una migliore gestione dell’approvvigionamento, può essere vantaggioso stringere relazioni più strette con i propri fornitori, rivedendo i termini della cooperazione, rinegoziando i minimi oppure valutando forme più costruttive di cooperazione, favorendo ad esempio l’innovazione e collaborando allo sviluppo di nuovi prodotti. Tutto ciò richiede un cambiamento di mentalità, stabilire delle priorità, ma soprattutto approfondire la conoscenza reciproca nonché migliorare e incrementare la comunicazione. In sostanza adottare un nuovo modus operandi.

Nel secondo caso, complici sia la guerra commerciale con gli Stati Uniti, sia il piano “Made in China 2025”, ovvero le ambizioni e gli investimenti della “fabbrica del mondo” per diventare una potenza hi-tech, molte aziende stanno affrontando le sfide legate alla disponibilità di materie prime e alla logistica adottando l’approccio “China+1” di diversificazione della loro filiera produttiva istituendo ad esempio canali paralleli in altre azioni asiatiche. Se si pensa che entro il 2030 due terzi della classe media mondiale sarà basata in Asia, questo da solo rimette in discussione il concetto a lungo sostenuto che il consumo avviene tipicamente in Occidente e la produzione in Oriente.
Restare in Asia con la produzione, ovvero vicino al più grande bacino di consumatori, non appare quindi del tutto fuori luogo, purché vi sia però un’adeguata diversificazione geografica dei fornitori.

Grazie a politiche a favore dello sviluppo del settore manifatturiero, incentivi fiscali per investitori esteri e investimenti in infrastrutture, diversi mercati emergenti asiatici stanno cogliendo questa finestra di opportunità e, complice anche una specializzazione settoriale che si sta venendo a creare, presentano condizioni vantaggiose per gli investitori. È il caso di Vietnam e India, ad esempio. Nel sud-est asiatico, il Vietnam è una delle destinazioni più appetibili anche per le stesse aziende cinesi e questo già prima della pandemia. Certo, in ambito infrastrutturale, il Paese è molto indietro rispetto alla Cina, ma il piano generale del Ministero dei trasporti per il 2030 relativo alle infrastrutture è ambizioso. Il Paese dispone inoltre di manodopera qualificata nei settori a maggior valore aggiunto ed è in grado di assorbire parte della produzione cinese in settori mirati, quali ad esempio l’elettronica o il tessile. Le riforme legislative attuate consentono agli stranieri di possedere proprietà e partecipazioni di maggioranza in aziende vietnamite.

Le aziende europee stanno già guardando al Paese con un occhio di riguardo, in gran parte grazie all’accordo di libero scambio entrato in vigore il 1° agosto 2020 (Svizzera/AELS sono invece ancora in fase negoziale) e alla partecipazione del Paese al Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo economicocommerciale tra i 10 Paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, firmato il 15 novembre 2020 e finalizzato a superare le barriere commerciali in un’area in cui vive un terzo della popolazione mondiale e che rappresenta, da sola, il 30% del Pil globale. Spostandoci a ovest, nel sud dell’Asia è invece l’India a rappresentare un’opportunità per molte imprese grazie alla vasta dimensione del proprio mercato domestico, un costo del lavoro contenuto e un governo Modi che ha recentemente aperto la possibilità di investimenti diretti esteri al 100% in molti settori e che punta sullo sviluppo infrastrutturale.

Anche se i servizi continuano a ricoprire un ruolo primario nell’economia indiana e l’industria manifatturiera non è ancora riuscita ad esprimere il proprio potenziale, vi sono opportunità nell’elettronica, nella chimica e nella farmaceutica. Rispetto al Vietnam, fortemente dipendente dalla Cina in questo ambito, l’India ha inoltre una forte capacità di produzione di materie prime per varie industrie. Ad oggi è difficile capire come si ridisegneranno effettivamente le supply chain.

Le aziende attive a livello internazionale potrebbero però essere chiamate a compiere una scelta tra rafforzare le collaborazioni esistenti e diversificare.

Non ingabbiamo l’economia

Qualche tempo fa è stato presentato un atto parlamentare a livello federale che si prefigge di proteggere l’economia svizzera con controlli degli investimenti. Il Consiglio federale, lo scorso 25 agosto 2021, ha definito i parametri che potrebbero essere utili per un controllo degli investimenti esteri, confermando però la sua già nota riluttanza a introdurre regole particolari. Entro fine marzo 2022 verrà posto in consultazione un progetto. Ma perché il Consiglio federale è contrario a una regolamentazione troppo restrittiva degli investimenti esteri?

Il motivo è presto detto. Una politica aperta nei confronti degli investimenti esteri è essenziale per la nostra economia e, di riflesso, per tutta la popolazione elvetica. Ciò permette infatti l’afflusso di capitali e competenze che permettono alle aziende di rimanere competitive, creare valore e mantenere i posti di lavoro. Occorre quindi grande prudenza prima di introdurre limiti troppo restrittivi, in un quadro legislativo già abbastanza severo. L’obiettivo dei controlli deve rimanere limitato a rischi e minacce per l’ordine pubblico o la sicurezza derivanti dall’acquisizione di imprese svizzere da parte di investitori esteri e particolare attenzione va a rilevamenti di aziende da parte di enti statali o parastatali esteri, che potrebbero anche portare a distorsioni della concorrenza.
Il Consiglio federale probabilmente si muoverà nel senso di prevedere una notifica e un’autorizzazione per le acquisizioni di imprese svizzere da parte di enti statali o parastatali esteri, limitando
invece questa procedura solo ad alcuni settori in caso di acquirenti privati. La SECO sarà l’autorità designata a gestire queste procedure.

Qualche anno fa avevamo già evidenziato uno studio di Avenir-Suisse (https://bit.ly/2YJjfps), che rilevava come le imprese elvetiche non dovessero essere ulteriormente protette da acquisizioni da parte di ditte estere. Anche un chiaro approfondimento di economiesuisse fornisce elementi molto utili per capire la tematica in tutte le sue sfaccettature (https://bit.ly/3DDgOE6). È chiaro che la discussione politica verta soprattutto sulla fame di acquisizione cinese, che preoccupa non poco.
A volte anche a ragione. Un “player” dai mezzi quasi illimitati può effettivamente distorcere la concorrenza oppure accaparrarsi di aziende che sono strategiche per il Paese perché fornitrici di servizi molto particolari e non sostituibili. Pensiamo alla delicatezza della questione della sicurezza informatica e di chi fornisce servizi di questo tipo.

Non va però dimenticato che vi sono già parecchi strumenti legali utilizzabili, come il diritto di espropriazione dello Stato per ragioni di sicurezza nazionale, oppure leggi puntuali nel settore immobiliare, borsistico e della concorrenza, con il controllo delle fusioni nel contesto della legge federale sui cartelli. La Svizzera in taluni ambiti è già più restrittiva di altri Paesi europei come la Germania, la Svezia e la Gran Bretagna (malgrado la Brexit).
Inoltre, va rilevato che la stragrande maggioranza degli investimenti in Svizzera ha origine nel mondo occidentale, ossia Stati Uniti, Canada e Unione Europea, tanto che circa l’80% dei capitali esteri in Svizzera ha questa provenienza. Senza dimenticare che gli investimenti diretti esteri garantiscono quasi mezzo milione di posti di lavoro in Svizzera.

Nello stesso contesto non va dimenticato il movimento inverso degli investimenti, cioè dalla Svizzera verso l’estero, perché la Svizzera esporta non soltanto beni industriali e servizi, ma anche importanti quantità di capitali, soprattutto sotto forma di investimenti diretti. Si tratta di decine di miliardi investiti da grandi aziende ma anche da molte PMI, che complessivamente occupano quasi 2 milioni di persone all’estero, con importanti ricadute in termini di crescita delle nostre aziende site in territorio elvetico e quindi di grande beneficio per la Svizzera.

Il mondo cambia ed è giusto riflettere sull’adattamento degli strumenti legali oggi esistenti. Nello specifico sarebbe però un errore fatale adottare un regime troppo rigido che ostacolerebbe i flussi di investimenti verso la Svizzera, perché questo, nel gioco della reciprocità, frenerebbe di riflesso anche la possibilità di investimenti elvetici all’estero. Inoltre, vi è un elemento a cui occorre sempre prestare attenzione, cioè che è ormai difficile trovare aziende puramente svizzere al 100%, malgrado l’immagine, la qualità e l’affidabilità siano ancora molto di stampo nazionale.
Alcuni marchi storici come Ricola, Läderach e Victorinox rimangono saldamente in mano svizzera. Pochi sanno però che la mitica Ovomaltina è in mani britanniche, l’altrettanto mitico Toblerone appartiene a un’azienda americana, mentre la Feldschlösschen è danese e la Valser è di proprietà della Coca-Cola. Senza dimenticare un pezzo di cultura svizzera come l’Aromat che è di proprietà olandese. Eppure, il carattere elvetico non è sparito, perché chi investe in questi prodotti investe in un pacchetto, fatto di qualità riconosciuta in tutto il mondo, di un modo di lavorare preciso e affidabile, per cui non vi è alcun interesse a stravolgere queste caratteristiche.

Quindi nuove regole vanno studiate, ma sempre con il tipico pragmatismo elvetico, anche perché la complessità delle strutture economiche e finanziarie oggi rende sempre più difficile stabilire a tavolino in maniera esatta certe situazioni di proprietà delle aziende e quindi l’esatta nazione di origine di determinati investimenti. Occorrerà come sempre equilibrio per trovare una via efficace
che tuteli gli interessi superiori senza ingabbiare inutilmente un’economia che deve giocoforza essere aperta per sopravvivere.