L’opinione di Glauco Martinetti, Presidente Cc-Ti
Qualche mese fa ho avuto l’onore di presentare le strutture economiche ticinesi ai delegati di un’importante associazione nazionale, quella dell’industria tessile, che si è riunita per l’assemblea generale a Lugano. Ho cercato di dare qualche indicazione sul Ticino economico, realtà poco conosciuta oltre Gottardo. Penso però che possa essere utile ricordare qualche punto anche ad uso dei ticinesi, poiché ho l’impressione che nel dibattito pubblico si parli troppo spesso senza conoscere la realtà economica del territorio e limitandosi a formule vuote come “capannoni” o tirando in ballo la minoranza di chi non rispetta le regole.
Può essere sorprendente e taluni tendono a negarlo perché il catastrofismo è purtroppo molto più pagante, ma da alcuni anni il Ticino non è più il parente povero della Confederazione. E non mi riferisco solo alle statistiche sulla disoccupazione, che ogni mese creano puntualmente polemiche, ma soprattutto alle tendenze economiche generali. Il Ticino è un cantone dinamico, che se la gioca con le altre regioni elvetiche. Seguiamo da anni l’andamento elvetico, come emerge dai costanti confronti che effettuiamo con i colleghi della Svizzera tedesca e della Svizzera romanda. Non siamo paragonabili a Zurigo in cifre assolute, ma le dinamiche, in proporzioni più ridotte, non sono dissimili. I motivi sono molti, ma uno è sicuramente il fatto che l’economia ticinese ha una struttura molto diversificata, il che costituisce a mio avviso un’innegabile forza. Non è del resto casuale che negli ultimi anni il Ticino abbia resistito abbastanza bene alle varie crisi e si sia mantenuto nella media nazionale dal punto di vista economico generale, malgrado dal 2008 vi siano state tre importanti crisi (una finanziaria e due legate al cambio franco-euro. La capacità di reazione e di adattamento del mondo imprenditoriale ticinese, purtroppo sottovalutata perché non meritevole di slogan paganti elettoralmente, è un fatto che deve assolutamente essere sottolineato. Penso che determinate reazioni ostili verso l’economia e di natura sbagliata, se pensiamo a talune regole nuove introdotte a livello cantonale negli ultimi mesi, siano dovute anche a una misconoscenza della realtà economica cantonale. Ad esempio non sono certo che molti sappiano che, per quanto riguarda il prodotto interno lordo (PIL), il maggiore settore cantonale è l’industria, con una parte di circa il 22%. Molto di più di settori di regola immediatamente identificati con il Ticino e penso in particolar modo al settore finanziario in senso lato e a quello del turismo. La piazza finanziaria (con le assicurazioni), rappresenta circa il 17,5% del PIL, il commercio l’11,2%, l’edilizia il 6,6% e il settore turistico il 10,5%. Vero che poi vi sono altri parametri come il numero di occupati, il gettito fiscale ecc, eppure questa vocazione industriale del nostro cantone non può essere semplicemente ignorata, benché è chiaro che ogni settore è fondamentale e contribuisce appunto a creare quell’economia diversificata di cui dicevo prima. E’ un peccato che tale elemento sia poco noto, perché ridurre definire genericamente come “capannoni” eccellenze mondiali nell’ambito farmaceutico (che il settore più grande dell’ambito industriale), dell’industria meccanica e elettronica, dell’alimentare e della moda significa porre le basi per una discussione pubblica e politica falsata, ideale per preparare il terreno di decisioni avulse dalla realtà. Ignorando elementi-chiave della forza economica ticinese. Anche perché gli ambiti industriali citati sono stati decisivi per promuovere l’internazionalizzazione della nostra economia, sviluppando un nuovo potenziale che ha portato negli ultimi venti anni ad aumentare in modo considerevole il volume delle esportazioni, passato da 3,1 miliardi di franchi nel 1995 a 8,2 miliardi nel 2010, con tendenza all’incremento. Il Ticino è così diventato un territorio rilevante a livello internazionale e questo non ha solo risvolti negativi come taluni vorrebbero far credere, parlando solo e genericamente di dumping salariale, devastazione del territorio (i “famigerati “capannoni”), traffico. ecc. Come per ogni territorio che si sviluppa, vi sono problemi di crescita, dovuti a questioni infrastrutturali, istituzionali, ecc. che vanno senza dubbio risolti attraverso il confronto, ma ragionato e senza caccia alle streghe. Perché il benessere fa comodo a tutti, compresi quelli che lo criticano salvo poi esigere sempre più ricchezza da distribuire, senza pensare che questa ricchezza in qualche modo va creata. Mettendo qualche paletto, ma va comunque dapprima creata, altrimenti non vi è granché da distribuire.
Purtroppo, presi come siamo dalle discussioni che vertono attorno all’Italia, si tende a dimenticare che negli anni la „nazionalità“ delle aziende presenti in Ticino è sempre più variegata (Germania, Francia, Stati Uniti., Gran Bretagna ecc.), senza dimenticare le industrie confederate insediate sul nostro territorio in varie forme. Non è del resto un caso che ci si preoccupi della reazione italiana negativa verso la clausola di salvaguardia proposto dal Ticino per l’applicazione dell’articolo costituzionale che dovrà regolare l’immigrazione, dimenticando che dobbiamo negoziare con l’Unione europea e non con l’Italia su questo tema. La prossimità territoriale con il vicino meridionale porta a sottovalutare il fatto tutta l’Unione europea svolge un ruolo importante per le nostre relazioni commerciali, perché il portafoglio di clienti delle industrie esportatrici va ben oltre le relazioni con l’Italia. Non a caso stanno diventando sempre più rilevanti mercati come la Russia, il Kazakistan e la Turchia, che non potranno mai sostituire l’Unione europea, ma che rappresentano opportunità di business alternative comunque interessanti per i nostri numeri, destinati prioritariamente a coprire nicchie di mercato con prodotti di alta qualità. All’insegna di uno Swissness reale e non burocratico. In quest’ottica, non è nemmeno casuale che nell’ambito del commercio di materie prime il Ticino svolga un ruolo fondamentale a livello mondiale con Ginevra e Zugo. Ma l’impronta internazionale non deve far dimenticare l’importanza delle relazioni confederali, sia sul piano politico che su quello economico. La centralità delle relazioni con il resto della Svizzera è fuori discussione. Se sul versante politico essa è chiara, lo è molto meno, purtroppo, su quello economico. Come già rilevato in precedenza, la presenza di aziende confederate in Ticino è assai rilevante e molte aziende ticinesi lavorano a stretto contatto con altre imprese svizzere, per cui il nord assume un ruolo fondamentale in particolare per le realtà produttive. Sia per i contatti diretti (fornitori, clienti) che per l’esportazione, visto che il principale aeroporto di riferimento è quello di Zurigo e non Milano, come taluni potrebbero pensare. E’ quindi assolutamente logico che ci siamo sempre battuti e continueremo a farlo per la complementarietà dei mezzi di traporto, perché un vettore non esclude un altro e ferrovia, strada e anche aereo devono convivere perché imprescindibili per un’economia dinamica, fortemente legata alle dinamiche nazionali e internazionali.
Tutto bene quindi? Sarebbe troppo bello, ma mi piace avantutto sottolineare i nostri punti di forza. Vi sono ovviamente, come per tutti i paesi del mondo, anche alcuni punti deboli. Anche se, lo ribadisco, le principali preoccupazioni del Ticino oggi non sono dissimili da quelle delle altre regioni svizzere, in primis il franco forte che crea qualche problema di competitività, oppure l’imminente riforma III dell’imposizione delle imprese, che prospetta per il sistema fiscale cambiamenti epocali e non gestibili con facilità (o faciloneria…). Poi ci sono ovviamente tutte le questioni molto tematizzate e oggetto di continue discussioni legate ai frontalieri, ai padroncini, al dumping salariale, che vanno affrontate con serietà e senza isterismi. La Cc-Ti ha sempre dato il suo contributo in quest’ottica, sostenendo ad esempio il rafforzamento dei controlli a tutela di lavoratrici e lavoratori ma anche della stragrande maggioranza delle aziende oneste. E su questa linea intendiamo continuare a operare, senza farci dare lezioni da chi inveisce quotidianamente contro i frontalieri salvo poi occuparne senza ritegno nell’azienda in cui lavora. Se non riusciamo a recuperare un po’ di capacità di analisi e di discussione, sarà inevitabile creare ulteriori difficoltà invece di risolvere i problemi.
Sarebbe peccato scavare ulteriormente il solco che diventa sempre più grande fra le tentazioni di ripiegamento verso le questioni interne e un’economia sempre più caratterizzata da relazioni nazionali e internazionali. E’ solo con il giusto equilibrio fra legittime preoccupazioni per il territorio (mobilità, pianificazione, immigrazione, ecc.) e l’apertura a orizzonti più ampi che si può pensare di rimanere competitivi e quindi un cantone prospero. Eccessi in un senso o nell’altro non sono paganti. Vale per l’imprenditoria ma anche per la politica. Fra chi sogna l’autarchia e chi non ha sensibilità verso la realtà in cui opera c’è un mare molto ampio (costituito non solo da imprese) che agogna questo equilibrio. Sarebbe peccato se il cantone che gioca un ruolo fondamentale sul più importante asse-sud-nord in Europa fosse un “ostacolo” alle relazioni nazionali e internazionali. Vi sono oggettivamente ragioni che giustificano lo scetticismo verso l’UE in particolare o qualche critica alla Confederazione, ma non si può vivere di sole percezioni. Legittime e rispettabili, ma non sempre corrispondenti alla realtà dei fatti. E che il Ticino, lavorando in modo serio e articolato, ottenga udienza anche laddove molte decisioni vengono prese (Berna in particolare), è dimostrato da molti esempi. Visto che su taluni temi addirittura siamo precursori, cerchiamo di sfruttare al meglio. Fare di necessità virtù, si è soliti dire. Mi sembra particolarmente azzeccato.