Inchiesta congiunturale autunno 2022

L’inchiesta congiunturale condotta in collaborazione con le Camere di commercio e dell’industria della Svizzera romanda è giunta alla sua 13esima edizione. È possibile compilare il tutto online su www.enquetecci.ch. Termine: 17.10.2022.

In qualità di Associazione mantello dell’economia cantonale ticinese contiamo ormai da 13 anni sulla preziosa collaborazione delle aziende affiliate per raccogliere dati essenziali sullo stato di salute dell’economia ticinese. Ogni anno, quanto raccolto, viene sistematicamente confermato dai dati ufficiali, a conferma dell’affidabilità dei nostri rilevamenti e delle vostre risposte.

Affidabilità e serietà ampiamente riconosciute dalle Autorità federali e cantonali, per cui lo strumento dell’inchiesta congiunturale è più che mai importante per la Cc-Ti a tutela degli interessi degli associati.

Oltre alle usuali domande generali riguardanti l’attività aziendale, l’inchiesta quest’anno comprende un capitolo specifico dedicato alla questione dell’approvvigionamento in senso lato (energia, costi, reperibilità delle materie prime, ecc.). Temi complessi, legati fra loro e dipendenti da dinamiche poco controllabili, eterogenee e internazionali.

Il Consiglio federale ha comunicato che sta valutando la situazione con attenzione, ma apparentemente sta lavorando soprattutto su scenari che andrebbero a colpire principalmente le aziende, obbligandole a una riduzione dell’attività produttiva.

È pertanto fondamentale che emergano in modo chiaro e massiccio le difficoltà per le imprese sul delicato tema dell’energia in particolare, anche per evitare scenari che contrappongano artificialmente l’economia a cittadine e cittadini. Tutti saremo probabilmente chiamati a fare sacrifici, vanno quindi fronteggiati interventi eccessivamente penalizzanti e puntuali per le attività economiche.

I risultati dell’inchiesta saranno presentati ufficialmente e poi pubblicati sui nostri usuali canali di comunicazione (Ticino Business, newsletter, sito internet www.cc-ti.ch, Facebook, Instagram, Twitter e YouTube) in forma anonima.


Istruzioni per la compilazione ai soci Cc-Ti:

L’inchiesta deve essere compilata e rispedita entro il 17 ottobre 2022, attraverso una delle seguenti modalità a vostra scelta:

La volontà è la forza motrice

La recente comunicazione della Commissione federale dell’energia elettrica (ElCom), secondo cui dobbiamo prepararci a un’eventuale penuria di corrente, non fa che confermare quanto la situazione in campo energetico sia delicata.

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Conflitto russo-ucraino, interruzione dell’erogazione di gas, siccità costituiscono un mix ad alto rischio. La valutazione dell’El-Com è ovviamente inquietante benché non sorprendente e mette chiaramente in chiaro quanto gli equilibri nel campo dell’energia siano delicati e legati a dinamiche eternogenee, fra le quali, non di meno, quelle internazionali. Da una parte vi è l’interdipendenza di una moltitudine di fattori interni (come il livello dei laghi artificiali e la manutenzione delle centrali nucleari), dall’altra parte la dipendenza da quanto avviene sullo scenario internazionale (non solo il gas, ma anche le centrali nucleari francesi ad esempio). Il fattore geopolitico in mutamento sia continuo che preoccupante, esige una politica pronta alla flessibilità e mutazione in tempi brevi e volta a coniugare le legittime pluralità ed esigenze delle posizioni sociali.
Il Consiglio federale ha comunicato che sta valutando, con attenzione, la situazione e che darà indicazioni più precise entro fine agosto. Bene, prendiamo atto fiduciosi, anche se le prime, provvisorie indicazioni non ci permettono di esserlo pienamente, visto che apparentemente si lavora soprattutto su scenari che andrebbero a colpire principalmente e in primo luogo, le aziende, obbligandole a una riduzione dell’indice produttivo, limitandone significativamente le attività. Non è pragmaticamente corretto pensare di poter scindere, nuovamente, l’economia dai cittadini. In più occasioni abbiamo sottolineato come alcune risoluzioni settoriali, mettano a grave rischio la serenità delle persone che, proprio da queste attività dipendono. Ci siamo messi alle spalle l’effetto “domino” delle chiusure in pandemia? Per memoria storica, non più di un anno fa, abbiamo potuto, purtroppo, constatare il costo umano e finanziario di scelte di parte.

Quali insegnamenti?

L’illusione di una scelta di transizione energetica unilaterale, tra eolica e solare, sta tramontando. Si tratta di vettori indubbiamente strategici per il futuro e da promuovere con decisione, ma oggi non ancora sufficienti per sostituire completamente i combustibili fossili. E saranno comunque necessari investimenti di proporzioni enormi e tempi di realizzazione lunghi per arrivare a un “Green Deal” energetico. Magari alleggerendo un po’ anche le procedure che oggi impongono tempi eccessivamente lunghi per alzare le dighe (procedura di per sé già impegnativa anche dal punto di vista logistico), o per prevedere pale eoliche o coperture fotovoltaiche massicce in talune valli. È indicativo che l’Unione europea, quasi per magia e ammettendo di fatto la difficoltà della transizione energetica, qualche settimana fa abbia improvvisamente stabilito prodotta con il gas
sono “verdi ”. Forse meglio delle centrali che l’energia nucleare e quella a carbone che Francia e Germania si trovano costrette, frettolosamente, a dover riattivare…

Le dipendenze sono sempre tortuose

Si fa presto a dire che occorre ridurre la dipendenza dall’energia fossile. Si dimentica però spesso che le implicazioni sono molteplici. Il primo ragionamento di utilizzo va a quello pratico quotidiano che tutti conosciamo e utilizziamo. Ma i materiali sono le fondamenta di molteplici altri funzionamenti che, senza accorgerci, utilizziamo con disinvoltura e senza troppe riflessioni sulle loro componenti base. Ad esempio, rinunciare al petrolio come fonte energetica è un’operazione delicata e per niente scontata, perché dal greggio non si ricavano soltanto benzina, gasolio e olio combustibile, che a tutt’oggi muovono i trasporti privati e pubblici e riscaldano gran parte degli edifici privati e pubblici in tutto il mondo. Esso serve anche per produrre oli lubrificanti, paraffina, asfalto, catrame e i polimeri, ossia la maggior parte delle materie plastiche indispensabili, ad esempio, nell’edilizia, nell’industria e nella distribuzione commerciale. Quali alternative? Ricerca e innovazione su materiali alternativi, ma anche questo non si realizza da un giorno all’altro, ma richiedono anni di ricerche che richiedono investimenti corposi. La garanzia di un risultato sostenibile e pratico non è sempre scontata e così, bisogna continuare o, a volte, ricominciare. La fretta non è compresa certamente in questi percorsi e neanche la copertura infinita finanziaria, che spesso, nel frattempo deve invece coprire altre esigenze sociali prevalenti.

La realtà è il punto di partenza

La dipendenza energetica o dalle materie prime in generale sembra a volta un argomento un po’ astratto concernente, in prevalenza, i massimi sistemi. Con una facile riflessione è però facile comprendere come in realtà vi siano risvolti concreti sulla vita quotidiana di tutti. Prendiamo il caso del caro a tutti, telefono cellulare.

Sciences Avenir – «Les éléments chimiques qui composent nos smartphones»

Come si può vedere nell’immagine, un IPhone è composto da circa una quarantina di elementi, fra metalli rari, semimetalli e altri. Dai più conosciuti come il cobalto, il litio, l’alluminio, il rame, il piombo e il fosforo, ad altri dai nomi più esotici (almeno per i profani) come il gallio, l’indio e il gadolinio. Materie estratte nei paesi più disparati, anche se, in media il 54% della produzione mondiale è in mano cinese. Per alcune materie si raggiunge anche l’80%. La dipendenza delle importazioni europee da fornitori come la Cina o il
Congo varia da un 30% per il cobalto al 100% per il magnesio. Già abbiamo sottolineato più volte come la Cina controlli anche oltre il 90% del mercato globale dei pannelli fotovoltaici. Analogo discorso vale pure per la tanto decantata svolta elettrica del parco dei veicoli.
Anche in questo ambito, ca. il 90% della produzione mondiale di terre rare, leggere e pesanti, indispensabili per tali mezzi di trasporto, è di origine cinese. Cerio, lantanio, zirconio, neodimio, europio, ittrio, disprosio, praseodimio, terbio, tutti metalli che confluiscono nella produzione di un’automobile elettrica o ibrida, il doppio di una vettura a benzina. In particolare, per le batterie dei veicoli elettrici, è essenziale il cobalto, soprattutto per gli accumulatori di nuova generazione, prodotto anch’esso, nella misura del 71%, da Cina e Congo. Alternative dal Canada e dall’Australia sono insufficienti. Così come non è trascurabile il fatto che la Russia sia anche un Paese leader nelle forniture di palladio e rodio indispensabili nell’industria automobilistica. Senza dimenticare che la produzione di semiconduttori dipendeva in buona parte anche dal gas neon che arrivava da Mariupol e Odessa. Interi popoli in grave emergenza da dipendenze vitali e che sottolineano come solo un pensiero evolutivo sociale, nella sua interezza e che non dimentichi le interdipendenze sul campo, possa fare fronte alle sfide mondiali. Una Russia che insieme all’Ucraina assicurava il 28% del grano, il 29% dell’orzo, il 15% del mais e il 75% dell’olio di girasole che si consumano a livello mondiale ha inevitabilmente e pericolosamente sconvolto l’agenda delle priorità e messo in evidenza la fragilità dei sistemi. Cambiare le tendenze non può funzionare in tempi brevi. Non siamo pronti. Non abbiamo pensato, per molto tempo, di doverci preparare in tempi brevi. Va preso atto di questa ovvietà per costruire una politica seria in ambito energetico e di approvvigionamento generale. Soluzioni ve ne sarebbero in teoria, visto che ad esempio la zona dell’Extremadura in Spagna è ricca di litio e di cobalto, ma la popolazione si oppone all’estrazione. Scelta legittima, come sono legittime le proteste in Finlandia contro le già esistenti miniere di estrazione del cobalto, per l’impatto ecologico. Ma, come sempre, si tratta di scelte e priorità. In tutti gli ambiti se non si è disposti a determinati sacrifici occorre in qualche modo pagarne
il prezzo. Il costo è alto per tutti, nessuno escluso. Ma poi le lamentele non sono più accettabili o legittime. È importante scegliere, nell’emergenza, una direzione, senza tuttavia dimenticare le altre. Le scelte difficili sono i passi che devono guardare al passato e al futuro per affrontare il presente.

Nessuna soluzione?

In sostanza, un mondo molto complesso, interconnesso su tantissimi livelli diversi fra loro, che rende difficili le decisioni, smentendo puntualmente chi “la fa facile”, promettendo soluzioni rapide, indolori, ideali per tutti. La realtà è molto diversa. Corretto cercare di ridurre le dipendenze, illusorio pensare di eliminarle, sbagliato vendere ipotetiche soluzioni nuove con faciloneria. In realtà tutti siamo chiamati a fare sacrifici e sarebbe sbagliato e pericoloso limitarsi interrompendo o limitando determinate attività aziendali, considerate troppo energivore. Sarebbe un messaggio doppiamente sbagliato, economicamente e socialmente. All’interno di un equilibrio fortemente delicato, sottovalutare o colpire un solo tassello innescherebbe quell’effetto a domino che avremmo già dovuto apprendere durante la fase più dura della pandemia e non dimenticato da molti imprenditori che, ancora oggi, stanno lottando per riattivare e sostenere le proprie attività, collaboratori compresi. Dal punto di vista economico perché minaccerebbe molti posti di lavoro e porrebbe limiti ulteriori a determinati approvvigionamenti, rendendo di conseguenza le dipendenze l’unica via di uscita. È proprio la tendenza che stiamo faticosamente cercando di contrastare. Dal punto di vista sociale perché si proporrebbe nuovamente una spaccatura fra economia e cittadine e cittadini, quando in realtà l’economia siamo tutti noi, nessuno escluso. Le intenzioni interconnesse per una soluzione ottimale deve comprendere tutte le parti sociali. È illusorio pensare, o anche solo immaginare, che una sola parte della nostra società possa, da sola, risolvere le difficoltà di una collettività.

Sottolineando che i sacrifici li deve fare sempre e solo qualcun altro, non risolve alcun problema e rischia di aprire nuovamente una diatriba che speravamo fosse stata accantonata e compresa molto bene. È chiaro che si possano e debbano prevedere dei sacrifici commisurati ai diversi contesti, ma il messaggio deve prevalere sul populismo: tutti devono essere chiamati a contribuire al superamento delle difficoltà che coinvolgono il Paese. È questo l’atteggiamento che diventa vincente in ogni presente e futuro contesto. Creando e spiegando una coerenza e responsabilità sociale nella sua interezza è certamente una forza sulla quale potremo contare anche nelle sfide future. La coesione delle parti, il rispetto reciproco e lo stesso intento rappresentano la differenza.

Chiusura uffici Cc-Ti al pubblico: 4 e 5 luglio 2022

Informazioni specifiche per le aziende sull’operatività dei nostri servizi

Gli uffici della Cc-Ti resteranno chiusi al pubblico i prossimi 4 e 5 luglio 2022. Siamo raggiungibili attraverso i contatti diretti.

Il Servizio delle legalizzazioni, in particolare, opererà come segue:

Per rispondere alle esigenze di associati e aziende che richiedono il rilascio cartaceo dei documenti sopra menzionati, lo sportello estenderà gli orari di apertura nei giorni che precedono rispettivamente seguono la chiusura della Cc-Ti:

  • venerdì 1° luglio 2022, dalle 08:00 alle 12:00 e dalle 13:30 alle 17:30
  • mercoledì 6 luglio 2022, dalle 08:00 alle 12:00 e dalle 13:30 alle 17:30

Potete trovare, nella pagina del nostro sito web, i nostri contatti diretti.

L’esito dei primi controlli eseguiti mette in evidenza un sostanziale rispetto della legge sul salario minimo

L’Ufficio dell’ispettorato del lavoro ha svolto accertamenti in oltre 1’600 aziende attive in tutti i settori dell’economia ticinese. Solo in rari casi (3%) è stata riscontrata un’infrazione.

Dall’entrata in vigore della legge sul salario minimo (LSM) ad inizio 2021, i servizi della Divisione dell’economia hanno svolto un intenso e capillare lavoro di formazione e informazione in collaborazione con la Camera di commercio e le principali associazioni di categoria con lo scopo di facilitare le aziende nell’applicazione della nuova legge.

In vista dell’applicazione concreta del salario minimo a partire da dicembre 2021, nel corso dell’autunno dello scorso anno la Commissione tripartita in materia di libera circolazione delle persone (CT) ha quindi elaborato e approvato una nuova strategia di controllo del mercato del lavoro con lo scopo di verificare il rispetto della LSM e nel contempo constatare l’eventuale presenza di dumping salariale settoriale e accertare il rispetto dei Contratti normali di lavoro (CNL).

I controlli vengono svolti a campione in tutti i settori economici. In alcuni comparti, ritenuti più sensibili o che presentavano un numero statisticamente elevato di salari bassi, la quota di datori di lavoro verificati è più importante. Un ruolo fondamentale nella strategia di controllo è giocato anche dalle segnalazioni, alle quali viene puntualmente dato seguito. Il mancato rispetto della LSM è perlopiù da ricondurre a errori di calcolo. La quasi totalità dei datori di lavoro ha reintegrato la differenza dovuta.

Solo in 7 casi la sanzione supera i 2’000 franchi (la multa è calcolata in base alla differenza tra il salario dovuto secondo la LSM e il salario effettivamente versato). Sulle circa 50 infrazioni riscontrate, più di 30 riguardano datori di lavoro oggetto di segnalazioni puntuali.

È possibile segnalare una presunta violazione della LSM alla pagina internet: www.ti.ch/abusi-salariali.

Energia e Demagogia

Una società, molte fonti di approvvigionamento

Costi più alti e difficoltà nell’approvvigionamento. L’allarme lanciato qualche settimana fa da ElCom, la Commissione federale dell’energia elettrica, non lascia spazio a dubbi. La guerra russo-ucraina ha destabilizzato ulteriormente il mercato dell’energia, spingendo al rialzo il prezzo mondiale del petrolio e del gas. Un clima di pesante incertezza ha smorzato l’ottimismo nella tanto sperata ripresa economica nell’Europa del dopo pandemia.

Nel giro di pochi mesi si è passati dai proclami solenni contro i combustibili fossili alla corsa per il loro accaparramento, alimentandone l’escalation dei costi.

Per sostituire le forniture russe di gas e petrolio ci si deve rivolgere ad altri Stati retti, purtroppo, da governi instabili o da autocrati che non danno grandi garanzie di affidabilità sul medio e lungo termine. Una ricerca volutamente miope di nuove pericolose dipendenze, le cui possibili conseguenze si potranno valutare nella loro interezza solo in futuro.

Nonostante l’inevitabile “fame planetaria” di combustibili fossili, e l’emergenza che ne deriva, non sembra concedere tregua la “verde” corsa simultanea. Nel pieno della tempesta energetica l’Europarlamento ha deciso di porre fine alla vendita di auto a benzina e diesel nel 2035. I Verdi svizzeri, per non essere da meno, hanno annunciato un’iniziativa per mettere al bando i motori termici addirittura nel 2025. Un iper-attivismo ecologista che potrebbe avere effetti devastanti per l’economia e la società.

Eppure, l’attuale crisi energetica globale mostra chiaramente che il problema della transizione green, condiviso e condivisibile sul principio, dovrebbe venire affrontato con molto più pragmatismo.

Una scelta avventata

La decisione dell’Europarlamento deve ancora passare all’esame del Consiglio europeo e al vaglio degli Stati membri, e vogliamo pensare prevalga il buon senso. I costi di una scelta avventata si scaricheranno inevitabilmente sui ceti medi, sulle fasce a basso reddito e sulle imprese.

Persone e imprese che hanno adottato ormai da tempo, per quanto nelle proprie possibilità, priorità di sostenibilità non di poco conto. L’accusa d’indifferenza, spesso, non ascolta il grido d’emergenza.

Tra industria dell’automobile e indotto, ci sono in gioco, in tutta Europa, Svizzera compresa, centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma non solo. Oggi il 70% delle batterie necessarie alle auto elettriche arrivano dall’Asia. Da sola la Cina copre il 45% del mercato, mentre nel Vecchio Continente la produzione di questi accumulatori sta muovendo ora i primi passi, vista anche la forte dipendenza dall’estero per le relative materie necessarie. Pertanto, ancora per molto tempo non ci sarà una sufficiente autonomia strategica.

La rincorsa ossessiva all’elettrificazione automobilistica sembra non riconoscere il fatto che non è possibile sostituire dall’oggi al domani i combustibili fossili. Che anche accelerando all’inverosimile con le fonti rinnovabili, queste da sole non saranno in grado di produrre una quantità tale di elettricità in grado di muovere i trasporti, pubblici e privati, e di riscaldare tutti gli edifici, di fare fronte alle crescenti e, spesso legittime, richieste della nostra società. Inoltre, per lo stoccaggio di questa energia servirà un mastodontico, e costosissimo, piano di infrastrutture che non si può realizzare nel giro di pochi anni.

Realismo e fattibilità

Uno sguardo attento e lungimirante deve indirizzarsi verso le fonti rinnovabili e il loro sviluppo. Questo è innegabile e non a caso, stiamo spingendo intensamente e unitamente al Dipartimento cantonale del territorio, la diffusione di impianti fotovoltaici per le imprese che dispongono di grandi superfici su tetti e facciate.

Infatti, il mondo delle imprese per primo è convinto della necessità della tutela dell’ambiente. Non per nulla l’industria svizzera già nel 2020 ha ridotto le sue emissioni del 15%, rispetto al 1990, raggiungendo gli obiettivi climatici stabiliti. Negli altri settori si sono progressivamente implementate con successo misure per migliorare l’efficienza energetica e ridurre l’impatto delle attività produttive. C’è la consapevolezza che la crescita futura non può dipendere così fortemente dai combustibili fossili, che è necessario puntare su vettori alternativi.

Il passaggio all’energia verde non può però prescindere da un’analisi oggettiva e da un confronto serio, senza distorsioni ideologiche, su fattibilità, costi, efficienza, tempi ed effetti economico-sociali di una transizione che è molto più problematica di quanto non lasci intendere.

Diversificazione e complementarità

Il febbraio scorso uno studio del Laboratorio federale EMPA e dell’EPFL, il Politecnico federale di Losanna, ha dimostrato che è irrealistico pensare di coprire il fabbisogno energetico della Svizzera ricorrendo alle sole fonti rinnovabili. Smentendo, di fatto, anche la strategia del Consiglio federale che vorrebbe raggiungere per questa via la neutralità climatica entro la metà secolo.

Lo studio ha preso in considerazione tre scenari basati sul fotovoltaico (perché meno discontinuo dell’eolico) e sull’ipotesi della sostituzione del nucleare con la chiusura delle 4 centrali nucleari attualmente in funzione entro il 2050: totale elettrificazione del sistema energetico, dalla mobilità al riscaldamento degli edifici, uso dell’idrogeno e carburanti sintetici.

In tutte le tre varianti sarebbero necessarie una spropositata superficie solare pro capite, da 3 sino a 12 volte l’estensione dei tetti disponibili in Svizzera, e adeguate batterie di accumulo giorno-notte che, a dipendenza dello scenario, vanno da 26 kWh sino a 109 kWh a persona.

Nella variante dell’elettrificazione totale servirebbero per lo stoccaggio, estate-inverno, delle grandi centrali di pompaggio, l’equivalente cioè di tredici bacini dalle dimensioni della Grande Dixence nel Vallese, che con i suoi 285 metri è la diga più alta d’Europa. Non disponiamo di valli capaci di ospitare simili infrastrutture.

Per immagazzinare l’idrogeno si dovrebbero invece impiegare caverne pari a 25 volte il tunnel di base del San Gottardo.

Infine, per rifornire tutto il Paese con i carburanti sintetici da elettricità verde (che andrebbero comunque generosamente sussidiati perché costerebbero molto di più di quelli a combustione), il 4,5% della Svizzera dovrebbe essere ricoperto di cellule solari. Supportate con batterie di accumulo da 109 kWh pro capite. I costi energetici annui triplicherebbero: dagli attuali 3’000 a 9’600 franchi a persona.

In definitiva lo studio EMPA-EPFL è la dimostrazione scientifica che una strategia energetica vincente deve basarsi sulla diversificazione e la complementarità delle diverse fonti, nucleare compreso, solo così si riusciranno a raggiungere un buon livello di autonomia energetica, di sicurezza nell’approvvigionamento e un prezzo sostenibile.

E senza dimenticare che in futuro non si potrà fare a meno di una logistica energetica globale, per sfruttare le enormi potenzialità del fotovoltaico laddove la radiazione solare è così elevata da ridurre drasticamente i costi di produzione sia per l’idrogeno che per i combustibili sintetici.

Stando ai calcoli di ElCom, nel 2023 le aziende con un consumo annuo di 150mila chilowattora pagheranno 6’000 franchi in più (IVA esclusa); per una famiglia con un consumo medio di 4’500 chilowattora l’aumento sarà di circa 180 franchi all’anno. Secondo altri analisti, i rincari potrebbero essere molto più consistenti. Nuovi costi e sacrifici per famiglie e imprese.

Che sarà un “inverno da brivido”, sia per gli aumenti delle tariffe sia per la paura di non avere sufficiente energia per tutti, lo ha confermato la recente assemblea dell’Azienda elettrica ticinese. In Svizzera le riserve idriche, a causa della siccità, sono ai minimi storici, con volumi del 30% inferiori rispetto alla media pluriennale. L’Europa si ritrova invece ai livelli minimi con le riserve di gas. Insomma, per il nostro Paese che da 20 anni importa energia durante l’inverno, potrebbe diventare anche problematico un apporto dall’estero. Con le forniture russe che si ridurranno progressivamente e una costante crescita del fabbisogno energetico, gli Stati vicini non potranno garantire la condivisione delle risorse.

Come ha ricordato Giovanni Leonardi, Presidente di AET, abbiamo a che fare con un sistema elettrico che ha più di un secolo, ma dovremmo trasformarlo radicalmente nel giro di appena 25 anni per raggiungere la neutralità climatica nel 2050. Più che una transizione ecologica, che implica un processo graduale, ben ponderato e con esiti equi per tutti, si sta imponendo un cambio di paradigma troppo veloce e radicale per non creare pericolosi scompensi.

Purtroppo, la classe politica non pare ponderare con la necessaria cautela le conseguenze che la crisi energetica e i forti rincari avranno certamente per le famiglie e le imprese in termini di costi vivi e d’incertezza. Un “domino” di grande malessere.

È ormai più che un fondato timore, che gli effetti più gravi della guerra in Ucraina si debbano ancora manifestare nella loro complessità, che si stia sottovalutando, come è stato per l’inflazione, l’impatto di un conflitto che sta già ripensando i precedenti assetti geopolitici.

Con pesanti ripercussioni sui sistemi economici dei Paesi europei, che erano già in difficoltà per l’aumento delle materie prime e le strozzature nelle catene internazionali degli approvvigionamenti.

Un confronto deve essere serio

Non possiamo permetterci di escludere a priori una fonte d’energia che ha comunque un ruolo importante, cioè il nucleare.

Sarebbe oltremodo rischioso spegnere le nostre centrali nucleari entro il 2035, come si vorrebbe da più parti. Anche investendo massicciamente nelle energie rinnovabili non si riuscirebbe a compensare un ammanco di 22 miliardi di chilowattora di elettricità all’anno. Senza dimenticare l’opzione futura del nucleare di nuova generazione.

Una fonte complementare costante e affidabile, che è stata riconosciuta nella tassonomia verde dalla Commissione europea come una tecnologia pulita per la fase di transizione ecologica.

Svizzera e Germania sono stati gli unici Paesi a rinunciare al nucleare a cui invece si ricorre intensamente in molti altri Stati che stanno anche potenziando i loro impianti. Attualmente in tutto il mondo sono in attività 441 centrali nucleari, altre 171 sono in fase di costruzione o di progettazione, di cui una quarantina in Cina, 17 in Russia e 20 in India. Negli Usa, oltre a prolungare di una ventina d’anni l’esercizio degli attuali reattori, si sta investendo nel nucleare di quarta generazione. In Francia, che conta già 56 centrali nucleari, ne verranno realizzate altre 14, puntando soprattutto sugli “small modular reactors”, i mini reattori atomici più sicuri, meno costosi e realizzabili in tempi brevi.

Oltre che in Gran Bretagna e in Finlandia, persino nel Giappone di Fukushima si costruiscono nuove centrali, mentre da noi, proprio a seguito di quell’incidente vige il divieto di realizzarne di nuove. Ma distanza di 11 anni da quella tragedia, e tenuto conto dei grandi progressi tecnologici registrati nel frattempo in questo settore, sarebbe ragionevole rivedere la discussione sui rischi reali e sulle opportunità che offre oggi il nucleare. Come vettore complementare per un’energia pulita, sicura, potenzialmente inesauribile e a prezzo sostenibile. Per conciliare la difficoltà energetica del pianeta e la sostenibilità, sono del resto allo studio alternative sostenibili per lo sfruttamento veicolato delle “vecchie” fonti energetiche. In Svizzera una start-up sta sviluppando un nuovo tipo di reattore nucleare che utilizza il torio invece dell’uranio.

Un successo della linea “verde” e sostenibile per tutti deve ancora continuare a essere complementare.

Il realista aggiusta le vele…

Il pessimista si lamenta del vento, l’ottimista aspetta che il vento cambi…

La pandemia e il terribile conflitto russo-ucraino hanno riproposto con forza, per forza, la nostra dipendenza da paesi non propriamente affidabili, per usare un eufemismo, o molto poco democratici, per essere più diretti. E dove si incontrano la scarsa affidabilità e l’assolutismo, ci si può purtroppo attendere di tutto. Quando sembrava che i motori dell’economia potessero tornare a girare a regime più alto (non ancora massimo) ecco arrivare un “mare di sabbia” a bloccare nuovamente molti ingranaggi. Con difficoltà che toccano trasversalmente tutti i settori economici e questo deve essere motivo di riflessione e preoccupazione. La scarsa reperibilità di materie prime, l’impennata dei loro prezzi, la questione energetica con rincari sostanziali costituiscono un mix di fattori che potrebbe rivelarsi micidiale se questa situazione dovesse protrarsi troppo a lungo.

Le materie prime

Le difficoltà di reperire materie prima erano già iniziate durante la pandemia, a causa delle restrizioni imposte in tutto il mondo. Dapprima problemi di vendita e distribuzione, poi di produzione con la ripresa della congiuntura e forti richieste da parte di Paesi molto grandi. Problemi e ritardi nelle forniture in tutto il pianeta terra sia per le materie prime che i prodotti intermedi che quelli finiti. Senza dimenticare altri problemi legati alla logistica e al trasporto, ad esempio, con tempi di attesa fino a tre settimane per scaricare le navi in attesa davanti ai porti principali. Con conseguente aumento dei costi e, quindi, dei prezzi. Il conflitto russo-ucraino ha ulteriormente acuito questi problemi. Perché? La risposta è ovvia, se pensiamo che, ad esempio l’argilla, essenziale per il mondo delle ceramiche proviene principalmente dal Donbass. Che il palladio (essenziale per i catalizzatori delle auto e nell’orologeria) è importato da Ucraina e Russia e non ne arriva più. Che i due paesi sono leader nella produzione di fertilizzanti, essenziali per l’agricoltura. Oppure che l’industria automobilistica e aerospaziale dipendono dal titanio russo, paese secondo produttore al mondo per ammoniaca, urea e potassio. Senza dimenticare che i già citati palladio e titanio, oltre al neon, sono essenziali per la produzione di microchip. Componente per la quale dipendiamo dall’Asia. Senza dimenticare che l’Ucraina è il granaio d’Europa e, sebbene la Svizzera non sia forse toccata in maniera diretta grazie alla sua politica agricola, rischia di subire contraccolpi indiretti della penuria e dei rincari che colpiscono altri paesi. Nel mentre l’acciaio non è di fatto più reperibile, per cui sia l’industria che le costruzioni sono in difficoltà e a medio termine certi cantieri dell’edilizia potrebbero fermarsi, analogamente a talune realtà produttive. È ovvio che in una situazione del genere i prezzi per l’acquisto delle materie prime siano diventati molto volatili, con mutazioni dalla sera al mattino imposte da chi detiene quel determinato bene. Non sono nemmeno rari i casi di navi bloccate in giro per il mondo, in attesa che venga chiarita se il carico rispetta le sanzioni in vigore contro la Russia. Nell’attesa, tale carico viene acquistato da qualche altro paese che non è vincolato alle sanzioni ed è irrimediabilmente perso. All’instabilità del conflitto, va aggiunto un altro fatto, cioè la forte dipendenza dalla Cina, paese certamente poco incline a fare concessioni e che nell’ambito della produzione mondiale detiene parti importantissime di materie prime e terre rare. Trovandosi quindi nella condizione di dettare molte condizioni e di influenzare pesantemente le condizioni di produzione mondiali.

Fra le materie importanti figurano ad esempio il 97.7 % di gallio fondamentale per la chimica, l’84.2 % del metallo pesante bismuto (con applicazioni per saldature e nella farmaceutica), il 70 % di magnesio, il 67.9 % di germanio (semimetallo con proprietà di semiconduttore), il 60 % di terre rare, il 57.1 % di titanio, il 57 % di alluminio, il 54 % di acciaio, il 2.9 % di bauxit (roccia, principale fonte per l’alluminio) e il 38.5 % di rame. Facilmente comprensibile, se da una parte è già abbastanza difficile creare delle scorte (vuoi per i costi, vuoi per lo spazio di stoccaggio, oltre alla reperibilità), dall’altra parte è complesso trovare alternative di approvvigionamento in paesi terzi. Per i cereali si era ad esempio ipotizzato di fare maggiormente capo al Canada e agli Stati Uniti, dimenticando tutti i discorsi sugli organismi geneticamente e taluni pesticidi proibiti dall’UE e dalla Svizzera.
Oppure cambiare distributori nell’ambito Medtech comporta ad esempio una serie di autorizzazioni che richiedono anni di lavoro. Insomma, all’apparenza si potrebbe pensare che basti rivolgersi a qualcun altro e la soluzione è trovata. La realtà è purtroppo molto diversa.

Quale trasformazione energetica?

In questo contesto confuso e nervoso, anche la questione dell’approvvigionamento energetico diventa evidentemente centrale. Si parla ormai da tempo di trasformazione energetica. Alle belle parole e agli obiettivi sicuramente condivisi, di virare su energie pulite, fanno da contraltare diversi fatti che non si possono ignorare. Oggi più che mai.
La richiesta di energia elettrica è in costante aumento e la sostituzione delle attuali fonti di energia con energie rinnovabili porta ad una penuria perché senza l’energia nucleare mancherà circa 1/3 della produzione nazionale di energia.
In Svizzera le principali fonti di energia sono quelle idroelettriche e nucleari. Con la volontà di abolire quest’ultime, le prime non saranno in grado di soddisfare il fabbisogno, soprattutto in inverno. La parola “razionamento” ormai non è più un tabù, anche perché i paesi UE da cui tradizionalmente importiamo (in primis Francia, Germania e Italia) sono attanagliati dagli stessi problemi legati all’abbandono del nucleare (salvo la Francia, che però deve fermare molti impianti per necessità di rinnovo) e la decarbonizzazione.
Se pensiamo che questi paesi hanno ora grandi problemi legati alla fornitura di gas russo, che entro entro il 2025 il 70% della produzione elettrica europea dovrà essere destinata agli scambi all’interno dell’UE e che non abbiamo raggiunto un accordo istituzionale con l’UE sul tema energetico, l’allarme è motivato. Gli Stati dell’Ue penseranno, come è legittimo che sia, dapprima ai loro interessi, poi, se resta qualcosa, sarà condivisa qualche fornitura con la Svizzera. Realtà nuda e cruda ma plausibile. Il conflitto russo-ucraino ha portato a un’impennata dei prezzi e le forniture sono incerte, per quanto riguarda soprattutto il gas.

La Svizzera non può influenzare i prezzi di mercato stabiliti in Europa, ma può operare sui costi aggiuntivi e di questo sarebbe bene tenere conto. Come già abbiamo avuto modo di sottolineare più volte, la politica energetica deve assolutamente puntare su più vettori, senza alcun tabù. Compreso il nucleare.
Inutile vendere l’illusione che in quattro e quattr’otto si sarebbe ricoperto il paese di pale eoliche, pannelli solari e altre energie cosiddette pulite, conquistando l’indipendenza energetica e dando un benessere accessibile e pulito a tutti. Applausi da ogni dove, osanna quasi unanime per questa soluzione semplice semplice, in teoria poco costosa e altamente redditizia. La realtà è purtroppo un’altra.

Non che le energie alternative non vadano promosse, anzi. Ma, come sempre, ci vuole equilibrio e questo è totalmente mancato nella discussione pubblica degli ultimi anni. Ma perché la transizione energetica è più difficile di quanto si pensasse e come mai vi è un parallelo importante, proprio dal punto di vista climatico, con la trasformazione digitale? Andiamo con ordine. Già nel 2017 la Banca mondiale, ovviamente ignorata, aveva attirato l’attenzione sul fatto che la transizione energetica richiedesse l’utilizzo di molti metalli, fra cui parecchi metalli rari (e torniamo in parte al discorso delle materie prime precedente). In un interessante saggio del 2018, “La guerre des métaux rares”, un giornalista francese, Guillaume Pitron, aveva pure attirato l’attenzione su questo rischio. In effetti, l’abbandono del carbone e comunque delle energie fossili richiede un numero elevato di minerali e di metalli per costruire impianti eolici, pannelli solari, batterie di stoccaggio per l’energia, ecc. Prevedibile quindi attendersi un aumento della domanda di acciaio, alluminio, argento, rame, piombo, litio, manganese, nickel e zinco, così come di terre rare dai nomi esotici ma dall’importanza fondamentale come l’indio (importante per gli schermi LED, i collettori solari, i termometri, i transistor ad esempio, il molibdeno (usato come lega del ferro e negli impianti elettrici) e il neodimio (usato ad esempio per la produzione di auricolari e i magneti di ogni tipo). Sono solo alcuni esempi. Abbiamo visto in precedenza che uno dei problemi è il fatto che molti di questi elementi sono in mano cinese, con tutti i rischi del caso. Ma, ancora peggio, l’estrazione di molte di queste materie è tutt’altro che pulita ed ecologica. Anzi, ha un effetto devastante sull’ambiente, creando quindi il paradosso che le tanto decantata energia pulita in realtà poggia su basi tutt’altro che pulite ecologicamente parlando.

Un altro paradosso è che queste nuove tecnologie contengono, nei processi di fabbricazione, più risorse naturali rispetto alle centrali a energia fossile tradizionali. Quindi per produrre la stessa quantità di elettricità d’origine rinnovabile necessitiamo, paradossalmente, di molti più metalli. Ma torniamo al legame fra trasformazione energetica e digitale. La risposta è abbastanza facile e già qualche mese fa l’avevamo trattata. Un sistema completamente rinnovato di produzione e gestione dell’energia non può prescindere da sofisticati sistemi legati alla trasformazione digitale. Strumenti digitali però che non sono neutri dal punto di vista delle emissioni di CO2 (v. il nostro approfondimento di qualche mese fa, www.cc-ti.ch/energia-tra-sapere-e-conoscere).
Se a questo aggiungiamo una certa schizofrenia di chi vuole energia pulita, salvo poi opporvisi quando gli piantano una pala eolica davanti casa, ecco che tutto diventa difficile. Un caso emblematico si è prodotto qualche mese fa nel Giura bernese, quando un raro esemplare di aquila reale è stato decapitato da una pala eolica. Lo sfortunato pennuto, imprudentemente sceso a quota troppo bassa, è stato subito eretto a paladino della malvagità e ingordigia umana. Surreale è però il fatto che chi si era battuto per le pale eoliche contro il cattivo nucleare, è intervenuto dopo l’incidente per chiedere di togliere le pale eoliche e metterle altrove. Come se fossero pezzi di Lego modificabili a piacimento. Follia amara. Anche se temo che della povera aquila reale non importerebbe più nulla se d’un tratto pigiando l’interruttore della luce non vi fosse alcun effetto. Dietro le belle parole dei paladini dell’oltranzismo ideologico alla “Greta Thunberg ”, vi è sempre un’altra correlata realtà che non si può e non si deve sottovalutare. Oggi più che mai è richiesto pragmatismo e apertura mentale, non rigidi approcci ideologici. Pena il rischio di farsi molto male non solo a livello di costi ma anche nella vita pratica di tutti i giorni. Dubito che molti gongoleranno quando non vi sarà più abbastanza energia per ricaricare il proprio prezioso telefonino…

Riflettiamoci ora che siamo “solo” in ritardo, prima che sia troppo tardi e lasciamo perdere i “tuttologi ” che profetizzano la fine del mondo entro tre anni, ma non per colpa loro.

Nessun taglio, solo controllo dell’aumento della spesa

 Comunicato stampa su uno dei temi in votazione il 15 maggio 2022

Il prossimo 15 maggio 2022 il popolo ticinese è chiamato a votare sul decreto legislativo “per il pareggio del conto economico del Cantone entro il 31 dicembre 2025, con misure di contenimento della spesa e senza riversamento di oneri sui Comuni”.
Lo scopo del decreto, come chiaramente indicato nel testo in votazione, non è quello di tagliare prestazioni e penalizzare le fasce più deboli, tanto che non taglia alcuna spesa e non riduce alcun aiuto rispetto a quanto in vigore oggi con le attuali leggi.

Si tratta semplicemente di:

  • risanare le finanze pubbliche spendendo con più oculatezza i soldi dei contribuenti, senza aumentarne il carico fiscale;
  • bloccare il meccanismo che oggi porta lo Stato a spendere di più di quanto non incassi, utilizzando meglio le risorse necessarie per intervenire in modo mirato ed equilibrato laddove necessario.

Impiegare con maggiore senso di responsabilità le risorse messe a disposizione dello Stato dai cittadini e dalle imprese è un dovere anche verso le generazioni future.
La presunta “macelleria sociale” sbandierata dai referendisti è pura demagogia. Non vi saranno tagli nel sociale, nella sanità, nella formazione e in generale nei servizi al cittadino, settori per i quali la crescita della spesa è al contrario costante. Il contenimento della spesa non significa tagliare, ma solo rallentarne la crescita con un utilizzo più ponderato e oculato dei mezzi a disposizione. L’aumento incontrollato della spesa è spesso legato a decisioni politiche più dettate da un calcolo opportunistico che da reali necessità.
Le manovre di rientro degli anni scorsi sono riuscite a riportare in equilibrio i conti pre-pandemici dello Stato, ma la situazione delle finanze cantonali rimane fragile.
È un fatto però che oggi la spesa per i dipendenti pubblici, per il funzionamento della macchina dello Stato e per i sussidi (le tre voci che possono essere oggetto di misure di contenimento) in dieci anni è aumentata di oltre il 30%, in cifre: 709 milioni di franchi.
Anche per i contribuenti ticinesi rispetto al 2010 il carico fiscale è aumentato di 364 milioni di franchi in un decennio.
Senza dimenticare una voce spesso ignorata, cioè quella delle varie tasse (non le imposte), aumentate senza necessità di consultazione popolare e che sono lievitate di 63 milioni di franchi rispetto al 2010. Significativo è che le imposte pagate dai contribuenti ticinesi (senza tenere conto delle imprese) non basta per pagare i salari e i costi derivanti dai salari degli impiegati pubblici.

In questo contesto è più che ragionevole sostenere una proposta che mira a limitare l’aumento incontrollato della spesa, senza toccare le fasce più deboli e le necessità manifeste, che obbliga a utilizzare i soldi dei contribuenti solo per interventi necessari e che impedisce aumenti di imposte che colpirebbero in maniera importante le cittadine, i cittadini e le aziende.

Le strumentali accuse al mondo economico di avere sfruttato lo Stato durante la pandemia, tagliandone ora le risorse non ha alcun fondamento per tre motivi:

  • I crediti concessi alle aziende sono da rimborsare e non costituiscono regali;
  • Non sono stati regali nemmeno gli aiuti IPG e del lavoro ridotto, visto che si tratta di assicurazioni finanziate con i mezzi delle aziende e delle/dei dipendenti a tutela dei posti di lavoro;
  • I contributi a fondo perso sono andati a chi è stato costretto a chiudere per decisione dell’Autorità e si è trovato impedito per ordine superiore a esercitare la sua attività. Un’indennità più che dovuta.

Per questi motivi, le associazioni economiche sostengono il Sì al Decreto legislativo “per il pareggio del conto economico del Cantone entro il 31 dicembre 2025, con misure di contenimento della spesa e senza riversamento di oneri sui Comuni”, in votazione il prossimo 15 maggio 2022.

Pareggiamo i conti senza aumenti d’imposta

L’opinione di Cristina Maderni, Vice Presidente Cc-Ti

Sono tre semplici domande quelle che noi tutti dovremmo porci votando il 15 maggio sul decreto legislativo “per il pareggio del conto economico del Cantone entro il 31 dicembre 2025, con misure di contenimento della spesa e senza riversamento di oneri sui Comuni”. È giusto risanare le finanze pubbliche cercando di spendere con più oculatezza i soldi dei contribuenti, invece di gravare questi ultimi con aumenti di tasse e imposte? È giusto bloccare la perversa spirale per cui da anni le uscite dello Stato sono quasi sempre superiori alle sue entrate? È giusto che il Cantone  abbia i conti in ordine, non spendendo più di quanto incassa, avendo così le risorse necessarie per sostenere le sfide da cui dipende la crescita economica e sociale del Paese?

Noi pensiamo che sia giusto e possibile un maggiore senso di responsabilità su come usare i soldi dei cittadini e delle imprese, che sia anche moralmente doveroso per non gravare i nostri figli e nipoti con un debito ingente non fatto da loro, né per loro.

La sinistra, dopo aver promosso il referendum, ha scatenato una campagna di terrorismo psicologico contro questo decreto, agitando lo spauracchio di una “macelleria sociale”: meno impiegati pubblici e meno servizi per i cittadini, meno personale e meno cure negli ospedali, nelle case per anziani e per l’assistenza a domicilio, meno dipendenti negli asili nido e nei centri extrascolastici, trasporti pubblici più cari e meno collegamenti con le zone periferiche, meno fondi per l’Usi e la Supsi. Niente di tutto questo è vero! Nessun taglio alle prestazioni e agli aiuti di chi ha bisogno avrà luogo! “Contenere” la spesa non significa tagliare, ma solo rallentarne una crescita che è ormai diventata sempre più veloce e troppo sbilanciata rispetto alle entrate.

Nonostante che le manovre di rientro degli anni scorsi siano riuscite a riportare in equilibrio i conti pre-pandemici dello Stato, per le finanze cantonali permane una situazione di estrema fragilità.  La spesa per i dipendenti pubblici, per il funzionamento della macchina dello Stato e per i sussidi (le tre voci su cui si dovrebbe intervenire con misure di contenimento) in dieci anni è aumentata di oltre il 30% (+709 milioni).  Mentre nel 2020 i contribuenti ticinesi hanno sborsato 1156 milioni di imposte, ossia 364 milioni in più di quanto pagavano nel 2010, a cui si aggiungono altri 63 milioni in più di tasse e balzelli vari rispetto ad un decennio fa. Il risultato è che oggi il Ticino è in fondo alla classifica intercantonale sulla competitività fiscale e ai primi posti invece per le finanze traballanti.

L’impatto della pandemia sui conti pubblici ha messo in luce questa condizione di squilibrio strutturale, che sarà ulteriormente acuita dal rallentamento economico causato dal rincaro dei prezzi dell’energia e delle materie prime. In una fase così difficile come quella attuale, pensare di risanare le finanze, non contenendo la spesa, ma aumentando le imposte per cittadini e aziende, come vorrebbe la sinistra, significherebbe spingere il Paese verso un declino senza ritorno.

Un forte impulso all’apprendistato

Il nuovo servizio promosso dalla Cc-Ti per sostenere il tirocinio nelle aziende

Promuovere e potenziare l’apprendistato, sostenere fattivamente le aziende nella gestione dei contratti di tirocinio, affiancare i formatori affinché i giovani apprendisti sviluppino nella formazione anche quelle competenze trasversali sempre più richieste dal mercato del lavoro.
È il nuovo servizio varato dalla Cc-Ti con una società spin-off, la fill-up, creata da Sara Rossini-Monighetti che, grazie alla sua esperienza trentennale nel campo della formazione professionale, dal prossimo giugno seguirà le imprese e le associazioni di categoria su questo importante tema.

Sempre attenta ai bisogni della nostra economia, con questa operazione la Cc-Ti amplia ulteriormente la sua offerta di prestazioni e consulenze per le aziende. Dando vita ad un’importante iniziativa privata che si prefigge di sostenere la tanto auspicata crescita dell’apprendistato in Ticino e creare le condizioni più favorevoli per formare all’interno delle stesse aziende quel personale qualificato che oggi manca nel Cantone. Uno strumento che va ad aggiungersi, completandolo, all’importante lavoro svolto dall’Associazione della rete di aziende formatrici del Canton Ticino (ARAF – www.araf.ch).

Un aiuto diretto alle imprese e al sistema

Grazie al servizio offerto dalla Cc-Ti e fill-up le aziende, oltre ad essere accompagnate nella ricerca e nella formazione degli apprendisti, saranno anche sgravate da tutte le incombenze burocratiche e amministrative annesse ai contratti di tirocinio, dai contatti con la scuola, le famiglie e gli enti cantonali di riferimento. Un notevole carico di incombenze che richiede tempo e specifiche competenze. Le imprese, libere da questi oneri esterni, potranno concentrarsi “unicamente” sulla formazione “tecnica- pratica” degli apprendisti.

Un aiuto fondamentale tenuto conto del fatto che il 90% circa delle aziende ticinesi ha meno di dieci dipendenti. Piccole realtà produttive che sarebbero, spesso, molto interessate ad avere dei giovani in formazione, ma che non hanno il tempo per far fronte a questi compiti gestionali o non dispongono del personale idoneo per seguirli adeguatamente, per cui si vedono costrette a rinunciarvi. Compiti che ora potranno delegare alla piattaforma Cc-Ti-fill- up che fornirà un sostegno a tutto campo nella gestione complessiva degli apprendisti.

Con un supporto strutturato, calibrato sulle loro necessità e su obiettivi concreti, si contribuirà a valorizzare le sinergie tra percorsi di tirocinio, aziende e mercato del lavoro.
Aiutare gli imprenditori a “formare in casa” il personale significa aiutarli a formare quella manodopera qualificata, la cui carenza rischia di penalizzare pesantemente le imprese e la crescita economica.
Con questa iniziativa privata, autofinanziata e che sarà avviata di concerto con le associazioni professionali legate alla Cc-Ti, si vuole incidere su uno dei nodi cruciali dello sviluppo del Cantone. L’apprendistato ha infatti una valenza strategica per rafforzare il sistema produttivo e con questo strumento si intende dare un contributo fattivo a quella carenza di manodopera qualificata segnalata da anni dal mondo economico e regolarmente confermata dalla nostra annuale inchiesta congiunturale. È evidente che si tratta anche di un contributo al sistema generale della formazione e quindi anche di un sostegno agli sforzi profusi dallo Stato per il collocamento degli apprendisti.

Come funziona

Il servizio della Cc-Ti e fill-up si basa su due pilastri: “Apprendista plus” e “Associazioni Pro”. Il servizio “Apprendista plus”è dedicato alle aziende e presenta un’offerta modulare. In una prima fase viene definito il profilo del giovane apprendista che interessa all’azienda, seguono poi la ricerca e la valutazione dei candidati che più corrispondono alle esigenze richieste, la selezione finale e la sottoscrizione del contratto di tirocinio, con la verifica dei requisiti necessari per poter formare e delle relative autorizzazioni cantonali. Il coaching è la fase cruciale, nella quale si sostiene, invece, in maniera mirata il formatore e l’apprendista per stimolarli ad un approccio fattivo alla formazione, al lavoro e all’acquisizione di quelle competenze trasversali che oggi sono più che mai indispensabili in ogni settore produttivo.
Un’assistenza personalizzata, quindi, per permettere all’apprendista di sviluppare anche le soft skills che gli permetteranno di rapportarsi positivamente col suo ambiente di lavoro e l’attività professionale. Un insieme di competenze e di qualità attitudinali come, ad esempio, empatia, intelligenza emotiva, capacità di fare squadra, efficacia comunicativa, creatività, flessibilità, spirito d’iniziativa, pensiero critico e auto motivazione, che nei curricula contano ormai quanto le competenze più strettamente tecniche per restare allineati con le necessità del mercato.

E che saranno ancora più importanti domani, sottolinea Sara Rossini-Monighetti: “ci troviamo, difatti, davanti ad un passaggio molto delicato – spiega –, in cui bisogna relazionare in modo costruttivo e vantaggioso per tutti due entità molto distanti tra di loro: la Generazione Z, ossia i giovani nati tra il 1995 e il 2010, che ha un suo specifico sistema valoriale e culturale, con aspettative molto diverse rispetto a quelle delle generazioni precedenti, e un mondo del lavoro che va trasformandosi con una rapidità mai registrata prima. In questo complesso passaggio generazionale e tecnologico è importante mettere bene a fuoco le soft skills necessarie per affrontare bene attrezzati il futuro. Senza dimenticarci del successo formativo che si trasforma poi in risorsa qualificata a disposizione dell’economia“.
Il supporto alle imprese non è sufficiente per dare il giusto posizionamento e visibilità all’apprendistato e alle professioni. Il servizio “Associazioni Pro” si rivolge per questo motivo alle associazioni professionali che vengono chiamate sempre più a una gestione comparabile a quella aziendale. Intervenire sia sul fronte aziendale che su quello associativo è assolutamente indispensabile per raggiungere l’obiettivo di far crescere l’interesse per l’apprendistato.

Nuove opportunità per gli apprendisti

Il Ticino detiene attualmente il non invidiabile primato nazionale del più alto tasso di scioglimenti di contratti di tirocinio, il 30% circa. Interessante è però il fatto che i giovani non interrompono o modificano la formazione intrapresa, ma di norma cambiano solo datore di lavoro. È un chiaro segnale che occorre far collimare le aspirazioni dei giovani con le esigenze di un mercato del lavoro sempre più complesso, caratterizzato non più solo da avanzate abilità tecniche, ma anche da importanti competenze trasversali. Il concetto classico di forza lavoro qualificata si basa su una formazione specialistica che contempla tutta una serie di capacità tecniche ben definite per ogni mestiere. La trasformazione tecnologica e del mercato del lavoro richiede, con forza, però a tutti gli operatori qualità che permettano di adattarsi rapidamente ai cambiamenti. Le competenze tecniche, codificate e organizzate per professione, e quelle comportamentali vanno ormai di pari passo.
Un mix equilibrato di soft e hard skills oggi è indispensabile. La Cc-Ti, con fill-up e la relativa consulenza specializzata, raccoglie questa sfida nell’interesse di apprendisti e aziende.

Un circolo virtuoso

Un modello analogo al servizio “Apprendista plus ” si sta realizzando a Neuchâtel per iniziativa anche qui della locale Camera di commercio e dell’industria, con la quale la Cc-Ti collabora strettamente; un progetto pilota sta gestendo una quarantina di contratti di tirocinio. I risultati sono molto positivi. A dimostrazione che anche nella realtà latina della Svizzera vi è un potenziale importante per rafforzare l’apprendistato, malgrado vi sia un notevole ritardo rispetto a quanto avviene in Svizzera tedesca. È bene sottolineare che l’apprendistato garantisce ottimi sbocchi occupazionali e ben retribuiti, così come l’accesso, se lo si desidera, ad una formazione superiore. Per le aziende, vi è l’opportunità preziosa di formare figure specialistiche che ormai mancano anche sul mercato del lavoro internazionale. “Facendo crescere i propri specialisti in casa non solo si limita il pericolo della mancanza di manodopera qualificata, ma si radica in loro il senso di appartenenza all’azienda e al territorio in cui si opera – nota Sara Rossini-Monighetti –. Con il nostro servizio vogliamo anche creare questa atmosfera del sentirsi parte, partecipi di qualche cosa”.

Numeri buoni ma migliorabili

Lo scorso anno in Ticino, nonostante le difficoltà provocate dalla pandemia, sono stati sottoscritti 2’523 contratti di tirocinio, 130 in più rispetto al 2020, conseguendo il risultato più alto dal 2015. Dati che dimostrano tutta la buona volontà e l’impegno delle nostre aziende sebbene confrontate con quei problemi che da sempre, come già detto, condizionano l’approccio all’apprendistato e che erano stati ben evidenziati nell’inchiesta congiunturale della Cc-Ti di qualche anno fa, quando era emerso chiaramente che le maggiori difficoltà per rafforzare l’apprendistato non erano legate a motivi finanziari ma soprattutto gestionali. Il reverse mentoring, ad esempio, deve essere concertato tra le parti in maniera ottimale. Come detto in precedenza, non tutte le imprese hanno il tempo materiale e le risorse interne per potersi occupare compiutamente di un percorso d’apprendistato.

L’obiettivo della Cc-Ti con fill-up è ridimensionare gli ostacoli che impediscono di correggere l’attuale squilibrio fra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Una collaborazione volta a un obiettivo comune sempre più lineare ed esente da freni.

www.fill-up.ch