Energia… tra sapere e conoscere

La trasformazione digitale della nostra società è ormai una realtà consolidata e presenta una quantità di vantaggi innegabile per cittadine, cittadini e per l’economia. È un fenomeno inarrestabile e che va sostenuto perché i vantaggi sono tangibili. Sarebbe però sbagliato sorvolare completamente sugli effetti generali della trasformazione digitale, non per ultimi, quelli ambientali. Non per stigmatizzare tale trasformazione, ma semplicemente per rilevare alcuni lati poco conosciuti, ma che possono e devono essere fondamentali quando la politica è chiamata a prendere talune decisioni, evitando di partire da assunti errati.

Fonte: The Shift 2018, as of Andrae & Edler, 2015

Digitale = neutrale?

La smaterializzazione dei componenti potrebbe indurre a pensare che si possano, in questo modo, contenere le conseguenze ambientali. In sostanza lo streaming dei film e i servizi di consumo di musica online (Spotify, ITunes, Tidal per citarne solo alcuni) che hanno soppiantato DVD e CD potrebbero apparire come meno invasivi, avendo eliminato o ridotto i supporti fisici. Analogamente alle mail che spesso sostituiscono le lettere cartacee, il giornale letto su supporto elettronico o azioni banali come i messaggi su Whatsapp o il prelievo di denaro al bancomat, internet stesso, ecc.

Questa “sostituzione” è, in un certo senso, invisibile ma non innocua.  Intendiamoci. Non si tratta di stigmatizzare questa tendenza, né di giudicarla sulla base di slanci nostalgici, ma per poter affrontare discorsi seri, proprio anche sul tema ambientale, è necessario veicolare la propria consapevolezza sul fatto che non si tratta di attività ecologicamente “neutrali”, contrariamente a quanto taluni posso credere o affermare.

L’impatto ecologico della trasformazione digitale

Taluni forse esagerano sostenendo che la trasformazione digitale, come in atto oggi, non prevenga lo squilibrio climatico, ma anzi concorra in maniera importante a crearlo e che l’intensità energetica dell’industria digitale non è già più sostenibile.

Si tratta probabilmente di un’esasperazione, anche se va detto che il consumo di energia legato al digitale aumenta di circa il 9% all’anno (dato pre-pandemia) e che la quota di emissione di gas a effetto serra proveniente dall’ambito digitale ha conosciuto un aumento dal 2,5% al 4% del totale delle emissioni mondiali.

Dati che si pongono chiaramente sopra al tanto vituperato traffico aereo. Questo dovrebbe far riflettere prima di colpire disordinatamente i settori economici solo perché è sempre “accattivante” e semplicistico farlo.

La quota delle emissioni legata al digitale potrebbe aumentare nei prossimi anni tanto da raggiungere quella dei veicoli.

Se da una parte lo sviluppo tecnologico spesso aiuta anche a migliorare la sostenibilità dei prodotti, non sempre gli effetti sono quelli desiderati. Secondo una ricerca del Think Tank francese “The Shift Project” (il rapporto Lean ICT- Towards Digital Sobriety), ad esempio la produzione dell’IPhone 6 (ormai parliamo di preistoria) portò a generare 4 volte più gas a effetto serra rispetto alla produzione dell’IPhone 3GS, in ragione della capacità superiore di stoccaggio dei dati.

Anche un gesto apparentemente innocuo come l’invio di una mail ha conseguenze ambientali non trascurabili. Uno studio condotto recentemente in Francia dall’Agenzia dell’ambiente e di controllo dell’energia ha calcolato che ogni impiegato francese riceve in media 58 mail professionali al giorno e ne invia 33. Queste 33 mail, accompagnate da un allegato di 1 Megabyte a due destinatari, a esempio, genera emissioni equivalenti a 180 chilogrammi di CO2, quindi l’equivalente di 1’000 chilometri percorsi in auto (non elettrica, of course).

Secondo questo calcolo, le mail di un’impresa di 100 persone porterebbero quindi all’emissione annuale di 18 tonnellate di gas a effetto serra, quindi l’equivalente di 18 voli andata e ritorno Parigi-New York.

Forse qualcuno ricorderà anche che lo scorso anno Netflix abbassò in maniera considerevole la risoluzione del suo streaming in particolare durante il primo lockdown nella primavera del 2020. Perché? Semplicemente perché lo streaming di video già in condizioni “normali” portava alla produzione di 300 milioni di tonnellate di CO2, quanto prodotto da una nazione come la Spagna, cioè l’1% delle emissioni mondiali. In sostanza, 30 minuti di video in streaming “pesano” dai 28 ai 57 grammi di emissioni di CO2 e corrispondono a una percorrenza di un tragitto in automobile fra 1 e 8 chilometri. L’esplosione dello streaming illimitato quando le persone sono state rinchiuse in casa avrebbe portato, da una parte, all’intasamento delle linee, difficoltà di approvvigionamento energetico e ovviamente, last but not least, a una crescita esponenziale delle emissioni.

10 ore di film in alta definizione contengono tanti dati come oltre due milioni di articoli in inglese di Wikipedia. I video pornografici rappresentano circa il 30% del traffico di video mondiale e nel 2018 hanno generato più di 80 milioni di tonnellate di CO2.

Le emissioni di gas a effetto serra dei servizi di streaming video (Netflix, Amazon prime, ecc.) equivalgono alle emissioni di gas effetto serra del Cile. Un’ora di streaming alla settimana, in un anno, consuma circa come due frigoriferi nello stesso arco di tempo.

Va detto che alcuni studi relativizzano questo impatto, riconducendolo non tanto alla produzione e alla diffusione dei video, quanto all’utilizzo di terminali magari non utilizzati nella maniera più performante oppure con una tecnologia inadatta. Detto altrimenti, i dati cambiano se si guardano video su uno schermo a 65 pollici oppure sul telefono cellulare. In effetti, il consumo dei prodotti digitali, come tutte le attività umane, va valutato tenendo conto di tutti gli elementi della “catena”. Resta il fatto che le attività digitali hanno un impatto.

Per una telefonata di un minuto o l’invio di un sms si calcola che vi sia un’emissione di CO2 di 0.014 grammi, mentre un Tweet “pesa” 0,2 grammi. Più pesanti sono gli invii di messaggi via chat, che possono variare da 3 a 50 grammi, così come una mail che, a dipendenza della dimensione degli allegati, può portare a emissioni di CO2 dai 4 ai 50 grammi. Per un utente di Facebook si calcola che in media vi sia un’emissione di 299 grammi sull’arco di un anno. Sembra poco rispetto ai circa 95-120 grammi di CO2 al chilometro prodotti in media da un’automobile, ma sommando tutti i consumi di queste attività digitali, i valori sono rilevanti.

In un contesto del genere, è abbastanza facilmente comprensibile che il telelavoro, ad esempio, toglie molti spostamenti ma al contempo apre nuovi fronti su cui riflettere e non può essere certo considerato come soluzione ideale sotto tutti gli aspetti. Basti pensare che una videoconferenza di un’ora può generare fra i 150 e i 1000 grammi di CO2.

Come si spiega il fenomeno?

Di per sé la spiegazione è abbastanza banale. Per scambiare queste enormi quantità di dati, che siano video, musica, messaggi, ecc., attraverso computer, telefonini e altro, utilizzando il cavo, la fibra ottica, le antenne di telefonia mobile è necessaria una grande quantità di elettricità, che per essere prodotta richiede un forte consumo di risorse che porta a una considerevole emissione di CO2.

Oltre al consumo va tenuto conto che lo stoccaggio dei dati è molto complesso e inevitabilmente energivoro, anche e soprattutto per le necessità di raffreddamento delle strutture. I circa 4’000 centri di appoggio presenti nel mondo necessitano di circa 30 miliardi di Watt per funzionare, ciò che rappresenta circa il 4% del consumo energetico mondiale e relative emissioni di CO2.

In generale, le cifre riguardanti l’impatto ambientale del digitale sono spesso basate su stime ed è abbastanza difficile avere dati molto precisi. Ma tutti gli studi sembrano convergere sostanzialmente nella stessa direzione, grammo di CO2 in più o in meno.

Come rimediare?

Come detto in precedenza, non si tratta di stigmatizzare la trasformazione digitale, anzi. È ormai un elemento essenziale e imprescindibile della nostra vita quotidiana e professionale. È piuttosto importante sviluppare una consapevolezza per prendere le decisioni giuste anche in ambito energetico o ambientale, senza false credenze. Prima di rinunciare a fonti di approvvigionamento apparentemente poco ecologiche è giusto sapere di cosa si parla e quali siano le reali necessità energetiche del sistema odierno. In questo senso, il ricorso a energie rinnovabili sembra insufficiente per coprire un bisogno sempre maggiore di energia in tempi molto brevi. La produzione di energia non è uno scherzo e, purtroppo, difficilmente qualche pala eolica basterà per ricaricare miliardi di telefoni cellulari (a oggi circa 6 miliardi).

L’evoluzione tecnologica in questo senso potrà aiutare, anche se abbiamo visto che talvolta non è priva di altri problemi. Soluzioni innovative come il raffreddamento dei centri di raccolta dei dati con l’acqua di un lago, come già conosciamo in Ticino, aiutano certamente. Ma è ovvio che si tratta di un problema complesso che coinvolge in primis i comportamenti individuali, il sistema economico, quello politico, ecc. e che richiede un sano pragmatismo. Come al solito non si risolve nulla forzando le situazioni con presunte soluzioni facili, divieti o tasse supplementari.

Una certa “dieta digitale” può dare una mano, con piccoli accorgimenti. Ad esempio, la rinuncia alla massima risoluzione dei video guardando una partita di calcio potrebbe portare a non distinguere esattamente tutti i fili dell’erba, ma rimarrebbe sufficiente per godersi lo spettacolo. È solo un piccolo esempio banale di un problema tutt’altro che banale. La consapevolezza di tutti eviterebbe inutili e dannose crociate soprattutto, come sempre, contro i settori dell’economia.

L’associazione-mantello dell’economia ticinese incontra il Consigliere di Stato Christian Vitta

Comunicato stampa Cc-Ti

Negli scorsi giorni l’Ufficio presidenziale della Cc-Ti, che raggruppa le maggiori associazioni di categoria, ha avuto l’onore di ospitare il Consigliere di Stato e Direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta. L’incontro si è svolto nel quadro di regolari appuntamenti di aggiornamento, essenziali per il monitoraggio coordinato dell’andamento economico e il confronto sulle misure disposte dalle autorità cantonali, in particolare durante il periodo pandemico.

L’Ufficio presidenziale ha preso atto con soddisfazione dei più recenti dati economici del Cantone presentati dal Consigliere di Stato. Il segno positivo di tali dati testimonia dell’efficacia delle misure introdotte dalle autorità federali, cantonali e comunali e della forte capacità di adattamento dell’economia cantonale. Ancora una volta, la diversificazione del tessuto economico ticinese si è rivelata un elemento decisivo per garantire la solidità del sistema.

L’associazione-mantello dell’economia ticinese ha ribadito al Consigliere di Stato la volontà di continuare sulla via di una collaborazione costruttiva, come dimostrato anche nei momenti più difficili della pandemia. È stata ribadita la necessità di mettere in atto in maniera completa la riforma fiscale delle imprese già approvata dal Parlamento e dal popolo e di continuare a puntare sul sostegno all’innovazione in tutti i settori dell’economia cantonale, utilizzando al meglio gli strumenti già a disposizione. L’innovazione, immanente all’attività degli imprenditori, rappresenta un elemento centrale per mantenere la competitività delle aziende e quindi garantire i posti di lavoro, per cui la collaborazione fra Stato ed economia, ognuno nel suo ruolo, è di importanza fondamentale.

L’Iniziativa socialista del “99%” sarà un boomerang per l’economia e il ceto medio

L’opinione del Presidente Cc-Ti Andrea Gehri.

Populisticamente nobile nelle intenzioni: “Sgravare i salari, tassare equamente il capitale”, devastante, però, nei suoi effetti.

L’“Iniziativa 99%” di Gioventù socialista, su cui si voterà il 26 settembre, si configura come un esproprio proletario su scala nazionale. Che non toccherebbe soltanto quell’1% dei cosiddetti “super ricchi” (di cui peraltro il Paese non può fare a meno, poiché pagando da soli quasi un quarto del totale delle imposte sul reddito, assicurano alla Confederazione ingenti entrate fiscale), ripercuotendosi, invece, con gravi danni su tutta l’economia e la società.

Tassare al 150%, anziché al normale 100%, i redditi da capitale al di sopra una certa soglia – genericamente indicata dagli iniziativisti a 100mila franchi – aggiungendo in pratica un reddito fittizio a quello reale, significa sovvertire i principi costituzionali del sistema fiscale.
Con una sovratassazione che colpisce direttamente le piccole e medie imprese, in particolare le aziende familiari, le start-up, i proprietari di case, gli agricoltori e persino i piccoli investitori.

Se per le PMI la sovraimposizione del 150% si tradurrebbe in un indebolimento del loro capitale e, quindi, della loro capacità d’investimento e d’innovazione, per le aziende familiari ci sarebbe un costo aggiuntivo molto oneroso che, oltre a privarle d’importanti risorse, renderebbe ancora più difficile e costosa la successione aziendale. Dovendo pagare le imposte anche su un aumento di valore fittizio, la successione costerà infatti di più e chi vorrà subentrare nella proprietà sarà probabilmente costretto ad indebitarsi.

Nel nostro Paese l’80% delle imprese è a conduzione famigliare e ogni anno si registrano 3’400 successioni aziendali, invece di facilitare questo delicato passaggio, l’iniziativa lo rende più complicato e caro. Analoghe le difficoltà per la successione delle aziende agricole ai giovani contadini. Che si voglia vendere un’impresa o una fattoria, con la nuova tassazione il prezzo aumenterà notevolmente, scoraggiandone così l’acquisto o gravandolo di debiti che potrebbero poi portare al fallimento.

Più problematico anche il futuro della start-up. Generalmente i loro fondatori per mancanza di liquidità si accontentano all’inizio di stipendi modesti e, nella maggior parte dei casi, vedono ricompensato questo sacrificio nel momento in cui vendono le loro azioni o i diritti di partecipazione ad un’impresa più grande. Vendita che però verrebbe pesantemente tassata qualora venisse approvata l’iniziativa socialista. Il che vuol dire disincentivare la creazione di start-up e castrare nuovi impulsi all’innovazione. Anche gli investitori privati, fondamentali per l’avvio di una start-up, sarebbero sottoposti ad un maggiore carico fiscale che potrebbe dissuaderli dall’investimento.

Neppure chi vende una casa sarebbe risparmiato dall’iniziativa “99%” che di fatto introduce una imposta federale sugli utili immobiliari che va ad aggiungersi a quella cantonale.

Stessa sorte per i piccoli risparmiatori, ossia gran parte della popolazione, che investono in Borsa. Qualora ricavassero degli utili sul capitale, oggi esentasse, domani potrebbero essere tassati, mentre se, a causa della riconosciuta volatilità della borsa l’anno successivo dovessero contrarre perdite sul medesimo capitale, si ritroverebbero con una doppia beffa. Tassati e perdenti!

Ci sono, dunque, mille ragioni per bocciare un’iniziativa che penalizza l’economia, i piccoli imprenditori e il ceto medio. Un “unicum svizzero” che terrebbe lontani dal nostro Paese imprese estere e facoltosi contribuenti stranieri. Col rischio di vedere anche andare via molti quelli che avevano già scelto di vivere e lavorare in Svizzera.

Il prezzo da pagare

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in più occasioni durante questi ultimi mesi, l’aumento dei prezzi e la scarsità di talune materie prime è fonte di preoccupazione importante per l’economia.

In questo contesto l’importante aumento dei costi di trasporto costituisce un ulteriore fattore aggravante che tocca tutti i settori, dall’automobile all’agroalimentare, dall’elettronica al tessile. Basti pensare che i circa 5’000 pezzi che compongono un’automobile arrivano da molti Paesi diversi sparsi in tutto il mondo. Acciaio, plastica, componenti elettronici, elementi meccanici, ecc. devono essere trasportati per via marittima, fino a qualche tempo fa la meno costosa, aerea oppure con la ferrovia e i camion laddove possibile.

Soffermandosi sulla via marittima, essenziale per i trasporti delle merci, si può osservare che, oltre ai tempi di fornitura molto dilatati, i prezzi per i container sono quasi quintuplicati nello spazio di un anno. Ad esempio, un container per la tratta Shanghai – Le Havre può costare anche 17’000 dollari contro i 2’000 dollari necessari prima della crisi pandemica. Inoltre, essendo i porti sovraccarichi, non capita di rado che un trasporto invece di attraccare al porto previsto, come Le Havre nell’esempio appena citato, faccia rotta su un altro porto come può essere Anversa, aumentando evidentemente i costi e allungando i tempi di fornitura.
A Los Angeles i tempi di attesa per scaricare le merci dalle navi vanno dalle due alle tre settimane. Fra le cause principali di questo aumento dei prezzi, a parte la mancanza di alternative di trasporto per talune merci, figurano i consumi durante i periodi di lockdown.

L’aumento esponenziale degli ordini di prodotti online (in larga parte provenienti dall’Asia) ha creato un sovraccarico del trasporto marittimo e una conseguente scarsità di container a disposizione. A fronte del calo massiccio del trasporto di passeggeri, quello delle merci è addirittura aumentato, con incrementi del 27% nel primo semestre 2021, rispetto allo stesso periodo nel 2019 (+37% rispetto al primo semestre del 2020). Nemmeno i 600’000 container supplementari ordinati durante la pandemia e i 180’000 che dovrebbero essere disponibili nei prossimi mesi sono stati sufficienti per arginare la situazione. Con un inevitabile rialzo dei prezzi. Se questo ha ridato il sorriso agli armatori, dapprima paralizzati nella prima fase della pandemia e ora confrontati a un importante aumento degli utili, il resto dell’economia è colpito in maniera pesante in molti settori e in tutti i Paesi. Il problema è che una fine a breve termine non è prevista, dato che si parla di una normalizzazione verso la primavera del 2022, cioè dopo il Capodanno cinese. Si avvicinano momenti di ordinazioni importanti legati ad esempio al Black Friday, al Thanksgiving e a Natale. Il trasporto delle merci via aerea costituisce un’alternativa assai limitata.

Si tratta di elementi spesso ignorati, ma che hanno un ruolo fondamentale per il funzionamento del sistema economico, in una realtà economica interconnessa come quella odierna. Fa capolino evidentemente il discorso della forte dipendenza, non solo della Svizzera, da altri Paesi ma qualche margine di miglioramento può esserci.

Il reshoring di talune attività produttive, cioè il “rimpatrio” di certe aziende per una produzione più “indigena” è senza dubbio un elemento che può essere rafforzato dall’evoluzione tecnologica e alcuni esempi edificanti non mancano. Ma si tratta di un fenomeno ancora abbastanza marginale e comunque la dipendenza dalle materie prime resterà comunque. Ed è normale che talune fasi produttive restino laddove vi sono materie prime per la produzione di molte componenti, altrimenti la sostenibilità economica non sarebbe possibile.

Discorso complesso, che richiede molta attenzione e molto equilibrio di giudizio, perché il sistema non può essere modificato a colpi di decreto e non vi sono soluzioni facili. La pandemia ha portato all’attenzione del grande pubblico l’interdipendenza internazionale, suscitando anche timori, sospetti e risentimenti. Emozioni comprensibili ma anche poco utili nell’insieme. Ma qui il discorso si fa complesso e meriterebbe approfondimenti ben più ampi. L’urgenza è ora quella di cercare alternative, come l’economia svizzera e ticinese hanno sempre dimostrato di saper fare, gestendo questi aumenti di prezzi senza che vi siano conseguenze troppo pesanti sul mercato interno e in termini di competitività internazionale. La “fortuna” è che, per una volta e per restare in ambito navale, quasi tutti i Paesi sono sulla “stessa barca”, per cui almeno su questo fronte, ce la possiamo giocare quasi alla pari con tutti gli altri, visto che le difficoltà elencate toccano tanti se non tutti.

Le libertà

Cosa c’entra la questione energetica con le libertà personali? In questi interminabili mesi di pandemia la discussione sulle libertà personali, dalle chiusure imposte, ai vaccini obbligatori, passando per i test ha messo a nudo la fragilità degli equilibri fra la legittima difesa dell’interesse pubblico, di tipo soprattutto sanitario e l’altrettanto legittima difesa dei diritti dell’individuo. Le riflessioni del Direttore Cc-Ti, Luca Albertoni.

Un equilibrio delicato, purtroppo preso a bastonate dai soliti facili slogan che promettono soluzioni immediate e semplici, sempre ovviamente di carattere sanzionatorio.

Al di fuori del contesto del Coronavirus, ne abbiamo avuto un esempio con la recente votazione federale sulla revisione della legge sul CO2, rifiutata dalla popolazione. Al di là della bontà dell’idea di base, la sensazione di eccessive limitazioni, anche dettate da sanzioni finanziarie, è stata verosimilmente ritenuta eccessiva. Sorprendenti alcune dichiarazioni post-votazioni degli sconfitti, secondo i quali sarebbero addirittura necessari più divieti. Visione miope, sullo stile dell’affrettata decisione elvetica di abbandono del nucleare, ora rimessa clamorosamente in discussione perché d’incanto ci si è accorti che c’è un importante problema di sicurezza dell’approvvigionamento, come andiamo dicendo da anni. Il tutto peggiorato dall’abbandono dell’accordo-quadro con l’Unione Europea e quindi della possibilità di negoziare su un tema così delicato. E senza sufficiente energia, addio a tante libertà a cui siamo abituati, come ad esempio usare e ricaricare quando ci pare e piace l’ormai imprescindibile telefonino.

È per questo che, proprio a tutela delle libertà di tutti, è necessario un confronto schietto e oggettivo su tutti i temi, quello energetico in primis. Il nucleare non deve essere un tabù, ma va visto in un contesto in cui indubbiamente l’evoluzione tecnologica ha un ruolo fondamentale e le energie rinnovabili devono avere un ruolo più importante. Ma una società completamente elettrica come quella che si prospetta ad esempio nel contesto della mobilità richiede ben altro che le buone intenzioni, bensì una buona dose di realismo e pragmatismo. Il sistema oggi non reggerebbe un modello di questo tipo e difficilmente sarà in grado di farlo a breve scadenza se le discussioni saranno contraddistinte solo da estremismi. Sarebbe ironico se per alimentare le nostre auto elettriche dovessimo dipendere dall’energia derivata dal carbone e all’energia nucleare dei paesi vicini. Alla faccia della coerenza e delle libertà. L’economia è in prima fila sul cammino della riduzione delle emissioni di CO2. Ostacolare questo percorso non risolverebbe alcun problema.

Sempre sulle libertà intervengono anche due oggetti in votazione popolare il prossimo 26 settembre 2021. A livello federale l’iniziativa 99% lanciata dai Giovani socialisti e in ambito cantonale l’iniziativa popolare denominata “NO alle pigioni abusive, SÌ alla trasparenza: per l’introduzione del formulario ufficiale ad inizio locazione”.

Dietro le tradizionali buone intenzioni, reali o apparenti, si nascondono come capita spesso diverse insidie che inficiano il sistema elvetico e limitano pesantemente le libertà, compresa quella imprenditoriale. L’iniziativa del 99% si prefigge in sostanza di togliere ai ricchi per dare ai poveri, ricetta molto semplice ormai diventata un mantra della sinistra, senza pensare alle implicazioni sul sistema. In sostanza, si tratterebbe di tassare in modo più pesante i redditi da capitale dei contribuenti più agiati. Redditi del patrimonio mobiliare (interessi e dividendi) o immobiliare (canoni di locazione) e redditi sul capitale, oggi esenti. A parte la soglia di imposizione che dovrà ancora essere definita dal Parlamento. Questi redditi sarebbero tassati al 150%. Una sorta di esproprio popolare sul frutto di capitali non certo derivanti da furti. Inoltre, vi sarebbero aggiunte di redditi fittizi, il che sarebbe completamente arbitrario, benché purtroppo non completamente sconosciuta in ambito fiscale. Con tutta la simpatia per Robin Hood, è evidente che si tratta di una proposta inaccettabile.

La Svizzera già oggi, grazie anche e soprattutto ai redditi alti, si distingue a livello mondiale per la bontà del suo sistema redistributivo e per la sua equità fiscale. Le persone abbienti pagano già una parte proporzionalmente molto più elevata di imposte sul reddito e sul patrimonio. Sanzionarli in modo sproporzionato li porterebbe facilmente verso altri lidi, privandoci di un substrato fiscale importante, difficilmente compensabile. Perdita di cui subirebbero le conseguenze anche i ceti meno abbienti, beneficiari della ridistribuzione. Senza dimenticare che l’iniziativa colpirebbe anche le PMI e le società di famiglia, la cui sostanza si ridurrebbe, con conseguenze inevitabili su capacità di investimento e occupazione.

E, dulcis in fundo, ecco una bella sanzione anche per le start-up, perché i redditi derivanti dalla vendita di partecipazioni di queste giovani strutture sarebbero pure tassati al 150%. Rigettare questa iniziativa è quindi indispensabile per garantire il funzionamento del nostro sistema elvetico, che si è dimostrato efficace ed equo anche in questi mesi di gravi difficoltà legate alla pandemia.

Infine, anche nel contesto cantonale le presunte buone intenzioni mascherano insidie non da poco, nello specifico nel settore immobiliare. L’iniziativa per introdurre un formulario all’inizio della locazione, in nome della trasparenza, mira a rendere obbligatorio alla stipulazione di qualsiasi contratto di locazione un formulario che riporti la pigione pagata dal precedente inquilino, quella concordata con il nuovo inquilino e il motivo di un’eventuale differenza. Bello, molto bello. Peccato che il diritto federale conceda una misura del genere solo in caso di penuria di abitazioni, il che non è il caso in Ticino. Inoltre, già oggi l’inquilino può chiedere informazioni sulla pigione precedente e se del caso contestare quella che paga, ricordando comunque che è libero di stipulare un contratto di locazione o meno, se ritiene non congruo il canone richiesto.

Senza dimenticare che il formulario è già a disposizione per notificare aumenti di pigione o modifiche unilaterali del contratto. Burocrazia fine a sé stessa che inoltre crea la presunzione che un canone più alto sia automaticamente abusivo rispetto a quello precedente. Altri cantoni hanno tentato l’esperimento, abbandonandolo senza rimpianti perché inefficace. Senza dimenticare che la proposta è già stata respinta a numerose riprese sia a livello federale che cantonale. Sarebbe quindi un’inutile limitazione della libertà contrattuale, senza vantaggi per nessuno e l’iniziativa va chiaramente respinta.

Il pragmatismo come alimentatore dell’energia

Il tema dell’approvvigionamento energetico è molto più ostico di quanto taluni vogliano far credere, perché molti fatti, per scarsa conoscenza o per calcolo politico, vengono pericolosamente ignorati. La complessità della questione è emersa ad esempio anche nella recente discussione sulla revisione della Legge sul CO2, che ha fatto emergere come sia difficile conciliare il discorso energetico e le legittime preoccupazioni per la protezione dell’ambiente.

Tre pilastri, dipendenza dall’estero e soluzioni sistemiche

Si dimentica troppo spesso che in ambito energetico, una politica seria deve tenere conto di tre pilastri: la garanzia dell’approvvigionamento, l’economicità e la sostenibilità ambientale. Sono questi elementi inscindibili, che non possono essere valutati separatamente perché non si può prescindere da un compromesso fra tali componenti.

È opportuno ricordare che dal punto di vista energetico la Svizzera non è indipendente e da circa 6-7 anni è costretta a importare energia elettrica prodotta da energia nucleare e da carbone dall’UE. Da qui la necessità di pensare a soluzioni sistemiche, che valutino tutto il pacchetto di risorse esistenti (eolico, idroelettrico, nucleare, ecc.). Un’apertura in questo senso è giunta da quello che sembra un nuovo orientamento dell’Ufficio federale dell’energia (UFE), volto a prolungare di dieci anni l’attività delle centrali nucleari svizzere, perché al momento non vi è altra scelta per evitare sicuri blackout che, in certe circostanze, già ora incombono minacciosi anche in Svizzera. Giusto puntare sulle alternative, ma le legittime aspirazioni verso le energie cosiddette pulite si scontrano spesso con la dura realtà dei fatti di un sistema sempre più affamato di energia. Non sta a noi sindacare se sia opportuno prolungare la vita delle attuali centrali nucleari o se occorra costruirne una nuova, questo sarà un compito per la politica. Per l’economia e per la popolazione è essenziale che la fornitura di energia sia garantita, a prezzi sostenibili e nell’ottica della protezione ambientale adeguata, indipendentemente da quale sia il vettore. Forse ci si è però resi conto che la decisione di abbandonare l’atomo entro il 2034 sull’onda emotiva del disastro di Fukushima del 2011 è stata frettolosa. Senza l’energia prodotta dalla quattro centrali ancora in funzione, il nostro Paese rischierebbe una grave carenza di elettricità e un ulteriore incremento della dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento.

Mai come oggi la politica energetica, e di converso quella ambientale, va riconsiderata alla luce di un’analisi approfondita e oggettiva dei benefici reali e dei costi (economici e sociali). Senza perseguire obiettivi velleitari, pianificati aprioristicamente, che provocano effetti controproducenti: il rincaro sconsiderato dell’elettricità e del gas, che penalizza famiglie e aziende, l’aumento inatteso dei prezzi di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, gli scompensi nella produzione e nelle forniture di energia. E ne creeranno ancora di più gravi con la marcia a tappe forzate verso la decarbonizzazione decisa dall’UE con il Green Deal. Servono scelte ponderate e condivise, che tengano conto dell’uso complementare e coordinato di tutte le fonti energetiche, dalle rinnovabili all’atomo e all’idrogeno, dell’apporto del progresso tecnologico nel ridurre le emissioni nocive e dei crescenti sforzi del sistema produttivo per rispettare gli standard di eco-sostenibilità. Solo così si potrà raggiungere con gradualità, ma Mai come oggi realisticamente, il traguardo della sostituzione definitiva dei combustibili fossili.

Nessun tabù

Attualmente le centrali nucleari svizzere producono il 33% di elettricità (produzione invariata dal 2011), il 7% circa è generato da eolico e solare e il 60% del settore idroelettrico. Per varie ragioni, non ultime il clima e le fluttuazioni stagionali, la produzione elvetica di energia solare ed eolica va a rilento, la Svizzera si trova, infatti, ancora agli ultimi posti nella relativa classifica dell’Unione europea, nonostante la buona crescita del fotovoltaico nel 2020 dovuta in particolare all’installazione di impianti per il consumo privato. Si prevede che, al più tardi entro il 2035, senza il nucleare dovremo affrontare una grave carenza di elettricità. Per supplire alla definitiva dismissione dell’atomo, secondo alcuni calcoli pubblicati recentemente da Le Matin Dimanche, per quella data bisognerebbe coprire con pannelli solari una superficie pari a 19mila campi di calcio (oggi siamo a 1800), e servirebbero, inoltre, 6’000 turbine eoliche contro le attuali 42.

Né si potrà spingere più di quel tanto sull’idroelettrico viste le forti opposizioni all’innalzamento di dighe e bacini. Non bisogna certo mitizzare l’atomo, ma in un contesto del genere non lo si può neanche demonizzare o considerare tabù. Giusto spingere sulle alternative, ma i tempi di un’eventuale sostituzione completa del nucleare sono ben più lunghi di quanto si possa, magari in buona fede, pensare. Se già ora, in alcuni periodi dell’anno, la Svizzera è costretta ad acquistare elettricità dai Paesi vicini, ben si capisce quali siano i termini del problema energetico. Una volta dismesse le due centrali di Beznau e quelle di Gösgen e Leibstadt, sarebbe paradossale se la Confederazione fosse costretta a comprare all’estero ancora più energia, prodotta, magari, da impianti nucleari o col carbone.

Perché, nel contesto internazionale, gli attori maggiori si muovono su piste di questo tipo, visto che gli Stati Uniti puntano decisi sul nucleare e la Cina sperimenta fonti differenziate, dal nucleare al fotovoltaico (nel quale è leader), passando per l’eolico. Con quella che è tra l’altro la riserva più ampia di carbone in tutto il mondo. Non da ultimo, teniamo conto che i problemi di approvvigionamento si acuiranno comunque, a mano a mano che l’UE procederà con la decarbonizzazione delle sue economie nazionali, poiché sulla rete europea ci sarà meno elettricità a cui poter attingere. Per di più il fallimento dell’Accordo quadro con Bruxelles, che ha fatto saltare anche quello sull’energia, renderà ancora più complicata per noi l’importazione di quanto necessitiamo.

Quale economicità?

In precedenza, abbiamo accennato al criterio dell’economicità. Dopo la recente bocciatura della revisione della Legge sul CO2, il Consiglio federale ha aumentato da 96 a 120 franchi/tonnellata la tassa sull’anidride carbonica. Motivo? Le emissioni di CO2 in Svizzera sono diminuite solo del 31% rispetto al 1990 e non del 33%, l’obiettivo pianificato per il 2020. Per due punti in meno scattano 24 franchi di rincaro che, dal gennaio del prossimo anno, andranno a pesare sulle aziende e sui cittadini, già provati delle difficoltà economiche causate dalla pandemia.

Dopo il gas arriva anche la stangata dell’elettricità: dalla fine dello scorso anno ad oggi i prezzi sul mercato europeo all’ingrosso dell’energia elettrica, da cui si forniscono anche i produttori e distributori elvetici, sono aumentati del 50%. Un’impennata che è in parte imputabile al rialzo del petrolio e del carbone schizzato a 87 dollari alla tonnellata dai 55 di otto mesi fa, ma che è dovuta soprattutto al rincaro dei certificati di emissione CO2: l’anno scorso costavano 25 euro a tonnellata, oggi quasi 60. Sino al 2018 erano a meno di 10 euro e a medio termine si prevede un aumento sino a 80-100 euro a tonnellata. Un’escalation dei prezzi che si ripercuote ovviamente sui consumatori finali di energia. Per le imprese si stima un rincaro di circa il 50%, con un aggravio sui costi produttivi non indifferente che, unitamente agli aumenti di quasi tutte le materie prime, rischia di avere effetti molto pesanti sulla ripresa post pandemia. Ben si capisce quindi come la questione energetica poggi su molti fattori, spesso imprevedibili, e che richiedono oculatezza nelle decisioni. Una ricetta semplice fatta di puri dogmi non esiste.

Aziende e sostenibilità ambientale

Nella discussione sull’energia e l’impatto ambientale, non va nemmeno trascurato l’importante contributo fornito già oggi dalle aziende in termini di riduzione del CO2 e quindi di sostenibilità ambientale. Nell’ultimo decennio le aziende hanno progressivamente accresciuto il loro impegno. Anche in Ticino. Dal 2013, grazie alle misure del programma di gestione energetica dell’AEnEC, a cui hanno aderito 309 stabilimenti, le imprese del Cantone già alla fine del 2019 avevano registrato una riduzione di 7300 tonnellate delle emissioni di CO2, su una diminuzione complessiva di 12’180 tonnellate, mentre i loro consumi energetici sono scesi di 55’500 megawattora all’anno, su un totale di 103’505 megawattora di energia risparmiata. Un risultato lusinghiero, frutto dell’evoluzione tecnologica, ma anche della politica degli incentivi, molto più stimolante di tasse e divieti.

“Full electric”: bello, ma…

Il “Full electric” verde è un obiettivo comprensibile ma ambizioso, che richiede perciò, un approccio graduale, pragmatico e non spericolate fughe in avanti. Pensare, ad esempio, che sulle nostre strade e su quelle dell’Europa possano scomparire definitivamente nel giro di pochi anni le auto a benzina o a diesel non è realistico. Innanzitutto, i veicoli elettrici, sebbene generosamente sussidiati, per la maggior parte della popolazione restano troppo cari, e soprattutto non ci sarebbe sufficiente energia, soprattutto rinnovabile, per sostenere una mobilità completamente elettrificata. Per non f far crollare tutto il sistema si finirebbe, inevitabilmente, col ricaricare le batterie dei veicoli con l’elettricità prodotta col carbone o dal nucleare.

Un passaggio troppo veloce dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili non è facile né indolore, né per le aziende né per la popolazione, visto il rischio concreto di considerevoli rincari. Non si passa dalle fonti fossili a quelle rinnovabili azionando semplicemente una leva. La transizione energetica è un cambiamento epocale con costi economici e sociali molto elevati. Per questo i suoi tempi e le modalità di realizzazione non possono essere dettati dal velleitarismo ideologico delle frange estreme dell’ambientalismo, come quelle che in Svizzera chiedono di vietare sin da subito benzina e diesel, né rigidamente regolamentati da ambizioni pianificatorie, da piano quinquennale, che non hanno mai funzionato. Bisogna stare attenti, altresì, anche all’insidiosa “retorica della decabornizzazione tutta rose e fiori”.

Sole e vento sono rinnovabili all’infinito, non sono tali però i materiali e i minerali necessari (cobalto, rame, litio, nichel e terre rare), per ricavare da essi elettricità. Anzi, alcuni sono già molto più scarsi del petrolio. I generatori delle turbine eoliche, ad esempio, impiegano manganese, molibdeno, nichel, zinco e terre rare. Lo Xinjiang, la terra degli uiguri, assicura quasi la metà delle forniture mondiali di polisilicone indispensabile per i pannelli solari, che al 90% sono ancora prodotti dalla Cina in fabbriche che si alimentano bruciando carbone.
Dunque, l’energia delle fonti rinnovabili non è “verde ” a prescindere. È come esaltarsi perché le videoconferenze stimolate dalla pandemia tolgono parte del traffico, salvo poi accorgersi lo streaming necessita di server per gestire i dati, con importanti emissioni di CO2 e intenso utilizzo di risorse idriche.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), un’auto elettrica richiede una quantità di minerali di sei volte superiore a quella di un veicolo convenzionale. Avanzando con la mobilità “full electric” nel 2040 la domanda di litio potrebbe aumentare di 50 volte rispetto ad oggi, quella di grafite e cobalto di trenta volte. Sempre stando alle previsioni dell’Aie, bisognerà quadruplicare la produzione delle terre rare e dei minerali necessari per sostenere la transizione energetica. Con tutte le tensioni geopolitiche che ne deriveranno, come ci ha insegnato la storia del petrolio. Anche per l’economia la battaglia contro il riscaldamento climatico e il CO2 è fondamentale, ma per concretizzare senza creare pericolosi scompensi, non bisogna sottovalutare né i costi né le conseguenze politiche e sociali. Come per tutte le scelte oculate è questione di equilibrio e di riflessione puntuale.

Non facciamoci trovare impreparati

Certo, ci vorrà ancora del tempo, ma prima o poi si arriverà alla Tassa minima globale per le multinazionali concordata recentemente dai ministri delle Finanze del G7, i sette Paesi più industrializzati del mondo. E la Svizzera non deve assolutamente farsi trovare impreparata. Spiazzata, com’è successo con lo scambio automatico d’informazioni e il segreto bancario.

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Le novità bisogna anticiparle per quanto possibile e non subirle, se si vuole mantenere l’attrattività del nostro Paese per le imprese transnazionali. Sostanzialmente la nuova tassa, che dovrebbe essere applicata ai grandi gruppi con una soglia di fatturato, specificata a livello internazionale, oltre i 750 milioni di euro, si basa su due pilastri.

In primo luogo, imporre alle multinazionali il pagamento di un’aliquota globale minima del 15%, da applicare in ogni Paese al fine di frenare la concorrenza fiscale. In secondo luogo, per dare un giro d i vite all’elusione fiscale, le imprese pagheranno le tasse dove fanno i loro affari e non dove hanno invece la loro sede legale, tramite un’imposizione sul 20% degli utili oltre la soglia del 10% di profitto. I proventi di questa tassazione saranno poi distribuiti nei diversi Paesi attraverso una procedura ancora da definire.

Grazie all’ultima riforma fiscale, il Ticino tra qualche anno sarà del tutto in linea con l’aliquota del 15%, il che dimostra quanto sia stata ben calibrata e oculata la revisione decisa nel 2020 e la cui entrata in vigore completa non può essere assolutamente procrastinata. Ma una volta bloccata su una soglia minima l’aliquota sugli utili, per salvaguardare una condizione ancora vantaggiosa per le grandi aziende e gli investimenti stranieri, bisogna necessariamente intervenire su tre fattori altrettanto importanti:

  • la determinazione della base dell’imponibile, se essa non sarà vincolata con qualche dispositivo della nuova tassazione;
  • l’alleggerimento dell’onere fiscale sulle persone fisiche (da noi certamente poco allettante rispetto ad altri Cantoni), che potrebbe essere un ottimo incentivo per i dirigenti e i manager delle multinazionali;
  • il miglioramento delle condizioni quadro, profilando di più il Cantone quale location ideale, sicura e conveniente per l’insediamento di società estere.


Insomma, la politica e le parti sociali devono essere consapevoli che ci si deve muovere subito per non perdere terreno, lasciandosi alle spalle una volta per tutte quell’atteggiamento di ostilità preconcetta verso le imprese.

La Svizzera e il Ticino

Tra qualche giorno la Tassa minima globale dovrebbe essere ratificata dal G20 che si riunirà a Venezia (dal 7 all’11 luglio 2021), successivamente ne discuterà l’OCSE. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico, di cui fa anche parte la Svizzera, stava già lavorando ad un progetto di tassa minima globale, come quella delineata dal G7, con un apposito piano per combattere i trasferimenti degli utili delle multinazionali. Piano a cui ha aderito da tempo il nostro Paese. La Confederazione è, quindi, direttamente coinvolta nel confronto e nelle conseguenze che avrà la Corporate tax sulle diverse economie nazionali. La Svizzera e il Ticino saranno di nuovo sotto pressione e, inevitabilmente, si ridurranno i margini per la concorrenza fiscale tra i Cantoni.

Dopo la riforma fiscale e del finanziamento dell’AVS che ha abolito la tassazione privilegiata per le holding e le imprese straniere, tutti i Cantoni si sono dati da fare per mantenere la loro attrattività riducendo l’aliquota per le persone giuridiche. Attualmente, l’onere sugli utili nelle diverse regioni va dall’11,5% al 21%, e, secondo la stima della società di consulenza KPMG, circa 250 multinazionali, con sede in Svizzera, raggiungono il fatturato di 750 milioni di euro che ricadrebbe sotto la Global tax. Diciotto Cantoni hanno un’aliquota massima al di sotto del 15% e gioco forza dovranno adeguarsi al nuovo standard se l’accordo del G7 andrà in porto. Ma al tempo stesso cercheranno giustamente di fare leva su altri vantaggi per restare fiscalmente competitivi. La concorrenza si sposterà, dunque, dalle aliquote sugli utili alla tassazione delle persone fisiche e su altri possibili incentivi. Una ragione in più che ci dovrebbe spingere ad intervenire tempestivamente per scongiurare il rischio concreto che alcune grandi aziende lascino il Ticino.

Agiamo

Con la riforma tributaria approvata dal popolo nel 2020, il Ticino nel 2025 avrà un’aliquota attorno al 15% per le persone giuridiche e sarà quindi allineato alla soglia minima della Corporate tax, mentre resterà ancora penalizzante l’imposizione sulle persone fisiche. Ciò rappresenta sicuramente un margine su cui agire, con uno sgravio ponderato che si tradurrebbe comunque in un vantaggio per le aziende operanti a livello internazionale e, quindi, in un elemento rilevante nelle strategie di localizzazione aziendale. Alla luce dell’evoluzione della fiscalità internazionale è pertanto assurdo pensare di poter congelare una riforma cantonale che deve ancora dispiegare tutti i suoi effetti, come chiede la sinistra per ragioni di cassa. Gli effetti negativi della pandemia non vanno compensati bloccando l’evoluzione della nostra fiscalità. Non ha senso continuare a considerare il fisco un intoccabile tabù, quando invece la repentinità di taluni processi sovranazionali imporrebbe ben altro approccio, con interventi molto più pragmatici, rapidi e incisivi.

L’accordo del G7 è ancora una bozza, ma la via ormai è tracciata. È già chiaro che per restare fiscalmente attrattivi tutti i Paesi cercheranno vie alternative all’aliquota sugli utili. Del resto, il peso dell’aliquota nominale è relativo, quello che conta davvero è se la riforma della Global tax toccherà anche la determinazione della base imponibile. Se così non fosse si potrebbe guadagnare concorrenzialità fiscale con interventi puntuali su detrazioni, deduzioni, sussidi e crediti d’imposta. Ma il fisco è solo uno degli elementi che definiscono l’attrattività di un Paese o di una regione.
Altrettanto decisive sono le migliori condizioni quadro per fare impresa. Basti citare alcuni di questi fattori:

  • un sistema formativo più in sintonia con le esigenze delle aziende e del mercato del lavoro;
  • una burocrazia più leggera;
  • una pratica meno “poliziesca” nella concessione dei permessi di dimora e di lavoro manifestamente non problematici;
  • trasporti rapidi ed efficienti;
  • un’infrastruttura digitale che permetta di utilizzare ovunque le nuove tecnologie;
  • incentivi ricerca e sviluppo con vigorosi sostegni all’innovazione;
  • una rete di saperi con Università, SUPSI, centri di competenza e istituti di ricerca che facciano sistema nel promuovere le potenzialità economiche del Cantone;
  • e, non da ultimo, un clima culturale e civile aperto alle novità, alle differenze e alla tolleranza, che è il migliore terreno di coltura anche per la creatività imprenditoriale e l’affermarsi di nuovi talenti.

Sono queste le condizioni che contano per le imprese su cui si può subito lavorare per migliorare ulteriormente, senza sprecare il tempo che impiegheranno G20, OCSE, FMI, Banca mondiale e parlamenti nazionali, per dare il via libero definitivo alla Tassa minima globale. Una sfida non da poco, ma che dobbiamo essere pronti a cogliere. Magari ragionando maggiormente sui fatti, come fanno altri cantoni, invece di lasciarsi condizionare eccessivamente da paure, pregiudizi e sensazioni.

Un quadro in evoluzione

La Global minum tax è solo uno degli strumenti di una nuova strategia normativa per tassare le multinazionali, scardinare i paradisi fiscali e spianare la strada all’armonizzazione fiscale, eliminando la concorrenza tra gli Stati nell’offrire un’imposizione più leggera alle grandi società. Se da una parte e in determinate situazioni la rapidissima evoluzione del ruolo di talune realtà multinazionali giustifica un adeguamento delle regole, non va dimenticato che è grazie a questa concorrenza se negli ultimi decenni si è riusciti a contenere la voracità di molti governi, la cui unica preoccupazione
quella di aumentare senza limiti le entrate, dimenticando di gestire oculatamente le uscite e che il fisco leggero su aziende e persone fisiche è uno degli elementi chiave nelle scelte di localizzazione
delle attività produttive, logistiche e commerciali. Dunque, eliminare completamente una sana e leale concorrenza fiscale vuol dire privare di uno dei suoi propulsori la crescita economica.

Definita “un passo storico”, un “evento sismico”, un “accordo epocale”, la Corporate tax rappresenta indubbiamente una svolta nei principi che hanno sinora retto il sistema tributario internazionale. Ma non si è ancora capito se essa sia un primo tentativo di riorganizzare completamente la fiscalità mondiale o invece solo un prosaico sforzo di aumentare le entrate degli Stati. Il quadro è incerto e non mancano resistenze e contestazioni. L’aliquota al 15% è giudicata dalla sinistra europea “ridicolmente bassa”. Si batterà, perciò, per un suo inasprimento che potrebbe oscillare tra il 21% e il 25%, al fine di ottenere un gettito molto più consistente. Il tetto minimo dei ricavi al 10% è invece ritenuto talmente alto da permettere ad alcune multinazionali di non pagare nulla. Perciò, si propone la cosiddetta “segmentazione ” che imporrebbe alle imprese di pagare le tasse sui guadagni dei loro comparti più redditizi. Alla Global tax, per ragioni opposte a quelle della sinistra, sono per ora contrari quei Paesi, come Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Belgio, Cipro e Ungheria che, offrendo un’aliquota più bassa del 15%, hanno attirato sul loro territorio molte multinazionali, privando di entrate fiscali altre nazioni. Alla loro riluttanza potrebbe aggiungersi, in sede di G20 e OCSE, quella di Russia, Cina e Brasile.

Sullo sfondo di queste contrapposizioni, si annuncia, inoltre, un nuovo scontro nell’Unione Europea, tra i cosiddetti Stati “spendaccioni ” – quelli con una spesa pubblica e un debito ormai fuori controllo e che si ritrovano ora davanti alla necessita di riempire le casse svuotate dall’emergenza del Coronavirus -, e gli Stati definiti “frugali ” che hanno fatto del rigore di bilancio la loro religione di Governo. Insomma, sulla fiscalità internazionale sarà battaglia e la Svizzera non può stare a guardare.

Berna ha già assicurato che adotterà tutte le misure necessarie affinché il nostro Paese rimanga una piazza economica attrattiva. Ci auguriamo che questa promessa si traduca presto in un impegno concreto.

Cybersicurezza e grado di prontezza delle aziende ticinesi

Già nel 2017 la Cc-Ti, unitamente alla SUPSI e all’azienda specializzata InTheCyber Group, aveva promosso un’indagine presso le aziende ticinesi per monitorare quale fosse la situazione in tema di attacchi cibernetici subiti e sistemi di protezione predisposti.

Questo per fare emergere eventuali criticità, necessità di intervento e capire quindi quanto le strutture aziendali ticinesi pubbliche, para-pubbliche e private fossero pronte a fronteggiare una minaccia ormai onnipresente. Lo scopo dell’iniziativa è l’alimentazione di un presidio permanente sul tema della Cyber Security, analizzando tendenze e prospettive evolutive di questo settore e fornendo una valutazione del livello di maturità delle aziende svizzere sulla base di un Maturity Model ben definito (Initial, Repeatable, Defined, Managed, Optimized).

Lo Swiss Cybermeter è ideato e creato grazie alla collaborazione tra il Servizio informatica forense del Dipartimento tecnologie innovative della SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana), la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino e InTheCyber Group, realtà d’élite nell’ambito dell’auditing e consulting per la Cyber Intelligence e Cyber Defense. L’iniziativa è patrocinata dalla campagna di prevenzione del Cantone Ticino Cyber Sicuro.

Dopo l’eccellente riscontro ottenuto quattro anni fa, una prima in Svizzera, viene riproposta un’indagine simile, alla quale le aziende sono invitate a partecipare sul sito: www.swisscybermeter.ch.

Resta inteso che tutti i dati rilevati saranno elaborati e trattati in maniera anonima.
Altri dettagli al seguente link.

Cyber Security: importante alleanza pubblico-privato

Comunicato stampa Cc-Ti

Il tema della sicurezza cibernetica è oggetto di attenzione sia in ambito pubblico sia in ambito privato. Non a caso il Cantone Ticino si è dotato di un gruppo di lavoro strategico denominato Cyber Sicuro, il quale funge da punto di riferimento cantonale per questo tema.

Nell’ambito privato, la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi (Cc-Ti) aveva promosso nel 2017 un’indagine presso le aziende per un monitoraggio della situazione nel campo delle imprese, unitamente alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) e InTheCyber Group. L’inchiesta, unica in Svizzera, aveva fornito risultati molto interessanti e probanti, ad es. sui generi di attacchi cyber che le nostre aziende subiscono e i sistemi di protezione che hanno predisposto.

Sulla scorta di quanto precede, la Cc-Ti, il Servizio informatica forense del Dipartimento delle tecnologie della SUPSI e InTheCyber Group, realtà di punta nell’ambito dell’auditing e consulting per la Cyber Intelligence e la Cyber Defense, hanno deciso di dare continuità al lavoro di osservazione e analisi del tema.

È pertanto stato creato lo Swiss Cybermeter, strumento per effettuare i rilevamenti necessari, accessibile all’indirizzo www.swisscybermeter.ch.

L’iniziativa è patrocinata dalla campagna di prevenzione del Cantone Ticino denominata Cyber Sicuro

Lo scopo dell’iniziativa è alimentare un gruppo permanente sul tema della Cyber Security con informazioni sempre attualizzate, che permettano di analizzare tendenze e prospettive evolutive di questo settore.

Al contempo questo permetterà di stilare una statistica del livello di maturità delle aziende svizzere sulla base di un Maturity Model ben definito (Initial, Repeatable, Defined, Managed, Optimized).

Il grado di prontezza delle aziende pubbliche, para-pubbliche e private è essenziale per tutto il territorio cantonale, perché garantisce la sicurezza istituzionale e quella economica, nell’interesse di tutte le cittadine e tutti i cittadini.

La Cc-Ti sostiene il progetto PoLuMe

Comunicato stampa Cc-Ti sul potenziamento dell’autostrada A2 tra Lugano e Mendrisio

La Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino (Cc-Ti), quale associazione mantello dell’economia ticinese, ha preso atto con soddisfazione della presentazione da parte del Dipartimento del territorio e dell’Ufficio federale delle strade (USTRA) del progetto PoLuMe (potenziamento dell’autostrada A2 tra Lugano e Mendrisio) e del sostegno che l’autorità cantonale ha manifestato a tale intervento.

Da anni la Cc-Ti segue con particolare attenzione il tema della mobilità, sia stradale che ferroviaria (complementarità dei mezzi di trasporto). Si tratta infatti di un elemento fondamentale per la nostra economia. Una mobilità compromessa crea importanti pregiudizi, non solo ai privati cittadini, ma anche alle numerose aziende che dipendono da trasporti giornalieri.

È quindi importante intervenire tempestivamente per sanare situazioni critiche. Già nel 2019 la Cc-Ti aveva proposto all’USTRA un intervento simile a quello attualmente adottato, che prevedeva la realizzazione di una “corsia dinamica” da utilizzare in modo flessibile a dipendenza delle concrete situazioni di traffico.

In effetti il progetto PoLuMe prevede proprio la parziale trasformazione dell’attuale infrastruttura autostradale per poter mettere in servizio in modo dinamico la corsia d’emergenza esistente durante le ore di punta.

La Cc-Ti auspica che questo importante progetto possa essere realizzato nei più brevi tempi possibili affinché il grave problema di traffico sull’A2 a Sud di Lugano possa finalmente essere affrontato in modo concreto.