Il pragmatismo come alimentatore dell’energia

Il tema dell’approvvigionamento energetico è molto più ostico di quanto taluni vogliano far credere, perché molti fatti, per scarsa conoscenza o per calcolo politico, vengono pericolosamente ignorati. La complessità della questione è emersa ad esempio anche nella recente discussione sulla revisione della Legge sul CO2, che ha fatto emergere come sia difficile conciliare il discorso energetico e le legittime preoccupazioni per la protezione dell’ambiente.

Tre pilastri, dipendenza dall’estero e soluzioni sistemiche

Si dimentica troppo spesso che in ambito energetico, una politica seria deve tenere conto di tre pilastri: la garanzia dell’approvvigionamento, l’economicità e la sostenibilità ambientale. Sono questi elementi inscindibili, che non possono essere valutati separatamente perché non si può prescindere da un compromesso fra tali componenti.

È opportuno ricordare che dal punto di vista energetico la Svizzera non è indipendente e da circa 6-7 anni è costretta a importare energia elettrica prodotta da energia nucleare e da carbone dall’UE. Da qui la necessità di pensare a soluzioni sistemiche, che valutino tutto il pacchetto di risorse esistenti (eolico, idroelettrico, nucleare, ecc.). Un’apertura in questo senso è giunta da quello che sembra un nuovo orientamento dell’Ufficio federale dell’energia (UFE), volto a prolungare di dieci anni l’attività delle centrali nucleari svizzere, perché al momento non vi è altra scelta per evitare sicuri blackout che, in certe circostanze, già ora incombono minacciosi anche in Svizzera. Giusto puntare sulle alternative, ma le legittime aspirazioni verso le energie cosiddette pulite si scontrano spesso con la dura realtà dei fatti di un sistema sempre più affamato di energia. Non sta a noi sindacare se sia opportuno prolungare la vita delle attuali centrali nucleari o se occorra costruirne una nuova, questo sarà un compito per la politica. Per l’economia e per la popolazione è essenziale che la fornitura di energia sia garantita, a prezzi sostenibili e nell’ottica della protezione ambientale adeguata, indipendentemente da quale sia il vettore. Forse ci si è però resi conto che la decisione di abbandonare l’atomo entro il 2034 sull’onda emotiva del disastro di Fukushima del 2011 è stata frettolosa. Senza l’energia prodotta dalla quattro centrali ancora in funzione, il nostro Paese rischierebbe una grave carenza di elettricità e un ulteriore incremento della dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento.

Mai come oggi la politica energetica, e di converso quella ambientale, va riconsiderata alla luce di un’analisi approfondita e oggettiva dei benefici reali e dei costi (economici e sociali). Senza perseguire obiettivi velleitari, pianificati aprioristicamente, che provocano effetti controproducenti: il rincaro sconsiderato dell’elettricità e del gas, che penalizza famiglie e aziende, l’aumento inatteso dei prezzi di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, gli scompensi nella produzione e nelle forniture di energia. E ne creeranno ancora di più gravi con la marcia a tappe forzate verso la decarbonizzazione decisa dall’UE con il Green Deal. Servono scelte ponderate e condivise, che tengano conto dell’uso complementare e coordinato di tutte le fonti energetiche, dalle rinnovabili all’atomo e all’idrogeno, dell’apporto del progresso tecnologico nel ridurre le emissioni nocive e dei crescenti sforzi del sistema produttivo per rispettare gli standard di eco-sostenibilità. Solo così si potrà raggiungere con gradualità, ma Mai come oggi realisticamente, il traguardo della sostituzione definitiva dei combustibili fossili.

Nessun tabù

Attualmente le centrali nucleari svizzere producono il 33% di elettricità (produzione invariata dal 2011), il 7% circa è generato da eolico e solare e il 60% del settore idroelettrico. Per varie ragioni, non ultime il clima e le fluttuazioni stagionali, la produzione elvetica di energia solare ed eolica va a rilento, la Svizzera si trova, infatti, ancora agli ultimi posti nella relativa classifica dell’Unione europea, nonostante la buona crescita del fotovoltaico nel 2020 dovuta in particolare all’installazione di impianti per il consumo privato. Si prevede che, al più tardi entro il 2035, senza il nucleare dovremo affrontare una grave carenza di elettricità. Per supplire alla definitiva dismissione dell’atomo, secondo alcuni calcoli pubblicati recentemente da Le Matin Dimanche, per quella data bisognerebbe coprire con pannelli solari una superficie pari a 19mila campi di calcio (oggi siamo a 1800), e servirebbero, inoltre, 6’000 turbine eoliche contro le attuali 42.

Né si potrà spingere più di quel tanto sull’idroelettrico viste le forti opposizioni all’innalzamento di dighe e bacini. Non bisogna certo mitizzare l’atomo, ma in un contesto del genere non lo si può neanche demonizzare o considerare tabù. Giusto spingere sulle alternative, ma i tempi di un’eventuale sostituzione completa del nucleare sono ben più lunghi di quanto si possa, magari in buona fede, pensare. Se già ora, in alcuni periodi dell’anno, la Svizzera è costretta ad acquistare elettricità dai Paesi vicini, ben si capisce quali siano i termini del problema energetico. Una volta dismesse le due centrali di Beznau e quelle di Gösgen e Leibstadt, sarebbe paradossale se la Confederazione fosse costretta a comprare all’estero ancora più energia, prodotta, magari, da impianti nucleari o col carbone.

Perché, nel contesto internazionale, gli attori maggiori si muovono su piste di questo tipo, visto che gli Stati Uniti puntano decisi sul nucleare e la Cina sperimenta fonti differenziate, dal nucleare al fotovoltaico (nel quale è leader), passando per l’eolico. Con quella che è tra l’altro la riserva più ampia di carbone in tutto il mondo. Non da ultimo, teniamo conto che i problemi di approvvigionamento si acuiranno comunque, a mano a mano che l’UE procederà con la decarbonizzazione delle sue economie nazionali, poiché sulla rete europea ci sarà meno elettricità a cui poter attingere. Per di più il fallimento dell’Accordo quadro con Bruxelles, che ha fatto saltare anche quello sull’energia, renderà ancora più complicata per noi l’importazione di quanto necessitiamo.

Quale economicità?

In precedenza, abbiamo accennato al criterio dell’economicità. Dopo la recente bocciatura della revisione della Legge sul CO2, il Consiglio federale ha aumentato da 96 a 120 franchi/tonnellata la tassa sull’anidride carbonica. Motivo? Le emissioni di CO2 in Svizzera sono diminuite solo del 31% rispetto al 1990 e non del 33%, l’obiettivo pianificato per il 2020. Per due punti in meno scattano 24 franchi di rincaro che, dal gennaio del prossimo anno, andranno a pesare sulle aziende e sui cittadini, già provati delle difficoltà economiche causate dalla pandemia.

Dopo il gas arriva anche la stangata dell’elettricità: dalla fine dello scorso anno ad oggi i prezzi sul mercato europeo all’ingrosso dell’energia elettrica, da cui si forniscono anche i produttori e distributori elvetici, sono aumentati del 50%. Un’impennata che è in parte imputabile al rialzo del petrolio e del carbone schizzato a 87 dollari alla tonnellata dai 55 di otto mesi fa, ma che è dovuta soprattutto al rincaro dei certificati di emissione CO2: l’anno scorso costavano 25 euro a tonnellata, oggi quasi 60. Sino al 2018 erano a meno di 10 euro e a medio termine si prevede un aumento sino a 80-100 euro a tonnellata. Un’escalation dei prezzi che si ripercuote ovviamente sui consumatori finali di energia. Per le imprese si stima un rincaro di circa il 50%, con un aggravio sui costi produttivi non indifferente che, unitamente agli aumenti di quasi tutte le materie prime, rischia di avere effetti molto pesanti sulla ripresa post pandemia. Ben si capisce quindi come la questione energetica poggi su molti fattori, spesso imprevedibili, e che richiedono oculatezza nelle decisioni. Una ricetta semplice fatta di puri dogmi non esiste.

Aziende e sostenibilità ambientale

Nella discussione sull’energia e l’impatto ambientale, non va nemmeno trascurato l’importante contributo fornito già oggi dalle aziende in termini di riduzione del CO2 e quindi di sostenibilità ambientale. Nell’ultimo decennio le aziende hanno progressivamente accresciuto il loro impegno. Anche in Ticino. Dal 2013, grazie alle misure del programma di gestione energetica dell’AEnEC, a cui hanno aderito 309 stabilimenti, le imprese del Cantone già alla fine del 2019 avevano registrato una riduzione di 7300 tonnellate delle emissioni di CO2, su una diminuzione complessiva di 12’180 tonnellate, mentre i loro consumi energetici sono scesi di 55’500 megawattora all’anno, su un totale di 103’505 megawattora di energia risparmiata. Un risultato lusinghiero, frutto dell’evoluzione tecnologica, ma anche della politica degli incentivi, molto più stimolante di tasse e divieti.

“Full electric”: bello, ma…

Il “Full electric” verde è un obiettivo comprensibile ma ambizioso, che richiede perciò, un approccio graduale, pragmatico e non spericolate fughe in avanti. Pensare, ad esempio, che sulle nostre strade e su quelle dell’Europa possano scomparire definitivamente nel giro di pochi anni le auto a benzina o a diesel non è realistico. Innanzitutto, i veicoli elettrici, sebbene generosamente sussidiati, per la maggior parte della popolazione restano troppo cari, e soprattutto non ci sarebbe sufficiente energia, soprattutto rinnovabile, per sostenere una mobilità completamente elettrificata. Per non f far crollare tutto il sistema si finirebbe, inevitabilmente, col ricaricare le batterie dei veicoli con l’elettricità prodotta col carbone o dal nucleare.

Un passaggio troppo veloce dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili non è facile né indolore, né per le aziende né per la popolazione, visto il rischio concreto di considerevoli rincari. Non si passa dalle fonti fossili a quelle rinnovabili azionando semplicemente una leva. La transizione energetica è un cambiamento epocale con costi economici e sociali molto elevati. Per questo i suoi tempi e le modalità di realizzazione non possono essere dettati dal velleitarismo ideologico delle frange estreme dell’ambientalismo, come quelle che in Svizzera chiedono di vietare sin da subito benzina e diesel, né rigidamente regolamentati da ambizioni pianificatorie, da piano quinquennale, che non hanno mai funzionato. Bisogna stare attenti, altresì, anche all’insidiosa “retorica della decabornizzazione tutta rose e fiori”.

Sole e vento sono rinnovabili all’infinito, non sono tali però i materiali e i minerali necessari (cobalto, rame, litio, nichel e terre rare), per ricavare da essi elettricità. Anzi, alcuni sono già molto più scarsi del petrolio. I generatori delle turbine eoliche, ad esempio, impiegano manganese, molibdeno, nichel, zinco e terre rare. Lo Xinjiang, la terra degli uiguri, assicura quasi la metà delle forniture mondiali di polisilicone indispensabile per i pannelli solari, che al 90% sono ancora prodotti dalla Cina in fabbriche che si alimentano bruciando carbone.
Dunque, l’energia delle fonti rinnovabili non è “verde ” a prescindere. È come esaltarsi perché le videoconferenze stimolate dalla pandemia tolgono parte del traffico, salvo poi accorgersi lo streaming necessita di server per gestire i dati, con importanti emissioni di CO2 e intenso utilizzo di risorse idriche.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), un’auto elettrica richiede una quantità di minerali di sei volte superiore a quella di un veicolo convenzionale. Avanzando con la mobilità “full electric” nel 2040 la domanda di litio potrebbe aumentare di 50 volte rispetto ad oggi, quella di grafite e cobalto di trenta volte. Sempre stando alle previsioni dell’Aie, bisognerà quadruplicare la produzione delle terre rare e dei minerali necessari per sostenere la transizione energetica. Con tutte le tensioni geopolitiche che ne deriveranno, come ci ha insegnato la storia del petrolio. Anche per l’economia la battaglia contro il riscaldamento climatico e il CO2 è fondamentale, ma per concretizzare senza creare pericolosi scompensi, non bisogna sottovalutare né i costi né le conseguenze politiche e sociali. Come per tutte le scelte oculate è questione di equilibrio e di riflessione puntuale.

Non facciamoci trovare impreparati

Certo, ci vorrà ancora del tempo, ma prima o poi si arriverà alla Tassa minima globale per le multinazionali concordata recentemente dai ministri delle Finanze del G7, i sette Paesi più industrializzati del mondo. E la Svizzera non deve assolutamente farsi trovare impreparata. Spiazzata, com’è successo con lo scambio automatico d’informazioni e il segreto bancario.

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Le novità bisogna anticiparle per quanto possibile e non subirle, se si vuole mantenere l’attrattività del nostro Paese per le imprese transnazionali. Sostanzialmente la nuova tassa, che dovrebbe essere applicata ai grandi gruppi con una soglia di fatturato, specificata a livello internazionale, oltre i 750 milioni di euro, si basa su due pilastri.

In primo luogo, imporre alle multinazionali il pagamento di un’aliquota globale minima del 15%, da applicare in ogni Paese al fine di frenare la concorrenza fiscale. In secondo luogo, per dare un giro d i vite all’elusione fiscale, le imprese pagheranno le tasse dove fanno i loro affari e non dove hanno invece la loro sede legale, tramite un’imposizione sul 20% degli utili oltre la soglia del 10% di profitto. I proventi di questa tassazione saranno poi distribuiti nei diversi Paesi attraverso una procedura ancora da definire.

Grazie all’ultima riforma fiscale, il Ticino tra qualche anno sarà del tutto in linea con l’aliquota del 15%, il che dimostra quanto sia stata ben calibrata e oculata la revisione decisa nel 2020 e la cui entrata in vigore completa non può essere assolutamente procrastinata. Ma una volta bloccata su una soglia minima l’aliquota sugli utili, per salvaguardare una condizione ancora vantaggiosa per le grandi aziende e gli investimenti stranieri, bisogna necessariamente intervenire su tre fattori altrettanto importanti:

  • la determinazione della base dell’imponibile, se essa non sarà vincolata con qualche dispositivo della nuova tassazione;
  • l’alleggerimento dell’onere fiscale sulle persone fisiche (da noi certamente poco allettante rispetto ad altri Cantoni), che potrebbe essere un ottimo incentivo per i dirigenti e i manager delle multinazionali;
  • il miglioramento delle condizioni quadro, profilando di più il Cantone quale location ideale, sicura e conveniente per l’insediamento di società estere.


Insomma, la politica e le parti sociali devono essere consapevoli che ci si deve muovere subito per non perdere terreno, lasciandosi alle spalle una volta per tutte quell’atteggiamento di ostilità preconcetta verso le imprese.

La Svizzera e il Ticino

Tra qualche giorno la Tassa minima globale dovrebbe essere ratificata dal G20 che si riunirà a Venezia (dal 7 all’11 luglio 2021), successivamente ne discuterà l’OCSE. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico, di cui fa anche parte la Svizzera, stava già lavorando ad un progetto di tassa minima globale, come quella delineata dal G7, con un apposito piano per combattere i trasferimenti degli utili delle multinazionali. Piano a cui ha aderito da tempo il nostro Paese. La Confederazione è, quindi, direttamente coinvolta nel confronto e nelle conseguenze che avrà la Corporate tax sulle diverse economie nazionali. La Svizzera e il Ticino saranno di nuovo sotto pressione e, inevitabilmente, si ridurranno i margini per la concorrenza fiscale tra i Cantoni.

Dopo la riforma fiscale e del finanziamento dell’AVS che ha abolito la tassazione privilegiata per le holding e le imprese straniere, tutti i Cantoni si sono dati da fare per mantenere la loro attrattività riducendo l’aliquota per le persone giuridiche. Attualmente, l’onere sugli utili nelle diverse regioni va dall’11,5% al 21%, e, secondo la stima della società di consulenza KPMG, circa 250 multinazionali, con sede in Svizzera, raggiungono il fatturato di 750 milioni di euro che ricadrebbe sotto la Global tax. Diciotto Cantoni hanno un’aliquota massima al di sotto del 15% e gioco forza dovranno adeguarsi al nuovo standard se l’accordo del G7 andrà in porto. Ma al tempo stesso cercheranno giustamente di fare leva su altri vantaggi per restare fiscalmente competitivi. La concorrenza si sposterà, dunque, dalle aliquote sugli utili alla tassazione delle persone fisiche e su altri possibili incentivi. Una ragione in più che ci dovrebbe spingere ad intervenire tempestivamente per scongiurare il rischio concreto che alcune grandi aziende lascino il Ticino.

Agiamo

Con la riforma tributaria approvata dal popolo nel 2020, il Ticino nel 2025 avrà un’aliquota attorno al 15% per le persone giuridiche e sarà quindi allineato alla soglia minima della Corporate tax, mentre resterà ancora penalizzante l’imposizione sulle persone fisiche. Ciò rappresenta sicuramente un margine su cui agire, con uno sgravio ponderato che si tradurrebbe comunque in un vantaggio per le aziende operanti a livello internazionale e, quindi, in un elemento rilevante nelle strategie di localizzazione aziendale. Alla luce dell’evoluzione della fiscalità internazionale è pertanto assurdo pensare di poter congelare una riforma cantonale che deve ancora dispiegare tutti i suoi effetti, come chiede la sinistra per ragioni di cassa. Gli effetti negativi della pandemia non vanno compensati bloccando l’evoluzione della nostra fiscalità. Non ha senso continuare a considerare il fisco un intoccabile tabù, quando invece la repentinità di taluni processi sovranazionali imporrebbe ben altro approccio, con interventi molto più pragmatici, rapidi e incisivi.

L’accordo del G7 è ancora una bozza, ma la via ormai è tracciata. È già chiaro che per restare fiscalmente attrattivi tutti i Paesi cercheranno vie alternative all’aliquota sugli utili. Del resto, il peso dell’aliquota nominale è relativo, quello che conta davvero è se la riforma della Global tax toccherà anche la determinazione della base imponibile. Se così non fosse si potrebbe guadagnare concorrenzialità fiscale con interventi puntuali su detrazioni, deduzioni, sussidi e crediti d’imposta. Ma il fisco è solo uno degli elementi che definiscono l’attrattività di un Paese o di una regione.
Altrettanto decisive sono le migliori condizioni quadro per fare impresa. Basti citare alcuni di questi fattori:

  • un sistema formativo più in sintonia con le esigenze delle aziende e del mercato del lavoro;
  • una burocrazia più leggera;
  • una pratica meno “poliziesca” nella concessione dei permessi di dimora e di lavoro manifestamente non problematici;
  • trasporti rapidi ed efficienti;
  • un’infrastruttura digitale che permetta di utilizzare ovunque le nuove tecnologie;
  • incentivi ricerca e sviluppo con vigorosi sostegni all’innovazione;
  • una rete di saperi con Università, SUPSI, centri di competenza e istituti di ricerca che facciano sistema nel promuovere le potenzialità economiche del Cantone;
  • e, non da ultimo, un clima culturale e civile aperto alle novità, alle differenze e alla tolleranza, che è il migliore terreno di coltura anche per la creatività imprenditoriale e l’affermarsi di nuovi talenti.

Sono queste le condizioni che contano per le imprese su cui si può subito lavorare per migliorare ulteriormente, senza sprecare il tempo che impiegheranno G20, OCSE, FMI, Banca mondiale e parlamenti nazionali, per dare il via libero definitivo alla Tassa minima globale. Una sfida non da poco, ma che dobbiamo essere pronti a cogliere. Magari ragionando maggiormente sui fatti, come fanno altri cantoni, invece di lasciarsi condizionare eccessivamente da paure, pregiudizi e sensazioni.

Un quadro in evoluzione

La Global minum tax è solo uno degli strumenti di una nuova strategia normativa per tassare le multinazionali, scardinare i paradisi fiscali e spianare la strada all’armonizzazione fiscale, eliminando la concorrenza tra gli Stati nell’offrire un’imposizione più leggera alle grandi società. Se da una parte e in determinate situazioni la rapidissima evoluzione del ruolo di talune realtà multinazionali giustifica un adeguamento delle regole, non va dimenticato che è grazie a questa concorrenza se negli ultimi decenni si è riusciti a contenere la voracità di molti governi, la cui unica preoccupazione
quella di aumentare senza limiti le entrate, dimenticando di gestire oculatamente le uscite e che il fisco leggero su aziende e persone fisiche è uno degli elementi chiave nelle scelte di localizzazione
delle attività produttive, logistiche e commerciali. Dunque, eliminare completamente una sana e leale concorrenza fiscale vuol dire privare di uno dei suoi propulsori la crescita economica.

Definita “un passo storico”, un “evento sismico”, un “accordo epocale”, la Corporate tax rappresenta indubbiamente una svolta nei principi che hanno sinora retto il sistema tributario internazionale. Ma non si è ancora capito se essa sia un primo tentativo di riorganizzare completamente la fiscalità mondiale o invece solo un prosaico sforzo di aumentare le entrate degli Stati. Il quadro è incerto e non mancano resistenze e contestazioni. L’aliquota al 15% è giudicata dalla sinistra europea “ridicolmente bassa”. Si batterà, perciò, per un suo inasprimento che potrebbe oscillare tra il 21% e il 25%, al fine di ottenere un gettito molto più consistente. Il tetto minimo dei ricavi al 10% è invece ritenuto talmente alto da permettere ad alcune multinazionali di non pagare nulla. Perciò, si propone la cosiddetta “segmentazione ” che imporrebbe alle imprese di pagare le tasse sui guadagni dei loro comparti più redditizi. Alla Global tax, per ragioni opposte a quelle della sinistra, sono per ora contrari quei Paesi, come Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Belgio, Cipro e Ungheria che, offrendo un’aliquota più bassa del 15%, hanno attirato sul loro territorio molte multinazionali, privando di entrate fiscali altre nazioni. Alla loro riluttanza potrebbe aggiungersi, in sede di G20 e OCSE, quella di Russia, Cina e Brasile.

Sullo sfondo di queste contrapposizioni, si annuncia, inoltre, un nuovo scontro nell’Unione Europea, tra i cosiddetti Stati “spendaccioni ” – quelli con una spesa pubblica e un debito ormai fuori controllo e che si ritrovano ora davanti alla necessita di riempire le casse svuotate dall’emergenza del Coronavirus -, e gli Stati definiti “frugali ” che hanno fatto del rigore di bilancio la loro religione di Governo. Insomma, sulla fiscalità internazionale sarà battaglia e la Svizzera non può stare a guardare.

Berna ha già assicurato che adotterà tutte le misure necessarie affinché il nostro Paese rimanga una piazza economica attrattiva. Ci auguriamo che questa promessa si traduca presto in un impegno concreto.

Cybersicurezza e grado di prontezza delle aziende ticinesi

Già nel 2017 la Cc-Ti, unitamente alla SUPSI e all’azienda specializzata InTheCyber Group, aveva promosso un’indagine presso le aziende ticinesi per monitorare quale fosse la situazione in tema di attacchi cibernetici subiti e sistemi di protezione predisposti.

Questo per fare emergere eventuali criticità, necessità di intervento e capire quindi quanto le strutture aziendali ticinesi pubbliche, para-pubbliche e private fossero pronte a fronteggiare una minaccia ormai onnipresente. Lo scopo dell’iniziativa è l’alimentazione di un presidio permanente sul tema della Cyber Security, analizzando tendenze e prospettive evolutive di questo settore e fornendo una valutazione del livello di maturità delle aziende svizzere sulla base di un Maturity Model ben definito (Initial, Repeatable, Defined, Managed, Optimized).

Lo Swiss Cybermeter è ideato e creato grazie alla collaborazione tra il Servizio informatica forense del Dipartimento tecnologie innovative della SUPSI (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana), la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino e InTheCyber Group, realtà d’élite nell’ambito dell’auditing e consulting per la Cyber Intelligence e Cyber Defense. L’iniziativa è patrocinata dalla campagna di prevenzione del Cantone Ticino Cyber Sicuro.

Dopo l’eccellente riscontro ottenuto quattro anni fa, una prima in Svizzera, viene riproposta un’indagine simile, alla quale le aziende sono invitate a partecipare sul sito: www.swisscybermeter.ch.

Resta inteso che tutti i dati rilevati saranno elaborati e trattati in maniera anonima.
Altri dettagli al seguente link.

Cyber Security: importante alleanza pubblico-privato

Comunicato stampa Cc-Ti

Il tema della sicurezza cibernetica è oggetto di attenzione sia in ambito pubblico sia in ambito privato. Non a caso il Cantone Ticino si è dotato di un gruppo di lavoro strategico denominato Cyber Sicuro, il quale funge da punto di riferimento cantonale per questo tema.

Nell’ambito privato, la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi (Cc-Ti) aveva promosso nel 2017 un’indagine presso le aziende per un monitoraggio della situazione nel campo delle imprese, unitamente alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) e InTheCyber Group. L’inchiesta, unica in Svizzera, aveva fornito risultati molto interessanti e probanti, ad es. sui generi di attacchi cyber che le nostre aziende subiscono e i sistemi di protezione che hanno predisposto.

Sulla scorta di quanto precede, la Cc-Ti, il Servizio informatica forense del Dipartimento delle tecnologie della SUPSI e InTheCyber Group, realtà di punta nell’ambito dell’auditing e consulting per la Cyber Intelligence e la Cyber Defense, hanno deciso di dare continuità al lavoro di osservazione e analisi del tema.

È pertanto stato creato lo Swiss Cybermeter, strumento per effettuare i rilevamenti necessari, accessibile all’indirizzo www.swisscybermeter.ch.

L’iniziativa è patrocinata dalla campagna di prevenzione del Cantone Ticino denominata Cyber Sicuro

Lo scopo dell’iniziativa è alimentare un gruppo permanente sul tema della Cyber Security con informazioni sempre attualizzate, che permettano di analizzare tendenze e prospettive evolutive di questo settore.

Al contempo questo permetterà di stilare una statistica del livello di maturità delle aziende svizzere sulla base di un Maturity Model ben definito (Initial, Repeatable, Defined, Managed, Optimized).

Il grado di prontezza delle aziende pubbliche, para-pubbliche e private è essenziale per tutto il territorio cantonale, perché garantisce la sicurezza istituzionale e quella economica, nell’interesse di tutte le cittadine e tutti i cittadini.

La Cc-Ti sostiene il progetto PoLuMe

Comunicato stampa Cc-Ti sul potenziamento dell’autostrada A2 tra Lugano e Mendrisio

La Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino (Cc-Ti), quale associazione mantello dell’economia ticinese, ha preso atto con soddisfazione della presentazione da parte del Dipartimento del territorio e dell’Ufficio federale delle strade (USTRA) del progetto PoLuMe (potenziamento dell’autostrada A2 tra Lugano e Mendrisio) e del sostegno che l’autorità cantonale ha manifestato a tale intervento.

Da anni la Cc-Ti segue con particolare attenzione il tema della mobilità, sia stradale che ferroviaria (complementarità dei mezzi di trasporto). Si tratta infatti di un elemento fondamentale per la nostra economia. Una mobilità compromessa crea importanti pregiudizi, non solo ai privati cittadini, ma anche alle numerose aziende che dipendono da trasporti giornalieri.

È quindi importante intervenire tempestivamente per sanare situazioni critiche. Già nel 2019 la Cc-Ti aveva proposto all’USTRA un intervento simile a quello attualmente adottato, che prevedeva la realizzazione di una “corsia dinamica” da utilizzare in modo flessibile a dipendenza delle concrete situazioni di traffico.

In effetti il progetto PoLuMe prevede proprio la parziale trasformazione dell’attuale infrastruttura autostradale per poter mettere in servizio in modo dinamico la corsia d’emergenza esistente durante le ore di punta.

La Cc-Ti auspica che questo importante progetto possa essere realizzato nei più brevi tempi possibili affinché il grave problema di traffico sull’A2 a Sud di Lugano possa finalmente essere affrontato in modo concreto.

Votazioni federali del 13 giugno 2021

5 gli oggetti in votazione, ecco la posizione della Cc-Ti sui temi e alcune informazioni a riguardo.

Legge federale del 25 settembre 2020 sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra (Legge sul CO2)

La Cc-Ti condivide ovviamente i princìpi di questa revisione, volta a dare un contributo per le misure a tutela dell’ambiente. L’economia del resto già da anni è attiva sul fronte della riduzione delle emissioni di CO2 e, anche grazie allo sviluppo tecnologico, ha già ottenuto risultati molto importanti. Quanto alla proposta concreta in votazione, vi sono però alcuni elementi da sottolineare. In linea generale, in ambito energetico, una politica seria deve assicurare l’approvvigionamento, l’economicità e la sostenibilità ambientale. La discussione sul CO2 tiene purtroppo conto solo di quest’ultimo punto, quando non si può prescindere da un compromesso fra le tre componenti citate. Va infatti ricordato che dal punto di vista energetico non siamo indipendenti e la Svizzera da circa 6-7 anni importa energia elettrica prodotta da energia nucleare e da carbone dall’UE. Il rischio di un importante rincaro di questo approvvigionamento è molto reale se le nostre regole non corrispondono globalmente a quanto avviene sul reale mercato dell’energia. Limitarsi al CO2, in sostanza, non risolve il problema energetico svizzero e anche per il rispetto del clima occorrerebbe il coraggio di trovare una soluzione sistemica e completa per il tema dell’energia, valutando tutto il pacchetto di risorse esistenti (eolico, idroelettrico, nucleare, ecc.) per trovare soluzioni di ampio respiro e veramente efficaci. Risolvere i problemi del clima affrontando singolarmente i vari temi è purtroppo puramente illusorio. Va ricordato che, in ambito internazionale, gli Stati Uniti sostengono chiaramente il nucleare e la Cina sta sperimentando fonti differenziate, dal nucleare al fotovoltaico (nel quale è leader), passando per l’eolico. Con quella che è tra l’altro la riserva più ampia di carbone in tutto il mondo. Le regole energetiche non saranno pertanto definite in Svizzera e nemmeno in Europa, di qui la necessità di un approccio globale. Al di là di queste considerazioni generali, che ricordano quanto sarebbe importante ragionare sull’intero sistema energetico, nella fattispecie molte associazioni di settore sostengono la revisione. Gli argomenti portati dalle varie categorie divergono in maniera sostanziale ma hanno tutti la loro legittimità e rendono di fatto impossibile una sintesi sufficientemente convergente in termini di una raccomandazione di voto. Ai dubbi sistemici espressi sopra si accompagnano innegabili vantaggi soprattutto per talune categorie. La Cc-Ti ritiene pertanto eccezionalmente di non doversi esprimere sull’oggetto in questione, lasciando il più ampio spazio possibile alle diverse tesi settoriali, per permettere un dibattito ricco e costruttivo anche all’interno del mondo economico. Le associazioni di categoria e le Camere di commercio e dell’industria svizzere non hanno una posizione univoca.

A livello nazionale, economiesuisse è favorevole alla revisione, l’USAM ha espresso libertà di voto. Anche la Cc-Ti eccezionalmente esprime una libertà di voto.


Legge federale del 25 settembre 2020 sulle basi legali delle ordinanze del Consiglio federale volte a far fronte all’epidemia di COVID-19 (Legge COVID-19)

La legge intende dare una base legale stabile a quanto fatto finora in via di ordinanza. Si tratta di un fondamento essenziale per garantire gli aiuti finanziari già stanziati e ancora necessari. La legge ha effetti fino a fine dicembre 2021, ad eccezione dell’assicurazione contro la disoccupazione, le cui regole modificate restano in vigore fino alla fine del 2022. In caso di rifiuto della legge, tutta la struttura degli aiuti cadrebbe il 25 settembre 2021.

La Cc-Ti, come il Consiglio federale, il Parlamento e le associazioni economiche nazionali, sostiene il Sì alla legge.


Iniziativa popolare del 25 maggio 2018 «Per una Svizzera senza pesticidi sintetici»
Iniziativa popolare del 18 gennaio 2018 «Acqua potabile pulita e cibo sano – No alle sovvenzioni per l’impiego di pesticidi e l’uso profilattico di antibiotici»

L’utilizzo limitato di prodotti fitosanitari nell’agricoltura e di antibiotici per gli allevamenti è obiettivo condiviso. La Confederazione in questo senso è molto attiva. Le due iniziative propongono interventi limitativi pesanti. La prima escluderebbe i pagamenti diretti per chi usa pesticidi per le colture e antibiotici per l’allevamento e che non è in grado di nutrire gli animali esclusivamente con la produzione propria. La seconda vuole vietare l’utilizzo di ogni pesticida chimico così come l’importazione di prodotti che ne contengono o che sono stati fabbricati con l’aggiunta dei pesticidi. Inevitabile un aumento dei costi e l’agricoltura sta già facendo sforzi notevoli da molti anni per limitare al massimo l’uso di sostanze potenzialmente nocive.

La Cc-Ti, come il Consiglio federale, il Parlamento e le associazioni economiche nazionali, raccomanda di respingere le iniziative.


Legge federale del 25 settembre 2020 sulle misure di polizia per la lotta al terrorismo (MPT)

Sono previste nuove misure di polizia per la relativa legge federale in materia di lotta contro il terrorismo. Obbligo di presentarsi e di partecipare a colloqui con le Autorità, misure di divieto di contatto con persone o di accedere a determinate zone geografiche, obbligo di rimanere in una determinata zona, divieto di lasciare il territorio, detenzione provvisoria per gli stranieri che costituiscono una seria minaccia per la Svizzera e colpiti da provvedimenti di rinvio o espulsione. Tema non prettamente economico, se non per il fatto che una maggiore sicurezza generale è elemento essenziale per le condizioni-quadro dell’economia.

La Cc-Ti, come il Consiglio federale, il Parlamento e le associazioni economiche nazionali sono a favore delle modifiche.

Una ripresa economica condizionata dai costi

Intervista ad Andrea Gehri, Presidente Cc-Ti

Il rincaro dei prezzi delle materie prime in che misura rischia di compromettere la ripresa dell’economia dopo il crollo causato dalla pandemia?

L’aumento dei prezzi internazionali in dollari delle commodity, accentuatosi a inizio 2021, complica certamente le previsioni e lo scenario per l’economia nazionale e internazionale. Vi è preoccupazione per l’incremento, e l’anomala repentina oscillazione delle materie che riguardano, in particolare, l’acciaio, il ferro, i metalli non ferrosi (alluminio, rame, zinco…), la plastica, i polimeri, il legno ed i materiali isolanti. Si assisterà verosimilmente ad una fase acuta, dove i prezzi saranno condizionati dalla domanda e dall’offerta e fintanto che quest’ultima non riuscirà a soddisfare l’incremento di domanda, in particolare da paesi come la Cina e gli USA, saremo confrontati con una ripresa economica condizionata dai costi in rapida ascesa e, verosimilmente anche dalla difficoltà di reperire le materie. Significa che la ripresa, nel breve periodo, potrà essere più lenta e meno vigorosa rispetto a quanto potessimo immaginare, mentre si spera che la situazione possa migliorare nel medio – lungo termine.

Quali sono i settori più colpiti in Ticino da questo rialzo?

Sicuramente il settore della costruzione è quello che, al momento, registra incrementi di costo di cui nessuno poteva immaginare soltanto qualche mese or sono. Acciaio, ferro, polimeri, legno e materiali isolanti costituiscono materie essenziali in questo settore d’attività. Non solo, ma oltre al repentino e continuo incremento dei costi, vi è l’ormai cronica indisponibilità di materie che si traduce in notevoli ritardi nella consegna dei materiali che, a loro volta, condizionano pesantemente l’attività delle imprese. Inoltre, le conseguenze dell’aumento del petrolio, dei suoi derivati quali le plastiche e dei trasporti impatteranno in modo sostanziale anche in tutti gli altri settori economici. Significa che potremo attenderci un progressivo aumento dei costi (quindi dell’inflazione) anche, per esempio nel settore alimentare con un aggravio di costi per tutti, non solo per le aziende.

L’aumento dei prezzi delle commodity è un fenomeno temporaneo o persisterà nel medio/lungo periodo?

Domanda alla quale non è facile dare una risposta univoca. A dipendenza della velocità di ripresa economica a livello mondiale dipenderà anche l’evoluzione dei prezzi. Ritornare al livello produttivo pre-COVID richiederà tempo e ripristinare le giacenze a regime del 2019 significa scontare un differimento temporale importante, quindi costellato da nervosismo sui costi per un certo periodo fintanto che non si tornerà a pieno regime. Non possiamo quindi escludere che la tendenza rialzista dei prezzi delle materie prime perdurerà anche nel corso del 2021. Speriamo poi che domanda e offerta possano riequilibrarsi e quindi riportare i prezzi a valori sopportabili.

Solitamente si pensa che grazie al franco forte, anche se ora è a 1,10 con l’euro, le nostre imprese siano favorite nell’acquisto delle materie prime. Ma basta questo vantaggio a compensare i maggiori costi di produzione che devono sostenere le aziende?

Il corso della nostra moneta su euro e dollaro, le principali valute d’acquisto, è piuttosto stabile oramai da diverso tempo grazie alla politica monetaria della nostra banca nazionale. Sostenere che si abbia quindi un vantaggio nell’acquisto delle materie prime non è corretto, i margini delle imprese sono troppo esigui per poter sostenere incrementi a doppia cifra percentuale in così breve tempo. Ribaltare i maggiori costi sostenuti al consumatore finale diventa altrettanto difficile.

Cosa possono fare le imprese per tutelarsi contro un aumento dei prezzi che va ben oltre la normale alea contrattuale?

Innanzitutto, dovranno rendere attenti i committenti sulla situazione di mercato estremamente volatile sui costi delle materie, evitare di fissare prezzi fissi senza poter adeguare il rincaro e sottoporre offerte di durata molto limitata nel tempo. Il buon senso, inoltre deve accumunare sia impresa che committente in una logica che permetta, laddove non è possibile ragionevolmente valutare l’evoluzione dei costi, di compensare il rincaro attraverso il principio della buona fede.

Il rally dei prezzi

L’aumento dei prezzi delle materie prime rischia di compromettere e frenare la ripresa economica. Mentre i rincari toccano livelli record, in Svizzera e nel resto d’Europa le imprese segnalano anche carenze e difficoltà nell’approvvigionamento di alcune commodity, andando a gravare “a domino” su tutto il sistema produttivo.

L’impennata dei prezzari è impressionante, a cominciare dal petrolio, crollato a 20 dollari al barile nel marzo del 2020 e nel giro di dodici mesi risalito a 70 dollari. Il prezzo di una tonnellata di alluminio è invece aumentato del 27%, rispetto all’anno scorso, il ferro ha segnato rialzi tra il 30% e il 60%, quello utilizzato per le costruzioni ha raggiunto addirittura anche il 100% su alcuni mercati. La gomma ha registrato un balzo del 20-40%, il cotone del 17,40%. Forti aumenti, carenza di taluni materiali, forniture a rilento e costi di trasporto, soprattutto via mare più che raddoppiati, sono i quattro fattori che stanno provocando disallineamenti e ritardi nella ripartenza tra i diversi Paesi. Con gravi scompensi per le imprese manifatturiere, ma non solo.

Per la Svizzera che non dispone di materie prime e deve acquistarle all’estero per trasformarle in prodotti da rivendere, c’è un aggravio supplementare che va ad aggiungersi, complicando un già difficile contesto economico. Un onere supplementare per le aziende che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non è compensato dalla forza del franco rispetto alle altre valute. Si tratta, infatti, di rincari che vanno oltre la normale alea contrattuale, alle abituali fluttuazioni della domanda e dell’offerta, e che non sempre si possono scaricare su clienti e committenti. Esponendo così i nostri imprenditori a costi non prevedibili o pianificabili. Le imprese svizzere e ticinesi sono, dunque, confrontate e pesantemente condizionate da ulteriori elementi d’incertezza che sfavoriscono la ripresa e minacciano l’export. Commodity più care fanno aumentare i costi input delle aziende che però, a loro volta, non possono adeguare i loro prezzi a causa di una domanda ancora bassa e incostante.

Non è facile lavorare in queste condizioni, con una schiacciante pressione al ribasso sui margini operativi e costretti, per di più, a ordinare materiali a “prezzo aperto”. Una situazione preoccupante alla quale come Cc-Ti non possiamo non guardare con grande preoccupazione. Gli imprenditori si trovano a fronteggiare un’altra fase assai complessa e delicata di cui però, la politica e un certo velleitarismo sindacale, non sembrano rendersi conto. Servirebbe, invece, un impegno comune almeno nell’intento di lottare per salvaguardare l’economia cantonale e l’occupazione.

Dal novembre dello scorso anno al febbraio 2021 l’acciaio è rincarato del 130%, altri materiali fondamentali per l’edilizia hanno seguito la stessa dinamica con incrementi medi del 35% per il legno, del +10% per il calcestruzzo e del +25% per i polimeri. L’industria della plastica ha ridotto la produzione e le scorte determinando una penuria di offerta sul mercato internazionale, in particolare per i tubi di plastica, i geotessili e i prodotti isolanti. Si spera in una stabilizzazione del mercato nel medio termine. Tuttavia, anche se questa eccezionale ondata di rincari dovesse rientrare quanto prima, almeno per alcuni comparti produttivi, essa nel corso dell’anno andrà comunque a pesare su fatturati e cash flow già compressi nel 2020 e sui problemi conseguenti che attanagliano numerose aziende: mancanza di liquidità e difficoltà negli investimenti. Intanto, la lista degli aumenti e delle commodity che scarseggiano si allunga di settimana in settimana.
Il rame dall’inizio del 2021 ha sfiorato il massimo storico dell’ultimo decennio superando i 9000 dollari a tonnellata (+ 40% rispetto ai mesi pre-pandemia), il nickel si è apprezzato del +17,40%, lo stagno del +31%, mentre il palladio (impiegato per la produzione delle marmitte catalitiche delle auto), è aumentato del 25%. Oltre alla prolungata carenza di microchip, è la penuria di gomma, plastica e di alcuni metalli il nuovo assillo dell’automotive mondiale che dà lavoro anche a tante imprese terziste del Ticino.

Se l’industria ha prima rallentato per il Covid ora rischia un’altra frenata, se non addirittura lo stop in alcuni comparti, a causa delle materie prime che non arrivano. Scarseggiano in particolare i metalli impiegati nei microprocessori, quali stagno, silicio e cobalto. Non sono poche le aziende che non riescono più ad evadere gli ordini o a farlo con notevole ritardo per la mancanza dei materiali necessari alla produzione. La fiammata dei prezzi non ha risparmiato il comparto agroalimentare: il mais ha oltrepassato la soglia dei 6 dollari per bushel al Chicago Board of Trade, i semi di soia hanno sfiorato i 15 dollari a staio e, ovviamente, è rincarato pure l’olio di soia, mentre il grano dal gennaio scorso è aumentato del 12%.
L’incremento esponenziale delle quotazioni e la penuria di parecchi materiali sono dovuti in parte alle strozzature nella produzione e nelle attività minerarie provocate dalla pandemia e all’accelerazione dell’industria in Cina e negli Usa. In parte anche ad una componente speculativa e alle maggiori spese indotte da una più severa applicazione degli standard ambientali in taluni Paesi fornitori. Per molte materie prime gli osservatori prevedono una normalizzazione dei listini nel medio termine, altre, ad esempio il rame, si manterranno invece più a lungo su livelli elevati. A spingere il trend rialzista ha contribuito la crescita dei costi per i trasporti, soprattutto via mare. Secondo il Global Index Freightos, un anno fa noleggiare un container costava mediamente 1’500 dollari, oggi si pagano 4’300 dollari. Le tariffe della Cina verso l’Europa nello stesso periodo sono rincarate del 142% e del 103% lungo le rotte del Mediterraneo attraverso Suez.

Un quadro allarmante che si ripercuote pesantemente sulle nostre imprese, gravate da eccezionali costi supplementari che si aggiungono alle sofferenze finanziarie accumulatesi in 15 mesi di pandemia. A dimostrazione di quanto il nostro paese dipenda dall’estero per moltissimi materiali, per cui l’illusione di uno splendido isolazionismo è e rimane un’illusione. La realtà è molto diversa e tocca tutti noi nel nostro quotidiano, direttamente o indirettamente.

Nuova sezione ticinese per l’industria degli eventi

La EXPO EVENT Swiss LiveCom Association, in collaborazione con le associazioni partner SVTB e Tectum, ha rilevato che nel 2020 oltre 17’000 progetti dell’industria degli eventi sono stati cancellati, provocando un netto calo del fatturato pari al 57%, che corrisponde a 3,19 miliardi di franchi.

Circa 4’460 posti di lavoro sono andati persi solo nel 2020.

Un numero troppo alto di aziende ha cessato l’attività o si è dovuta completamente riorientare (sostenendo costi ingenti). La mancata organizzazione di fiere, eventi e congressi ha causato un ammanco di circa 10 miliardi di franchi nell’indotto. In Ticino, purtroppo, la situazione non è diversa, anzi. Il nostro Cantone, con la sua ricca offerta di eventi, genera annualmente somme molto importanti anche per questo settore. Essendo ormai di fatto fermi da oltre un anno, i danni sono facilmente immaginabili.

Come nel resto del Paese, almeno il 75% delle aziende ha dovuto ricorrere a un prestito COVID-19 che richiederà anni per essere rimborsato. Situazione difficile, se teniamo conto che
i potenziali clienti, a oggi, non sono disposti a programmare e quindi a fornire certezze sulle attività future. Difficile ipotizzare che vi siano concrete novità prima del 2022, tenendo conto dell’ancora tristemente attuale situazione pandemica e del fatto che la grande maggioranza degli eventi presuppone un’attività di pianificazione di mesi, se non di anni.
Gli eventi virtuali possono compensare solo in minima parte le attività e solo quelle mirate di aziende che si dedicano principalmente alla tecnica.

Una sezione ticinese a tutela degli interessi del settore

Considerata l’importanza di questo vasto settore in Ticino, la EXPO EVENT Swiss LiveCom Association ha deciso di creare una Sezione ticinese per le aziende attive sul nostro territorio, che sono circa una cinquantina e che danno lavoro a circa un migliaio di persone, senza contare l’enorme indotto generato (e filiere collegate). La Presidenza della Sezione ticinese è stata affidata alla Signora Nicole Pandiscia-Hasler, titolare dell’azienda Events Designer di Cureglia.

La Sezione sotto l’egida della Cc-Ti, va ad aggiungersi alla quasi cinquantina di associazioni padronali già legate alla nostra realtà, quale associazione-mantello dell’economia cantonale. Il lavoro a salvaguardia degli interessi di questa nuova entità locale verrà svolto in coordinamento con la Cc-Ti. Sarà premura concertare un piano di tutela a favore di queste realtà, tenendo conto delle numerose problematiche che le accomunano e le legano direttamente o indirettamente agli altri numerosi settori dell’economia cantonale e nazionale.

La creazione di questa Sezione è volta alla difesa degli interessi di tutti gli operatori di settore locali e vuole essere una chiara dimostrazione di volontà di collaborazione con le Autorità cantonali. Un operato senza sosta sia in questi periodi molto difficili, sia quando vi sarà l’auspicata ripresa, atto a vigilare e, nel limite del possibile, garantire che il lavoro venga distribuito fra gli operatori locali. Nello stesso contesto un’operazione di supervisione sulla qualità e sulle condizioni occupazionali (salari in primis) parti fondamentali e riconosciute della nostra legislazione.

EXPO EVENT
La EXPO EVENT Swiss LiveCom Association rappresenta una forte associazione a livello nazionale, che sostiene le problematiche dell’industria della LiveCom. L’Associazione è stata fondata nel 2009 dalla fusione di Vereinigung Messen Schweiz (VMS) ed EXPO EVENT Swiss LiveCom Association. Con le fiere, i fornitori e le agenzie, tutti i fornitori del mondo degli eventi sono uniti sotto un’unica Associazione cappello. Di conseguenza, EXPO EVENT Swiss LiveCom Association è ora il portavoce dell’industria LiveCom. L’obiettivo dell’Associazione è quello di collegare più strettamente i suoi membri con eventi e workshop regolari e di evidenziare le nuove tendenze del settore. Questo in relazione alle competenze e allo scambio di informazioni tra i vari membri (www.expo-event.ch).

Non basta!

Sta purtroppo succedendo quello che non doveva accadere: gli aiuti finanziari della Confederazione a sostegno dell’economia colpita dalle restrizioni anti-COVID non vengono erogati con la necessaria rapidità, senza contare che molte piccole imprese e tanti lavoratori indipendenti ricevono poco o nulla. La sopravvivenza di numerose aziende e di una larga fascia di lavoro autonomo sono a rischio.

(c) ISTOCKPHOTO.COM/POGONICI

Già nel febbraio scorso avevamo rilevato che con l’attivazione dei sostegni pubblici nella seconda ondata pandemica le cose non stavano andando per come era stato promesso, ossia con la tempestività e l’efficacia che la gravità dell’emergenza richiede e, soprattutto, senza eccessive lungaggini burocratiche. Il potenziamento dei crediti per i casi di rigore deciso da Berna è stato molto importante, ma risulta ormai evidente che da solo non basta. Per questo, sull’esempio di quanto fatto da alcuni Cantoni come Ginevra, Vaud e Argovia, la Cc-Ti ha chiesto al Consiglio di Stato di mettere a punto al più presto un piano d’intervento del Cantone per tutelare quelle attività economiche che non possono ancora rientrare negli aiuti federali e che oggi vivono una condizione di estrema fragilità. Altrettanto decisivo è un approccio rapido nella valutazione dei casi che necessitano di un aiuto.

Il rischio di danni sistemici

Un intervento equo e mirato è indispensabile per la salvaguardia della tenuta dell’economia che potrebbe subire danni sistemici da cui non sarà facile riprendersi. Non si tratta di concedere regali, anche perché molti sostegni finanziari sono la redistribuzione delle assicurazioni sociali pagate dalle imprese. È importante ricordare che i problemi che oggi si trovano a fronteggiare le imprese non hanno la loro origine all’interno del nostro tessuto produttivo, né sono stati provocati da errori degli imprenditori o da avventate strategie aziendali. Sono invece la diretta conseguenza delle restrizioni imposte alla libertà economica per combattere l’epidemia. Conseguenze che vanno ben al di là di quel normale rischio imprenditoriale che, per sua natura, ogni impresa è pronta ad assumersi e affrontare. I ripetuti lockdown, totali o parziali, per quanto non abbiano investito allo stesso modo tutte le aziende, hanno avuto impatti sul sistema economico nel suo complesso, causando costi maggiori, spese aggiuntive, una domanda discontinua, forti ritardi nelle forniture e nei pagamenti, diseconomie di scala, incertezza e impossibilità di pianificare produzione e investimenti. Una catena di danni diretti o indiretti che ha creato grosse difficoltà persino alle aziende più grandi con molti mezzi, figurarsi per le piccole imprese che rappresentano oltre il 90% della nostra realtà produttiva. È chiaro che in queste condizioni anche molte aziende sanissime e senza debiti nella fase pre-COVID si sono ritrovate ad erodere le proprie riserve per sopravvivere, compromettendo totalmente o almeno in parte la capacità di investire. Con conseguenze per il futuro certamente pesanti in termini di capacità di sopravvivenza sul mercato e, in ultima analisi, di posti di lavoro. Questa economia da COVID ha reso ancora più interdipendenti gli anelli delle catene del valore nazionali e internazionali. Come si è visto, la rottura di uno solo di questi anelli produce e propaga effetti negativi lungo tutte le filiere. Oggi anche l’export, la punta di diamante dell’industria svizzera e ticinese, risente fortemente di questa crisi. Sul commercio internazionale gravano volatilità, incertezza, domanda instabile e tensioni geopolitiche, mentre si fa sempre più aggressiva la concorrenza per assicurarsi clienti e buoni fornitori. Le materie prime hanno prezzi che sono in continuo aumento, anche del 30% e oltre, e variazione, creando non pochi problemi nella stesura di preventivi e concorsi e nella linea di produzione stessa. Lo sforzo costante degli imprenditori di migliorare costantemente la qualità dei loro prodotti e servizi va sostenuto con coraggio e determinazione nell’interesse di tutti. La chiara flessione già registrata per il 2020 in termini di entrate fiscali dimostra, se ancora ce n’era bisogno, l’importanza di un’economia solida per tutta la società.

Casi di rigore e IPG Corona

La Cc-Ti ha già sottolineato alcune problematiche nella gestione dei casi di rigore e nella concessione delle indennità per perdite di guadagno, sebbene sia comprensibile la pressione che grava sulle entità amministrative che devono occuparsi di questi temi. Nella nuova versione della legge COVID-19, approvata poche settimane fa, malgrado le motivate sollecitazioni giunte da più voci economiche e dagli imprenditori tutti, non è stata ampliata la cerchia dei beneficiari delle misure previste per i casi di rigore, nè è stata ridotta la soglia del 40% della perdita di fatturato per accedere a questi aiuti. È ovvio che ampliare il numero di categorie che potrebbero beneficiare degli aiuti per casi di rigore significa avere costi supplementari. Ma sono costi comunque inferiori a quelli che vi sarebbero costringendo molte attività a chiudere e poi a dover fare capo a disoccupazione, assistenza e altri ammortizzatori. Inoltre, l’attuale situazione non tiene conto di chi, pur non essendo stato chiuso per ordine dell’autorità, è di fatto fermo perché i clienti principali sono a loro volta chiusi. In quest’ottica è comprensibile come la percentuale del 40% di perdita minima sulla cifra d’affari per accedere agli aiuti percentuale di perdita sia troppo elevata. Per molte attività economiche equivale di fatto al fallimento e che le esclude numerose imprese in difficoltà dai sostegni federali e non per demeriti propri. Una linea rossa che marca, peraltro, evidenti discriminazioni.
Perché un’azienda che ha perso solo il 39% della cifra d’affari non ha diritto di accedere ai casi di rigore? Sulla base di quale ragione giuridica una società che non ha dovuto chiudere per ordine dello Stato, ma che ha comunque subito perdite notevoli e misurabili perché facente parte della filiera colpita duramente dai lockdown, non può beneficiare degli aiuti federali? Escludere queste imprese significa lasciarle in balia dell’andamento dell’epidemia e condannarle alla chiusura. Non a caso i Cantoni Ginevra e Argovia hanno abbassato tale soglia rispettivamente al 20% e al 25% di diminuzione della cifra d’affari. E il Canton Vaud ha creato autonomamente un fondo di sostegno all’industria di 6 milioni di franchi, proprio per cercare di ovviare alla situazione di chi si ritrova in difficoltà a causa del rallentamento della filiera di produzione.
Difficile se non insostenibile anche la situazione di molti indipendenti, esclusi dall’indennità di perdita di guadagno, la cosiddetta IPG Corona. Oltre ai ritardi nell’erogazione delle indennità va detto che Berna ci ha messo anche del suo per complicare le cose. Dallo scorso settembre sono stati, infatti, fissati criteri più rigorosi per il riconoscimento delle indennità, inoltre la domanda per le IPG Corona va ora ripresentata ogni mese. Ciò sta rendendo inevitabilmente le procedure più lunghe e macchinose per tutti.
Al danno purtroppo si aggiunge la beffa: mentre gli indipendenti aspettano mesi per ottenere le indennità, ricevono invece puntualmente conteggi e richiami per un sollecito pagamento in materia di AVS, IVA e vari altri contributi obbligatori. Una situazione insostenibile per migliaia di indipendenti: artigiani, negozianti, piccoli imprenditori, ristoratori, artisti, liberi professionisti, commercianti, titolari di servizi alle persone, sempre più esasperati. Sarebbe pertanto doverosa una moratoria sui contributi obbligatori, per evitare l’amaro paradosso di uno Stato che da un lato chiude le attività impedendo di guadagnare e che ritarda nell’erogazione dei sostegni, e dall’altro apre subito delle procedure esecutive per dei pagamenti, certo dovuti, ma che, viste le attuali difficoltà non si possono onorare.
In un contesto così complesso è giusto e indispensabile cercare di scongiurare gli abusi, ma non si possono mettere in ginocchio migliaia di piccoli imprenditori e di indipendenti per il timore di coloro che vogliono approfittarne. Abbiamo i mezzi necessari per identificare e punire questi personaggi. Del resto, quello che permette a uno Stato di funzionare si chiama anche fiducia, fiducia in un sistema che non fa differenze, che aiuta, che supporta e si preoccupa per i propri cittadini. Non è certamente positivo vedere crescere il debito pubblico, ma sarebbe molto peggio trovarsi con aziende eccessivamente indebitate, perché significherebbe che la ripresa diventerebbe molto lenta e difficile. Se si mantengono le capacità di reazione dell’economia, anche le casse statali possono recuperare in tempi moderatamente veloci. Se invece si crea una realtà di imprese incapaci di investire e di pianificare con qualche certezza in più e non solo a brevissimo termine, i dolori saranno molto più forti e a lungo termine. Sarebbe, a questo punto, eccessivamente ottimistico pensare che con la fine dell’emergenza sanitaria l’economia riaccenda subito i motori e li faccia girare a pieno regime. Un’utopia, purtroppo.