Esportazione temporanea: l’uso del Carnet ATA (parte 1)

Il Carnet ATA è un documento doganale ufficiale con validità massima di un anno utilizzato per l’esportazione temporanea di merci. Ciò a determinate condizioni e per talune merci. Vediamo nel dettaglio quali.

Il Carnet ATA (acronimo delle parole francesi e inglesi “Admission temporare / Temporary Admission”) è un documento doganale internazionale che consente l’introduzione temporanea di merci in determinati Paesi senza dover pagare dazi e tasse, semplificando così il passaggio alla frontiera e riducendo i tempi di sdoganamento.

Il documento può essere richiesto sia da persone giuridiche sia da persone fisiche (privati) e utilizzato per ripetuti passaggi del confine con i Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione relativa all’ammissione temporanea (la cosiddetta “Convenzione ATA”, firmata a Istanbul nel 1990):

Stato: ottobre 2022. L’elenco aggiornato è disponibile in tempo reale su www.ataswiss.ch/AtaCountries.aspx

Se un Paese non ha firmato la Convenzione ATA non è possibile utilizzare il Carnet, ma è necessario effettuare una pratica ordinaria di temporanea esportazione.

Le categorie di merci per le quali è consentito l’uso del Carnet ATA sono:

  • merci destinate ad essere presentate o utilizzate durante mostre/esposizioni, fiere, congressi
  • materiale professionale
  • campioni commerciali
  • altro.

Attenzione: alcuni Paesi accettano il Carnet ATA solo per talune categorie di merci. Ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti hanno firmato solo l’accordo sui beni espositivi, mentre a settembre 2022 il Qatar ha approvato l’uso del Carnet ATA per l’importazione temporanea di apparecchi radiotelevisivi per la sola durata della Coppa del Mondo FIFA 2022. Il sito web di ATA Swiss riporta le informazioni rilevanti per i vari Paesi.

Merci destinate a mostre/esposizioni, fiere, congressi

Rientrano in questa categoria le merci destinate ad essere presentate o esposte, quali ad esempio quadri, opere d’arte o altro materiale espositivo così come materiale pubblicitario e dimostrativo utilizzato per la pubblicità delle merci esposte (es. registrazioni, film, diapositive e le apparecchiature necessarie per il loro utilizzo).

Generalmente non è consentita la vendita di merce esportata temporaneamente con il Carnet ATA per esposizione o presentazione: essa può essere venduta nella sua totalità o in parte solo in via eccezionale. In questo caso la merce venduta va fatturata immediatamente e bisogna avviare una procedura di importazione definitiva. Questa procedura si esegue in dogana durante la riesportazione della merce rimanente (oppure unicamente con il Carnet, se è stata venduta la totalità della merce), presentando alla dogana estera la fattura di vendita e il Carnet. La dogana estera provvederà al rilascio della bolla doganale con l’indicazione del numero del Carnet, che a sua volta dovrà essere timbrato con l’indicazione della vendita e il numero della relativa bolla doganale. Per quanto riguarda la dogana svizzera, secondo disposizioni valide dal 1° gennaio 2022, per poter regolarizzare le vendite all’estero su Carnet ATA bisognerà presentare un’istanza scritta alla direzione delle dogane del proprio circondario.

Materiale professionale

Con il termine di “materiale professionale” si intende tutto ciò che serve per esercitare la propria professione, quale:

  • il materiale utilizzato dai rappresentanti della stampa, della radio e della televisione nonché da compagnie cinematografiche per realizzare servizi giornalistici, registrazioni, trasmissioni, film; (cfr. Appendice I e Appendice II della Convenzione ATA)
  • macchinari e attrezzature utilizzati per l’esercizio della propria professione (come utensili, trasformatori, cavi di misurazione, ecc.) (cfr. Appendice III della Convenzione ATA).

L’utilizzo del Carnet ATA è escluso nel caso di materiale utilizzato per:

  • la fabbricazione industriale
  • l’imballaggio delle merci
  • lo sfruttamento delle risorse minerarie (nella misura in cui non si tratta di utensili manuali)
  • la costruzione, la riparazione o la manutenzione di edifici (anche ponteggi)
  • lavori di sterro o simili.

Campioni commerciali

Trattasi di campioni di merci destinati unicamente alla presentazione o all’ordinazione (orologi, gioielli, tessuti, vestiti, scarpe, …).

Altro

Il Carnet ATA può essere richiesto anche per partecipare a gare o manifestazione sportive internazionali con cavalli, moto o vetture da corsa non targate, barche, ecc.

Uso non consentito del Carnet ATA

Il Carnet ATA non può essere utilizzato per:

  • il noleggio e il leasing
  • la lavorazione o la riparazione della merce esportata
  • materiali di consumo (opuscoli, gadget, ma anche viti, rotoli di carta) (*)
  • merci deperibili (es. prodotti alimentari). (*)

(*) prodotti destinati ad essere parzialmente o totalmente utilizzati.

Link utili

Prodotti difettosi nell’UE: per la responsabilità basta il marchio

Chi appone il proprio marchio su un prodotto, anche se non lo fabbrica effettivamente, è considerato responsabile di eventuali danni da esso causato. Lo afferma la Corte di giustizia europea in una sentenza del 7 luglio 2022.

La sentenza della Corte di giustizia europea trae origine da una causa (C-264/21) intentata in Finlandia da una compagnia di assicurazione nei confronti di un’azienda produttrice di macchine da caffè in relazione al risarcimento di danni causati da un incendio provocato da una macchina da caffè difettosa fabbricata da una filiale della stessa in un altro Paese europeo. Nella fattispecie, una macchina da caffè difettosa prodotta in Romania dall’azienda italiana Saeco, filiale dell’azienda olandese Koninklijke Philips, ha causato un incendio. La macchina da caffè e la sua confezione recavano due marchi, Saeco e Philips, entrambi registrati da Koninklijke Philips. La marcatura CE apposta sulla macchina da caffè recava il marchio Saeco, un indirizzo italiano e la dicitura “Made in Romania”. Dopo aver rimborsato al consumatore i costi dei danni causati dall’incendio, la compagnia assicurativa Fennia ha intentato un’azione legale contro il proprietario dei marchi apposti sulla macchina, Koninklijke Philips, allo scopo di ottenere il risarcimento per i danni generati dal prodotto.

Secondo la Corte di giustizia, ai fini della protezione dei consumatori, la nozione di “produttore” di cui all’articolo 3, paragrafo 1 della direttiva 85/374/CEE del Consiglio del 25 luglio 1985 in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi deve essere interpretata in modo ampio e “non richiede che la persona che ha apposto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto, o che ha autorizzato tale apposizione, si presenti anche come il produttore dello stesso in qualsiasi altro modo”. Secondo la formulazione dell’art. 3 par. 1 quindi chi appone il suo nome, marchio o altro segno distintivo è considerato alla stessa stregua del fabbricante effettivo (“vero produttore”).

La Corte di giustizia ribadisce inoltre l’ampia definizione di produttore a protezione dei consumatori: i vari soggetti responsabili in quanto produttori sono sullo stesso piano (oltre al produttore vero e proprio e al quasi-produttore che ha apposto il suo marchio o segno distintivo come da art. 3 par. 1, figura responsabile allo stesso titolo anche l’importatore, cfr. art. 3 par. 2) e rispondono come debitori in solido. Il consumatore ha quindi la possibilità di scegliere liberamente a chi chiedere il risarcimento integrale del danno.

Mercati sempre più “ESG compliant”: la sostenibilità dei fornitori

L’acronimo ESG sta per Environment, Social, Governance e indica i criteri di valutazione dell’impegno di un’azienda in ambito ambientale e sociale nonché l’accuratezza e trasparenza del suo modo di agire.

I criteri ESG sono sempre più importanti: da un lato, la competitività di un’azienda dipende sempre più dalla sua capacità di garantire pratiche sostenibili lungo la catena del valore, dall’altro i consumatori sono sempre più consapevoli delle scelte che fanno con i loro acquisti e sollevano domande sulla loro provenienza e sostenibilità. Allo stesso tempo, quando cercano nuove opportunità di investimento, anche gli investitori sono sempre più orientati sulla sostenibilità e lo stesso si può affermare per le aziende partner (fornitori, clienti).

Negli ultimi due anni, le catene di approvvigionamento sono state sotto i riflettori internazionali, sia per la loro resilienza (leggi: interruzioni di fornitura), sia per il loro impatto (virtuoso o meno) sulla società. Ne sono un esempio le catene di fornitura europee, toccate dalla crisi energetica e dalla penuria di materie prime, ora confrontate con due nuove proposte legislative: la proposta di direttiva, presentata a febbraio, sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e la legge sulle materie prime critiche lanciata lo scorso 14 settembre con l’obiettivo di contrastare la dipendenza da Paesi come la Cina e di rendere più sicuro l’approvvigionamento.

Le materie prime critiche sono fattori chiave per preservare la competitività globale dei settori economici più strategici dell’Unione europea (UE) e per la transizione verde e digitale, nonché per raggiungere l’obiettivo prefissato di neutralità climatica entro il 2050. Se in Europa esistono innumerevoli riserve di materie prime non ancora utilizzate, l’accesso alle materie prime critiche è di fondamentale importanza. Molte di queste vengono infatti estratte principalmente in Cina (litio, terre rare,…) e per ridurre la dipendenza dal Paese di Mezzo, l’UE intende ora implementare strategie circolari attraverso misure di riciclo e riutilizzo delle materie prime critiche e ricorrere a fornitori alternativi, sfruttando nuove miniere sul suolo europeo e negoziando con Paesi partner (in tal senso, accordi con Cile, Messico e Nuova Zelanda saranno presto sottoposti a ratifica e negoziati con Australia e India verranno portati avanti).

Fornitori: tra diversificazione e due diligence

Se da un lato questa diversificazione riduce il rischio di dipendenza, dall’altro porta con sé nuovi compiti, in primis la selezione e la qualifica dei fornitori. Ciò è particolarmente critico nell’ambito minerario. I progetti minerari sono infatti associati a diversi rischi quali tensioni geopolitiche, conflitti armati, violazioni dei diritti umani, corruzione, emissioni, stress idrico, impatto sulla biodiversità, ecc. In questo contesto, un aspetto sempre più importante è quello della valutazione della responsabilità sociale d’impresa secondo i criteri ESG. Ciò comporta una verifica dell’adozione, da parte delle aziende, di pratiche di lavoro eque ed etiche, dell’implementazione di processi aziendali responsabili, ovvero volti a prevenire e controllare gli illeciti amministrativi o penali nonché dell’attuazione di pratiche ambientali sostenibili. In Europa, un contributo importante in tal senso lo potrà dare la direttiva sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, la cui proposta è stata presentata dalla Commissione europea a febbraio, anche se nazioni come Francia, Olanda, Norvegia e Germania, hanno già adottato leggi che obbligano le grandi aziende a condurre la due diligence nelle loro catene di approvvigionamento. Laddove però questo obbligo tocca direttamente le aziende di grandi dimensioni, ecco che la normativa prevede che queste tengano conto anche delle pratiche sia dei fornitori diretti sia dei fornitori indiretti, con la conseguenza che questi si vedranno richiedere informazioni riguardanti i processi di produzione e fabbricazione e il rispetto di requisiti in materia di responsabilità sociale d’impresa. Questo articolo è pertanto volto a sensibilizzare il lettore – in particolare se questi è un dirigente d’impresa o un supply chain manager – affinché la sua azienda applichi procedure di diligenza e nella fattispecie instauri dei processi atti a identificare, prevenire o mitigare i rischi di attività che causano violenza e abusi dei diritti umani e/o impatti negativi sull’ambiente e, in caso estremo, di porvi rimedio. Alla valutazione interna dei rischi deve seguire una valutazione della propria catena di fornitura.

Un processo di due diligence efficace

Come procedere? Senza entrare nello specifico, occorrerà innanzitutto rivedere le policy interne assicurandosi che il processo di selezione e di identificazione dei fornitori sia conforme agli obiettivi ambientali, etici ed operativi della propria azienda. A tal proposito è sicuramente utile creare una checklist con i criteri (proprietà, solidità finanziaria, sistemi di gestione ambientale e della qualità,…) e i rischi (reputazione, operatività, cybersecurity, ESG e nello specifico la responsabilità sociale d’impresa, e politica di approvvigionamento etico,…) da valutare nonché una matrice di ponderazione dei rischi (probabilità vs. gravità del rischio). Prima di concordare una transazione o di siglare un contratto, tutti i fornitori dovrebbero essere sottoposti ad una due diligence. Sebbene un certo grado di due diligence sia appropriato per tutti i livelli della supply chain, l’ampiezza e la profondità delle informazioni dovrebbero essere determinate dalla criticità del materiale, del prodotto o del servizio fornito dal fornitore nonché dal livello di rischio associato all’attività.

La direzione è ormai tracciata. Oltre all’UE, principale mercato di approvvigionamento per le aziende svizzere, è la stessa società civile a richiedere di implementare sistemi e processi che dimostrino la propria diligenza nell’intera catena del valore. Alle aziende il compito di rispondere a tali richieste.

Norvegia: nuova legge sulla supply chain

Dallo scorso 1° luglio la Norvegia applica la cosiddetta legge sulla trasparenza che, conformemente alle linee guida dell’OCSE per le imprese multinazionali, obbliga le grandi aziende a condurre la due diligence nelle loro catene di approvvigionamento.

La regolamentazione della due diligence (dovuta diligenza) si fa sempre più complessa e diffusa e la nuova legge norvegese sulla trasparenza (“Åpenhetsloven”) è un ulteriore esempio di quanto avviene sul continente europeo, a livello comunitario (cfr. articolo “Due diligence dei fornitori: è d’obbligo in Germania” dell’11 agosto) e non.

Dal 1° luglio 2022, l’Åpenhetsloven obbliga le grandi aziende norvegesi e le grandi aziende estere tassate in Norvegia al rispetto dei diritti umani fondamentali e di condizioni di lavoro dignitose in relazione alla produzione di beni e alla fornitura di servizi, garantendo altresì al pubblico l’accesso alle informazioni su come queste imprese affrontano gli impatti negativi che si sono verificati.

Quali aziende sono soggette alla nuova normativa?

La legge tocca le aziende con sede in Norvegia che superano la soglia di due delle tre condizioni seguenti:

  • fatturato annuo: 70 milioni di NOK (ca. 6.8 mio. di franchi)
  • bilancio: 35 milioni di NOK (ca. 3.4 mio. di franchi)
  • numero medio di dipendenti: 50 ETP (equivalenti a tempo pieno).

La nuova normativa prevede che tali aziende tengano conto delle pratiche in materia di diritti umani e di lavoro equo non solo dei loro fornitori diretti, ma anche di tutti quei fornitori indiretti e subappaltatori che costituiscono l’intera catena del valore, dallo stadio di materia prima al prodotto finito (cfr. definizione di “supply chain” formulata nella sezione 3 della legge), nello specifico adottando misure per identificare le potenziali ed effettive violazioni nella loro base di approvvigionamento e implementando meccanismi per interrompere, prevenire o mitigare tali violazioni laddove queste si verifichino.

Supply chain: l’Europa cerca nuove vie e fornitori

La pandemia e la guerra in Ucraina costringono l’Europa a cambiare le rotte di trasporto delle merci e delle materie prime, e a trovare fornitori alternativi.

La filiale in Turchia è operativa: con questa notizia la società di trasporto ferroviario InterRail Group ha attirato l’attenzione del settore ad agosto. Attraverso la nuova sede turca, l’azienda con sede a San Gallo intende rafforzare le rotte commerciali non solo da e verso la Cina e l’Asia centrale, ma anche da e verso l’Europa occidentale e il Nordafrica.

Tale annuncio va visto nel contesto di tre temi di stretta attualità: se da un lato negli ultimi mesi la Cina ha allentato le maglie sulle quarantene nelle città portuali, dall’altro ci vorrà ancora del tempo per normalizzare la situazione dei container marittimi; la guerra in Ucraina acuisce i problemi di approvvigionamento; le sanzioni contro la Russia, oltre a causare una carenza di materie prime, genera problemi di connettività tra l’Asia, Cina in particolare, e l’Europa.

Quest’ultimo aspetto è più importante di quanto sembri: Ucraina e Russia sono infatti situate lungo una delle più antiche rotte commerciali del mondo, una rotta che la Cina sta rilanciando sotto il nome di Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI) e che comprende anche il Nuovo Ponte Terrestre Eurasiatico (New Eurasian Land Bridge, NELB), una rete ferroviaria e logistica che collega la Cina all’Europa passando per il Kazakistan, la Russia e la Bielorussia. Secondo le stime della società americana di consulenza gestionale Bain & Company, nel 2021 i treni hanno movimentato circa 1,5 milioni di container tra Cina ed Europa per un valore di quasi 75 miliardi di dollari, pari a circa il 4% del commercio totale tra le parti. Questa rotta però è ora impraticabile.

Il Corridoio di Mezzo

La Cina non è solo la sede produttiva più grande al mondo e l’hub di trasporto marittimo più importante, ma controlla anche quasi l’intera catena del valore delle terre rare. Il Paese è inoltre un centro globale per la lavorazione di materie prime minerali e metalliche critiche. Mantenere un collegamento funzionante con l’Europa è pertanto di primaria importanza e il trasporto terrestre di merci – ferroviario in particolare – occupa una nicchia strategica in quanto via di mezzo tra il trasporto aereo, più caro, e il trasporto marittimo, più lento.

L’impraticabilità del NELB ha fatto emergere il Corridoio di trasporto internazionale transcaspico (Trans-Caspian International Transport Route, TITR), noto anche come Corridoio di Mezzo. Esso collega in via multimodale (treno, camion, nave) il sud-est asiatico e la Cina con l’Europa passando per il Kazakistan, il Mar Caspio, l’Azerbaigian, la Georgia e, da qui, la Turchia o il Mar Nero.

L’emergenza di questo asse est-ovest comincia a farsi notare. Ne è un esempio Maersk, compagnia danese specializzata nel trasporto di container, che già dalla primavera opera attraverso il Corridoio di Mezzo tramite soluzione bimodale treno-nave via Mar Nero trasportando principalmente merci per l’industria automobilistica, elettrodomestici e lifestyle. I tempi di trasporto sono di circa 40 giorni a fronte di 13-15 giorni per il trasporto via NELB o 8 settimane via mare. Anche l’apertura della filiale turca da parte di InterRail si inserisce in questo contesto.

Fornitori alternativi cercasi

Se la posizione dell’Europa nei confronti della Russia è chiara, è invece ambivalente per quanto riguarda la Cina. Secondo la piattaforma digitale francese di analisi dei trasporti Upply, attualmente le aziende europee operano in due modi. Parte delle aziende sta riorganizzando le proprie catene di approvvigionamento rimanendo però incentrata sul Regno di Mezzo e cercando quindi nuove vie di trasporto: in considerazione delle tensioni politiche internazionali e dell’aumento dei prezzi dell’energia, la Cina rimane pur sempre un mercato attrattivo, consente di contenere i rischi e garantisce una certa stabilità. D’altro canto, il perdurare della politica zero-Covid del Dragone e le divergenze politiche con l’Occidente, spinge invece altre aziende a cercare alternative nel Sud-Est asiatico per l’approvvigionamento di prodotti. Tale diversificazione avviene per lo più in settori con catene di approvvigionamento meno complesse e merce a basso valore aggiunto.

Parlando invece di materie prime, secondo un recente studio dell’Istituto di ricerca economica tedesco Ifo (nello specifico sulla dipendenza della Germania dalle importazioni di queste), è necessario intervenire per creare catene di approvvigionamento a prova di crisi soprattutto per nove cosiddetti minerali critici: cobalto, boro, silicio, grafite, magnesio, litio, niobio, terre rare e titanio. Tali minerali sono fondamentali per numerose attività industriali e particolarmente importanti per la transizione ecologica: essi vengono infatti utilizzati per esempio nelle turbine eoliche, nei pannelli fotovoltaici e nelle batterie. Queste tecnologie richiedono una grande quantità di minerali e metalli, con una domanda prevista in continua crescita nei prossimi anni. Secondo l’Ifo, Thailandia e Vietnam potrebbero produrre sempre più terre rare per l’Europa, mentre per quanto riguarda le altre materie prime critiche, oltre ad Argentina, Brasile e Stati Uniti si potrebbero prendere in considerazione anche Indonesia e India.

In Europa, Svizzera inclusa, si cerca la via della diversificazione delle fonti di approvvigionamento espandendo la cooperazione con altri Stati: la resilienza delle catene di fornitura di materie prime costituisce infatti una priorità ed è attuata attraverso non solo la diversificazione delle catene del valore, ma anche con l’aumento delle capacità estrattive nel continente ed importanti investimenti nell’economia circolare.

Direttive europee RoHS e RAEE: cosa bisogna sapere?

Le direttive RoHS II e RAEE della Commissione europea limitano l’uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche per proteggere la salute dei consumatori e l’ambiente e promuovono il recupero e lo smaltimento ecocompatibile dei rifiuti di tali apparecchiature. Le aziende estere che operano nell’UE sono tenute a rispettarle.

Nello specifico, la direttiva RoHS II (dall’inglese Restriction of Hazardous Substances Directive, 2011/65/UE) interviene nelle fasi di progettazione e produzione di vari tipi di apparecchiature elettriche ed elettroniche limitando l’uso di determinate sostanze pericolose quali il piombo, il mercurio, il cadmio, il cromo esavalente, i bifenili polibromurati (PBB) e l’etere di difenile polibromurato (PBDE) allo scopo di proteggere la salute dei consumatori e l’ambiente.

La direttiva RAEE (o WEEE dall’inglese Waste Electrical and Electronic Equipment, 2012/19/UE) regolamenta invece la gestione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche giunte in fin di vita (e considerati quindi come rifiuti), promuovendone il recupero e lo smaltimento ecocompatibile.

Chi fabbrica, distribuisce o vende apparecchiature elettriche ed elettroniche è tenuto al rispetto di queste normative. Quali apparecchiature sono effettivamente toccate da queste direttive? A quali obblighi devono adempiere produttori e importatori che intendono immettere sul mercato europeo tali apparecchiature?

Per rispondere a queste domande Switzerland Global Enterprise, l’organizzazione ufficiale svizzera per la promozione delle esportazioni e della piazza economica, ha stilato due pratiche factsheet (ad oggi disponibili solo in inglese, francese e tedesco).

Maggiori informazioni e download delle schede RoHS e RAEE: Direttive UE ROHS e WEEE: Cosa devono sapere le aziende svizzere | S-GE

Telelavoro dei frontalieri: accordo amichevole tra Svizzera e Italia

In una dichiarazione congiunta di Italia e Svizzera del 22 luglio 2022, le autorità competenti dei due Paesi hanno convenuto che l’accordo amichevole del 18/19 giugno 2020 per evitare la doppia imposizione del reddito da lavoro dipendente percepito all’estero continuerà ad applicarsi al telelavoro.

Le autorità competenti italiana e svizzera si manterranno in stretto contatto e torneranno a consultarsi entro la fine del mese di ottobre 2022.

La dichiarazione congiunta di Italia e Svizzera in merito all’accordo amichevole del 18-19 giugno 2020 può essere consultata qui: Convenzioni per evitare le doppie imposizioni Svizzera – Italia | AFC (admin.ch) – pto. III Accordo amichevole.

Algoritmi avanzati per migliorare le supply chain

Se ne parla tanto, ma in realtà sono ancora poco utilizzate dalle aziende: parliamo dell’intelligenza artificiale e della blockchain. Eppure sono proprio queste tecnologie a migliorare nettamente la pianificazione e la gestione delle crisi nelle catene di approvvigionamento.

La pandemia e la guerra in Ucraina hanno dimostrato la rapidità con cui le supply chain globalizzate subiscono interruzioni e rotture, con conseguenze quali scaffali vuoti nei negozi da un lato e magazzini sovraccarichi nelle aziende dall’altro. La diversificazione dei fornitori aiuta, ma a lungo termine è soprattutto la trasparenza a fare la differenza: le catene di approvvigionamento sono sempre più collegate in rete e, per gestire correttamente i flussi di merci, è necessario essere in grado di controllarle in qualsisi momento e in ogni fase.

Questo obiettivo può essere raggiunto solo attraverso una digitalizzazione coerente. Due tecnologie, in particolare, sono molto utili per la filiera: l’intelligenza artificiale (IA) e la blockchain.

Quando si parla di IA, è quasi immediato pensare agli androidi, mentre in realtà si tratta di un insieme di software basati su algoritmi che replicano il ragionamento umano e sono in grado di analizzare enormi quantità di dati in tempi brevi, di migliorarsi continuamente, di prendere decisioni e in sostanza di risolvere problemi. Nell’ambito della supply chain, l’IA può analizzarne la situazione sulla base dei dati ricevuti dal suo monitoraggio digitale, fornendo quindi suggerimenti per migliorarne la logistica, facendo previsioni e creando persino piani alternativi.

Le supply chain stanno diventando sempre più complesse

La logistica può essere molto delicata. Prendiamo l’esempio degli alimenti o dei prodotti sostenibili per la cura della persona: in entrambi i casi, la base è costituita da materie prime prodotte solo a intermittenza e spesso deperibili. A complicare ulteriormente le cose vi sono le richieste dei clienti, in rapida evoluzione e personalizzate, per non parlare degli effetti a lungo termine della pandemia e della guerra in Ucraina. Tutto ciò rende le reti della supply chain estremamente complesse. Una singola persona può difficilmente tenerle sotto controllo ed anche i pianificatori logistici più esperti stanno raggiungendo i limiti delle loro capacità perché la quantità di dati generata dalle supply chain è enorme. Così, fave di cacao, carne cruda, frutta, piante medicinali, miele, latte, oli essenziali e simili rischiano di rimanere a lungo nei container e di marcire.

Attraverso gli algoritmi di intelligenza artificiale è invece possibile monitorare l’intera attività: essi riescono infatti a coordinare meglio e più velocemente i singoli processi all’interno delle catene di approvvigionamento, stimano l’evoluzione delle attività e pianificano la produzione di materie prime verificando nel contempo le scorte in magazzino e i percorsi e i tempi di consegna. Gli algoritmi tengono anche conto della durata di conservazione della merce nonché della quantità necessaria per la realizzazione del prodotto finale, rilevano inoltre molto rapidamente possibili colli di bottiglia e possono anticipare zone di interruzione, definendo punti di trasbordo meno congestionati e calcolando percorsi alternativi. Ciò consente da un lato di risparmiare tempo e dall’altro di evitare che le delicate merci trasportate deperiscano.

Facilitare il processo decisionale

È proprio in occasione di ingorghi imprevisti e/o di cambiamenti improvvisi dei tempi di attesa, che l’elaborazione rapida e fondata di scenari alternativi si rivela importante. Più dati vengono presi in considerazione, migliori sono le soluzioni – e solo l’IA può elaborare big data ad alta velocità.

Numerosi altri fattori possono inoltre entrare in gioco, primi fra tutti il rapido aumento delle richieste dei clienti, le loro nuove preferenze in merito ai prodotti e quindi il loro cambiamento nel comportamento d’acquisto. Grazie all’IA tutte queste condizioni possono essere prese in considerazione in tempo utile per adeguare tempestivamente l’approvvigionamento delle materie prime e la produzione di prodotti finiti. In breve, gli algoritmi sono in grado di fornire rapidamente ai responsabili della logistica suggerimenti e previsioni fondati che facilitano enormemente il processo decisionale.

Il trasferimento sicuro delle informazioni

La seconda tecnologia utile alle supply chain è la blockchain. La blockchain è una serie concatenata di blocchi (da cui il suo nome) carichi di informazioni, ordinati cronologicamente e la cui integrità è garantita da un algoritmo crittografico che li lega ai precedenti. Una volta inseriti all’interno dei blocchi, i dati non possono più essere modificati senza che vengano invalidati tutti i processi successivi. Molti l’associano al bitcoin e all’ambito finanziario, ma in realtà la blockchain può essere applicata a molti altri settori e si presta alla condivisione rapida, sicura, efficiente e trasparente, con tutti gli attori della filiera, delle informazioni sulla catena di approvvigionamento e sugli scenari calcolati in precedenza dall’IA.

Tracciabilità, risparmio e certezza

Quando la blockchain viene combinata con l’Internet of Things (IoT), e ad esempio con sensori che misurano le scorte di materie prime o con robot mobili e altri elementi automatizzati in magazzino, gli attori della supply chain beneficiano di tre vantaggi principali:

  • l’aumento della produttività e il risparmio di tempo e denaro: il trasferimento rapido e sicuro delle informazioni consente infatti di operare in modo efficiente in un magazzino automatizzato, con più cicli e meno errori;
  • la tracciabilità immediata: grazie alla connessione ultraveloce tra tutti i partecipanti della rete, ogni azienda ha il controllo della tracciabilità dei prodotti in tempo reale, consentendo un servizio più rapido ed efficiente per il cliente finale;
  • la possibilità di concludere degli “smart contracts” (letteralmente: contratti intelligenti), incorporando clausole contrattuali in software o protocolli informatici, che hanno la caratteristica di eseguirsi automaticamente sulla base di condizioni predeterminate dalle parti. I benefici? L’impossibilità di modificare o annullare il contratto, la trasparenza degli obblighi contrattuali e la certezza della loro esecuzione.

In sostanza: un supply chain management intelligente

L’abbiamo letto poc’anzi: un delle sfide più grandi della supply chain è quella di ottenere in tempo reale una visione trasparente e completa della filiera, così da facilitare e velocizzare il processo decisionale e assicurare un servizio efficiente nonché una consegna rapida al cliente. Tecnologie come l’intelligenza artificiale e la blockchain, combinate con l’IoT, ricoprono un ruolo chiave in termini di produttività, riduzione dei rischi, agilità, tracciabilità, fiducia e, in sostanza, nella gestione intelligente della filiera.

Le lacune di sicurezza della supply chain

Le catene di approvvigionamento sono reti complicate e la loro digitalizzazione le rende vulnerabili agli attacchi: una maggiore trasparenza sulle merci da parte dei produttori e misure di controllo più severe possono aiutare.

Se in taluni ambiti (ad es. mobilità, alimentare, farmaceutico, ecc.) l’integrità e la sicurezza dei prodotti fisici vengono verificate prima della loro commercializzazione, la qualità e la sicurezza di molti prodotti digitali non sono invece garantite. La sicurezza delle supply chain per i prodotti digitali è spesso insufficiente e a causa della mancanza di informazioni trasparenti e fondate, spesso il management di un’azienda non è in grado di prendere decisioni sostenibili. È quanto si evince da un rapporto del 2019 di ICTswitzerland, l’organizzazione mantello svizzera per l’economia digitale, sulla sicurezza della supply chain.

A fine 2021, l’azienda di servizi di sicurezza cibernetica BlueVoyant ha condotto un sondaggio su larga scala sulla sicurezza informatica, coinvolgendo 1’200 dirigenti di livello C di aziende con più di mille dipendenti e sei Paesi, tra cui Germania, Austria e Svizzera. I risultati di questi tre Paesi mostrano attacchi in aumento, scarsa visibilità dei fornitori e mancanza di informazioni sulla cibersicurezza di terzi. Nell’ultimo anno, il 99% delle aziende intervistate con sede in questi Paesi è stato vittima di un attacco diretto dovuto alla vulnerabilità di terzi a livello di sicurezza e addirittura il 100% ha subito indirettamente le conseguenze negative di una violazione della sicurezza nella propria rete di fornitori. Una situazione allarmante.

Pandemia e guerra in Ucraina hanno dimostrato chiaramente che le catene di approvvigionamento internazionali devono diventare più trasparenti, cosicché le aziende possano reagire molto presto a ostacoli e interruzioni. Ciò significa che le catene di approvvigionamento devono essere maggiormente digitalizzate.

Ma più aumenta la digitalizzazione, più aumentano le opportunità di attacchi digitali da parte degli hacker. Ciò rende necessario adottare maggiori misure di protezione digitale, come ad esempio programmi antivirus e malware specifici. Questi però da soli non sono sufficienti.

Piccole aziende con grandi lacune nella sicurezza

Il problema fondamentale non è la digitalizzazione in sé, bensì la complessità delle catene di approvvigionamento: il numero di fornitori per ogni singola azienda è infatti cresciuto a causa della pandemia e della guerra in Ucraina, rendendo la filiera sempre più difficile da gestire e da controllare. Il rischio maggiore è rappresentato dalle imprese di piccole dimensioni, ben lontane dal disporre di misure di sicurezza solide, come è invece il caso delle aziende più grandi. La verifica e la valutazione di una catena di approvvigionamento a distanza di settimane o mesi non è sufficiente per tenere testa ad aggressori agili e persistenti. Il monitoraggio continuo e la risposta rapida alle nuove vulnerabilità critiche scoperte sono essenziali per una gestione efficace del rischio informatico. Ciò include l’automazione delle analisi, l’estensione delle valutazioni di sicurezza da alcuni fornitori chiave a tutti i fornitori, l’identificazione di aree di particolare vulnerabilità e l’informazione ai propri fornitori in merito ai rischi emergenti e alle misure pratiche da adottare per correggere i problemi, conclude il rapporto di BlueVoyant.

Lavatrici e tostapane intelligenti in balia degli hacker

Quali sono quindi i fattori di rischio e le vulnerabilità tipiche? In sostanza, nell’attacco ad una supply chain, hacker e ricattatori possono manipolare i prodotti digitali o i loro componenti anche prima della loro consegna all’acquirente. Ciò avviene, ad esempio, durante lo sviluppo dei chip, la produzione o l’integrazione di altri componenti digitali e persino durante il trasporto al cliente. Gli hacker ottengono l’accesso principalmente tramite accessi non documentati, mediante le cosiddette backdoor (letteralmente “porte di servizio” che consentono di accedere da remoto ad un sistema e di controllarlo, superando le procedure di sicurezza attivate) o, se si tratta di prodotti collegati in rete, tramite malfunzionamenti impiantati e che possono essere attivati da aggiornamenti successivi alla consegna.

Questa infiltrazione diventa pericolosa se si tratta di prodotti distribuiti su larga scala, ovvero di beni di consumo digitali come computer, sensori, IoT e sistemi di controllo domestico. Lo stesso vale per televisori, lavatrici e tostapane intelligenti.

Tutti questi prodotti presentano un’interfaccia tra software e hardware e possono essere dotati di funzioni nascoste che vengono attivate a distanza quando necessario. I prodotti digitali senza dispositivi di input (mouse, schermo, ecc.) spesso non sembrano computer collegati in rete… eppure lo sono e non sono sufficientemente protetti.

Il dipendente: un rischio rilevante

In molte aziende, anche i dipendenti rappresentano un rischio per la sicurezza: è il caso quando aprono gli allegati ai messaggi di posta elettronica ricevuti da sconosciuti oppure quando effettuano grandi trasferimenti di denaro su istruzioni ricevute dai loro superiori via e-mail. Infine, possono anche divulgare inconsapevolmente informazioni aziendali sensibili chiacchierando durante il pranzo. In questo caso può essere d’aiuto una formazione specifica su argomenti rilevanti per la sicurezza aziendale e la presentazione di scenari concreti.

Ci sono poi dipendenti che spiano o manipolano deliberatamente. Un controllo del background dei dipendenti è utile per prevenire questo problema, soprattutto nel caso di collaboratori destinati ad occupare posizioni sensibili. È inoltre possibile limitare l’accesso ai dati aziendali. Infine, strumenti interni di whistleblowing dovrebbero essere attivati per consentire la segnalazione anonima di comportamenti sospetti.

Occorre prestare sufficiente attenzione anche alla cosiddetta sicurezza mobile: la verifica delle e-mail tramite cellulare, il controllo dei livelli delle scorte dal proprio tablet, l’inoltro della scansione di un carico tramite WLAN, ecc. mettono infatti in moto flussi di dati rilevanti. Tra le misure di prevenzione e protezione da adottare vi è sicuramente l’adozione di programmi di sicurezza per i dispositivi digitali mobili o ancora l’astensione dall’utilizzo di hotspot.

Anche la protezione dei dati nella supply chain è importante: lo standard minimo dovrebbe includere la crittografia di tutti i dati e delle e-mail. Si sta inoltre diffondendo lo standard di identificazione di tutti gli utenti dei dispositivi tramite caratteristiche biometriche, come le impronte digitali o la voce. Un’altra precauzione di sicurezza interna è, ad esempio, il monitoraggio regolare delle penetrazioni del firewall dall’esterno. A ciò si aggiunge la simulazione di scenari di attacco concreti e la progettazione di contromisure adeguate.

I produttori devono assumersi responsabilità

Una valutazione continua dei rischi deve essere effettuata anche con i partner esterni della catena di approvvigionamento. È necessario proteggere l’intera supply chain e i singoli fornitori, i gestori di servizi e tutti i partner di comunicazione e, idealmente, poter verificare in qualsiasi momento chi è attivo nella rete della catena di fornitura, cosa sta facendo e se l’azione è stata autorizzata.

È inoltre importante responsabilizzare i produttori di dispositivi e componenti digitali: dovrebbero documentare tutti gli account predefiniti o standard, le password, i certificati e le chiavi integrati nel prodotto e renderli accessibili. Sarebbe inoltre auspicabile che il cliente fosse in grado di effettuare il cosiddetto “reverse engineering” per verificare l’integrità e la sicurezza dell’hardware e del software di un prodotto senza violare automaticamente i diritti di proprietà intellettuale.

Protezione contro i rischi cibernetici: anche a livello nazionale

La sicurezza cibernetica assume sempre più un ruolo di prim’ordine, anche sul piano nazionale: lo conferma il recente annuncio da parte del Consiglio federale di voler trasformare il Centro nazionale per cibersicurezza (NCSC) in un ufficio federale, incaricando a tale scopo il Dipartimento federale delle finanze (DFF) di elaborare proposte relative alla sua struttura e al suo posizionamento all’interno di un dipartimento entro la fine del 2022.

Questa misura altro non fa che sottolineare ulteriormente la necessità di garantire la sicurezza della catena di approvvigionamento: infatti, la sicurezza cibernetica non deve più essere percepita come un compito isolato, bensì come un processo permanente all’interno della filiera.

Regno Unito: introdotta la plastic packaging tax

Dal 1° aprile 2022 nel Regno Unito vige una nuova tassa sugli imballaggi in plastica: essa è a carico delle aziende che producono o importano, nell’arco di 12 mesi, più di 10 tonnellate di imballaggi che contengono meno del 30% di plastica riciclata.

Per incentivare l’economia circolare e l’utilizzo di plastica riciclata nel settore del packaging, il 1° aprile scorso il governo inglese ha introdotto la plastic packaging tax (PPT), una tassa sugli imballaggi in plastica. La tassa consiste in un’aliquota di 200 sterline per tonnellata ed è applicata a chi produce o importa nel Regno Unito imballaggi in plastica che contengono meno del 30% di materiale plastico riciclato per un volume di oltre 10 tonnellate nell’arco di 12 mesi (calcolate dal momento della prima produzione o importazione dell’imballaggio).

I seguenti imballaggi sono esenti dalla tassa, indipendentemente dalla quantità di plastica riciclata in essi contenuta:

  • imballaggi in plastica fabbricati o importati per essere utilizzati nel confezionamento primario di un medicinale
  • imballaggi per il trasporto utilizzati su merci importate
  • imballaggi utilizzati come provviste per aerei, navi e ferrovie
  • componenti che hanno uno scopo ed utilizzo permanentemente diverso da quello di imballaggio.

Assoggettamento, registrazione, tassazione

Nella pratica, bisogna dapprima appurare se gli imballaggi prodotti o importati sottostanno effettivamente alla PPT ed effettuare in seguito una verifica dei quantitativi (produzione o importazione superiore a 10 tonnellate all’anno di imballaggi in plastica). Se questi sono superati o si prevede di superarli nei successivi 30 giorni, è necessario registrarsi per la PPT. Solo i produttori o importatori di imballaggi che contengono meno del 30% di plastica riciclata sottostanno tuttavia al pagamento dell’imposta. L’accertamento dell’imposta dovuta è effettuato in base a dichiarazioni trimestrali.

Sul suo sito web, il governo britannico fornisce indicazioni utili sui requisiti per l’applicazione della PPT, come ad es. quali imballaggi sottostanno alla PPT, la necessità effettiva di registrarsi, come calcolare il peso dell’imballaggio, quali documenti presentare, ecc: Plastic Packaging Tax – GOV.UK (www.gov.uk)

Per aiutare produttori e importatori a comprendere se i loro imballaggi sottostanno alla PPT e se essi devono effettuare o meno la registrazione alla tassa sulla plastica, l’erario britannico ha preparato due brevi guide in pdf sugli step da seguire:

In che misura la PPT tocca le aziende esportatrici svizzere?
La PPT è rivolta sia ai produttori inglesi sia agli importatori. L’azienda esportatrice svizzera è a rischio assoggettamento alla tassa dal momento in cui agisce in qualità di importatore, ad es. con la stipula di una clausola Incoterms DDP.