Intervista a cura della Cc-Ti con Marco Salvi, Senior Fellow presso Avenir Suisse
Avenir Suisse ha pubblicato poche settimane fa un rapporto speciale dedicato al Ticino. Un’analisi che evidenzia un’economia in netta ripresa e con forti potenzialità, grazie anche alla diversificazione del sistema produttivo. Per il nostro Cantone si sottolinea, tuttavia, una pericolosa tendenza protezionista ed isolazionista. Secondo l’economista Marco Salvi (Senior Fellow presso Averni Suisse), uno degli autori dello studio, per assicurarsi una crescita duratura il Ticino dovrebbe, innanzitutto, ritrovare al più presto un clima di fiducia sulle sue possibilità e sui vantaggi di un’economia aperta. Una visione più positiva della realtà odierna, insomma, che oggi appare spesso soffocata da un regionalismo esasperato.
Ci sono altri fattori su cui agire per consolidare la crescita?
“Bisogna insistere ancora di più sulla formazione che in Ticino sta dando risultati interessanti. L’USI e la SUPSI sono molto internazionalizzate e fra gli unici atenei elvetici con una strategia di esportazione. A differenza di altre istituzioni universitarie svizzere generano introiti grazie alla presenza di studenti stranieri. Non va, però, dimenticato che alcuni problemi che vive attualmente il cantone rientrano nelle competenze della Confederazione. Basti pensare, ad esempio, alle difficoltà che si hanno con l’Italia per il rispetto della reciprocità nell’accesso al mercato. Al cantone servirebbe un accordo globale con l’UE e su questo aspetto che si dovrebbe insistere a Berna”.
Dal 2008 la crescita in Ticino ha superato dell’1,5% quella della media nazionale, un risultato positivo che, come sottolinea la vostra analisi, è dovuto anche all’apporto dei frontalieri. Eppure, i lavoratori d’oltre confine non sono visti qui come una risorsa, bensì come una presenza devastante per il mercato del lavoro. Come spiegare questo atteggiamento?
“Spero che si riesca a superare questo atteggiamento e che il tema dei frontalieri non continui a dominare il confronto politico. Se si guardano con oggettività i dati, si vede che è sbagliato pensare che i frontalieri sostituiscano i lavoratori residenti, che rubino il lavoro ai ticinesi come si ripete spesso nel dibattito politico. Può essere che questo effetto sostituzione ci sia stato in alcuni casi individuali, ma non a livello regionale. Se si analizza l’insieme dei dati sull’andamento dell’occupazione, risulta che più lavoro per frontalieri significa più lavoro anche per i ticinesi. Perché più lavoro crea altro lavoro, altre possibilità d’impiego. Non si spiega altrimenti la forte diminuzione della disoccupazione nonostante l’aumento del frontalierato. Bisogna superare la convinzione errata che il lavoro sia una quantità definita”.
Ma oggi i frontalieri sono diventati il capro espiatorio per la disoccupazione, per le strade intasate dalle loro auto e per il dumping salariale. Un insieme di problemi che inasprisce ulteriormente il rapporto con i lavoratori d’oltre confine.
“Va ricordato che per buona parte degli anni ‘90 la disoccupazione nel Cantone era molto più alta di oggi, e a volte con tassi doppi rispetto a quelli odierni, sebbene allora non si registrasse un aumento dei frontalieri. Attualmente spaventa il fatto che dall’Italia non arrivino più soltanto manovali per l’edilizia e operai per le fabbriche, ma anche lavoratori qualificati. L’economia ticinese ha però bisogno di loro per continuare a crescere ed è miope pensare che danneggino il mercato del lavoro. La loro attività contribuisce, infatti, a creare altre attività, altre occasioni d’impiego. Il traffico e i trasporti sono certamente problemi reali, ma per risolverli la Confederazione e il Cantone dovevano intervenire prima. Oggi l’acuirsi di questi problemi concorre ad esasperare anche la questione dei frontalieri”.