Il rally dei prezzi

L’aumento dei prezzi delle materie prime rischia di compromettere e frenare la ripresa economica. Mentre i rincari toccano livelli record, in Svizzera e nel resto d’Europa le imprese segnalano anche carenze e difficoltà nell’approvvigionamento di alcune commodity, andando a gravare “a domino” su tutto il sistema produttivo.

L’impennata dei prezzari è impressionante, a cominciare dal petrolio, crollato a 20 dollari al barile nel marzo del 2020 e nel giro di dodici mesi risalito a 70 dollari. Il prezzo di una tonnellata di alluminio è invece aumentato del 27%, rispetto all’anno scorso, il ferro ha segnato rialzi tra il 30% e il 60%, quello utilizzato per le costruzioni ha raggiunto addirittura anche il 100% su alcuni mercati. La gomma ha registrato un balzo del 20-40%, il cotone del 17,40%. Forti aumenti, carenza di taluni materiali, forniture a rilento e costi di trasporto, soprattutto via mare più che raddoppiati, sono i quattro fattori che stanno provocando disallineamenti e ritardi nella ripartenza tra i diversi Paesi. Con gravi scompensi per le imprese manifatturiere, ma non solo.

Per la Svizzera che non dispone di materie prime e deve acquistarle all’estero per trasformarle in prodotti da rivendere, c’è un aggravio supplementare che va ad aggiungersi, complicando un già difficile contesto economico. Un onere supplementare per le aziende che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non è compensato dalla forza del franco rispetto alle altre valute. Si tratta, infatti, di rincari che vanno oltre la normale alea contrattuale, alle abituali fluttuazioni della domanda e dell’offerta, e che non sempre si possono scaricare su clienti e committenti. Esponendo così i nostri imprenditori a costi non prevedibili o pianificabili. Le imprese svizzere e ticinesi sono, dunque, confrontate e pesantemente condizionate da ulteriori elementi d’incertezza che sfavoriscono la ripresa e minacciano l’export. Commodity più care fanno aumentare i costi input delle aziende che però, a loro volta, non possono adeguare i loro prezzi a causa di una domanda ancora bassa e incostante.

Non è facile lavorare in queste condizioni, con una schiacciante pressione al ribasso sui margini operativi e costretti, per di più, a ordinare materiali a “prezzo aperto”. Una situazione preoccupante alla quale come Cc-Ti non possiamo non guardare con grande preoccupazione. Gli imprenditori si trovano a fronteggiare un’altra fase assai complessa e delicata di cui però, la politica e un certo velleitarismo sindacale, non sembrano rendersi conto. Servirebbe, invece, un impegno comune almeno nell’intento di lottare per salvaguardare l’economia cantonale e l’occupazione.

Dal novembre dello scorso anno al febbraio 2021 l’acciaio è rincarato del 130%, altri materiali fondamentali per l’edilizia hanno seguito la stessa dinamica con incrementi medi del 35% per il legno, del +10% per il calcestruzzo e del +25% per i polimeri. L’industria della plastica ha ridotto la produzione e le scorte determinando una penuria di offerta sul mercato internazionale, in particolare per i tubi di plastica, i geotessili e i prodotti isolanti. Si spera in una stabilizzazione del mercato nel medio termine. Tuttavia, anche se questa eccezionale ondata di rincari dovesse rientrare quanto prima, almeno per alcuni comparti produttivi, essa nel corso dell’anno andrà comunque a pesare su fatturati e cash flow già compressi nel 2020 e sui problemi conseguenti che attanagliano numerose aziende: mancanza di liquidità e difficoltà negli investimenti. Intanto, la lista degli aumenti e delle commodity che scarseggiano si allunga di settimana in settimana.
Il rame dall’inizio del 2021 ha sfiorato il massimo storico dell’ultimo decennio superando i 9000 dollari a tonnellata (+ 40% rispetto ai mesi pre-pandemia), il nickel si è apprezzato del +17,40%, lo stagno del +31%, mentre il palladio (impiegato per la produzione delle marmitte catalitiche delle auto), è aumentato del 25%. Oltre alla prolungata carenza di microchip, è la penuria di gomma, plastica e di alcuni metalli il nuovo assillo dell’automotive mondiale che dà lavoro anche a tante imprese terziste del Ticino.

Se l’industria ha prima rallentato per il Covid ora rischia un’altra frenata, se non addirittura lo stop in alcuni comparti, a causa delle materie prime che non arrivano. Scarseggiano in particolare i metalli impiegati nei microprocessori, quali stagno, silicio e cobalto. Non sono poche le aziende che non riescono più ad evadere gli ordini o a farlo con notevole ritardo per la mancanza dei materiali necessari alla produzione. La fiammata dei prezzi non ha risparmiato il comparto agroalimentare: il mais ha oltrepassato la soglia dei 6 dollari per bushel al Chicago Board of Trade, i semi di soia hanno sfiorato i 15 dollari a staio e, ovviamente, è rincarato pure l’olio di soia, mentre il grano dal gennaio scorso è aumentato del 12%.
L’incremento esponenziale delle quotazioni e la penuria di parecchi materiali sono dovuti in parte alle strozzature nella produzione e nelle attività minerarie provocate dalla pandemia e all’accelerazione dell’industria in Cina e negli Usa. In parte anche ad una componente speculativa e alle maggiori spese indotte da una più severa applicazione degli standard ambientali in taluni Paesi fornitori. Per molte materie prime gli osservatori prevedono una normalizzazione dei listini nel medio termine, altre, ad esempio il rame, si manterranno invece più a lungo su livelli elevati. A spingere il trend rialzista ha contribuito la crescita dei costi per i trasporti, soprattutto via mare. Secondo il Global Index Freightos, un anno fa noleggiare un container costava mediamente 1’500 dollari, oggi si pagano 4’300 dollari. Le tariffe della Cina verso l’Europa nello stesso periodo sono rincarate del 142% e del 103% lungo le rotte del Mediterraneo attraverso Suez.

Un quadro allarmante che si ripercuote pesantemente sulle nostre imprese, gravate da eccezionali costi supplementari che si aggiungono alle sofferenze finanziarie accumulatesi in 15 mesi di pandemia. A dimostrazione di quanto il nostro paese dipenda dall’estero per moltissimi materiali, per cui l’illusione di uno splendido isolazionismo è e rimane un’illusione. La realtà è molto diversa e tocca tutti noi nel nostro quotidiano, direttamente o indirettamente.

Nuova sezione ticinese per l’industria degli eventi

La EXPO EVENT Swiss LiveCom Association, in collaborazione con le associazioni partner SVTB e Tectum, ha rilevato che nel 2020 oltre 17’000 progetti dell’industria degli eventi sono stati cancellati, provocando un netto calo del fatturato pari al 57%, che corrisponde a 3,19 miliardi di franchi.

Circa 4’460 posti di lavoro sono andati persi solo nel 2020.

Un numero troppo alto di aziende ha cessato l’attività o si è dovuta completamente riorientare (sostenendo costi ingenti). La mancata organizzazione di fiere, eventi e congressi ha causato un ammanco di circa 10 miliardi di franchi nell’indotto. In Ticino, purtroppo, la situazione non è diversa, anzi. Il nostro Cantone, con la sua ricca offerta di eventi, genera annualmente somme molto importanti anche per questo settore. Essendo ormai di fatto fermi da oltre un anno, i danni sono facilmente immaginabili.

Come nel resto del Paese, almeno il 75% delle aziende ha dovuto ricorrere a un prestito COVID-19 che richiederà anni per essere rimborsato. Situazione difficile, se teniamo conto che
i potenziali clienti, a oggi, non sono disposti a programmare e quindi a fornire certezze sulle attività future. Difficile ipotizzare che vi siano concrete novità prima del 2022, tenendo conto dell’ancora tristemente attuale situazione pandemica e del fatto che la grande maggioranza degli eventi presuppone un’attività di pianificazione di mesi, se non di anni.
Gli eventi virtuali possono compensare solo in minima parte le attività e solo quelle mirate di aziende che si dedicano principalmente alla tecnica.

Una sezione ticinese a tutela degli interessi del settore

Considerata l’importanza di questo vasto settore in Ticino, la EXPO EVENT Swiss LiveCom Association ha deciso di creare una Sezione ticinese per le aziende attive sul nostro territorio, che sono circa una cinquantina e che danno lavoro a circa un migliaio di persone, senza contare l’enorme indotto generato (e filiere collegate). La Presidenza della Sezione ticinese è stata affidata alla Signora Nicole Pandiscia-Hasler, titolare dell’azienda Events Designer di Cureglia.

La Sezione sotto l’egida della Cc-Ti, va ad aggiungersi alla quasi cinquantina di associazioni padronali già legate alla nostra realtà, quale associazione-mantello dell’economia cantonale. Il lavoro a salvaguardia degli interessi di questa nuova entità locale verrà svolto in coordinamento con la Cc-Ti. Sarà premura concertare un piano di tutela a favore di queste realtà, tenendo conto delle numerose problematiche che le accomunano e le legano direttamente o indirettamente agli altri numerosi settori dell’economia cantonale e nazionale.

La creazione di questa Sezione è volta alla difesa degli interessi di tutti gli operatori di settore locali e vuole essere una chiara dimostrazione di volontà di collaborazione con le Autorità cantonali. Un operato senza sosta sia in questi periodi molto difficili, sia quando vi sarà l’auspicata ripresa, atto a vigilare e, nel limite del possibile, garantire che il lavoro venga distribuito fra gli operatori locali. Nello stesso contesto un’operazione di supervisione sulla qualità e sulle condizioni occupazionali (salari in primis) parti fondamentali e riconosciute della nostra legislazione.

EXPO EVENT
La EXPO EVENT Swiss LiveCom Association rappresenta una forte associazione a livello nazionale, che sostiene le problematiche dell’industria della LiveCom. L’Associazione è stata fondata nel 2009 dalla fusione di Vereinigung Messen Schweiz (VMS) ed EXPO EVENT Swiss LiveCom Association. Con le fiere, i fornitori e le agenzie, tutti i fornitori del mondo degli eventi sono uniti sotto un’unica Associazione cappello. Di conseguenza, EXPO EVENT Swiss LiveCom Association è ora il portavoce dell’industria LiveCom. L’obiettivo dell’Associazione è quello di collegare più strettamente i suoi membri con eventi e workshop regolari e di evidenziare le nuove tendenze del settore. Questo in relazione alle competenze e allo scambio di informazioni tra i vari membri (www.expo-event.ch).

Non basta!

Sta purtroppo succedendo quello che non doveva accadere: gli aiuti finanziari della Confederazione a sostegno dell’economia colpita dalle restrizioni anti-COVID non vengono erogati con la necessaria rapidità, senza contare che molte piccole imprese e tanti lavoratori indipendenti ricevono poco o nulla. La sopravvivenza di numerose aziende e di una larga fascia di lavoro autonomo sono a rischio.

(c) ISTOCKPHOTO.COM/POGONICI

Già nel febbraio scorso avevamo rilevato che con l’attivazione dei sostegni pubblici nella seconda ondata pandemica le cose non stavano andando per come era stato promesso, ossia con la tempestività e l’efficacia che la gravità dell’emergenza richiede e, soprattutto, senza eccessive lungaggini burocratiche. Il potenziamento dei crediti per i casi di rigore deciso da Berna è stato molto importante, ma risulta ormai evidente che da solo non basta. Per questo, sull’esempio di quanto fatto da alcuni Cantoni come Ginevra, Vaud e Argovia, la Cc-Ti ha chiesto al Consiglio di Stato di mettere a punto al più presto un piano d’intervento del Cantone per tutelare quelle attività economiche che non possono ancora rientrare negli aiuti federali e che oggi vivono una condizione di estrema fragilità. Altrettanto decisivo è un approccio rapido nella valutazione dei casi che necessitano di un aiuto.

Il rischio di danni sistemici

Un intervento equo e mirato è indispensabile per la salvaguardia della tenuta dell’economia che potrebbe subire danni sistemici da cui non sarà facile riprendersi. Non si tratta di concedere regali, anche perché molti sostegni finanziari sono la redistribuzione delle assicurazioni sociali pagate dalle imprese. È importante ricordare che i problemi che oggi si trovano a fronteggiare le imprese non hanno la loro origine all’interno del nostro tessuto produttivo, né sono stati provocati da errori degli imprenditori o da avventate strategie aziendali. Sono invece la diretta conseguenza delle restrizioni imposte alla libertà economica per combattere l’epidemia. Conseguenze che vanno ben al di là di quel normale rischio imprenditoriale che, per sua natura, ogni impresa è pronta ad assumersi e affrontare. I ripetuti lockdown, totali o parziali, per quanto non abbiano investito allo stesso modo tutte le aziende, hanno avuto impatti sul sistema economico nel suo complesso, causando costi maggiori, spese aggiuntive, una domanda discontinua, forti ritardi nelle forniture e nei pagamenti, diseconomie di scala, incertezza e impossibilità di pianificare produzione e investimenti. Una catena di danni diretti o indiretti che ha creato grosse difficoltà persino alle aziende più grandi con molti mezzi, figurarsi per le piccole imprese che rappresentano oltre il 90% della nostra realtà produttiva. È chiaro che in queste condizioni anche molte aziende sanissime e senza debiti nella fase pre-COVID si sono ritrovate ad erodere le proprie riserve per sopravvivere, compromettendo totalmente o almeno in parte la capacità di investire. Con conseguenze per il futuro certamente pesanti in termini di capacità di sopravvivenza sul mercato e, in ultima analisi, di posti di lavoro. Questa economia da COVID ha reso ancora più interdipendenti gli anelli delle catene del valore nazionali e internazionali. Come si è visto, la rottura di uno solo di questi anelli produce e propaga effetti negativi lungo tutte le filiere. Oggi anche l’export, la punta di diamante dell’industria svizzera e ticinese, risente fortemente di questa crisi. Sul commercio internazionale gravano volatilità, incertezza, domanda instabile e tensioni geopolitiche, mentre si fa sempre più aggressiva la concorrenza per assicurarsi clienti e buoni fornitori. Le materie prime hanno prezzi che sono in continuo aumento, anche del 30% e oltre, e variazione, creando non pochi problemi nella stesura di preventivi e concorsi e nella linea di produzione stessa. Lo sforzo costante degli imprenditori di migliorare costantemente la qualità dei loro prodotti e servizi va sostenuto con coraggio e determinazione nell’interesse di tutti. La chiara flessione già registrata per il 2020 in termini di entrate fiscali dimostra, se ancora ce n’era bisogno, l’importanza di un’economia solida per tutta la società.

Casi di rigore e IPG Corona

La Cc-Ti ha già sottolineato alcune problematiche nella gestione dei casi di rigore e nella concessione delle indennità per perdite di guadagno, sebbene sia comprensibile la pressione che grava sulle entità amministrative che devono occuparsi di questi temi. Nella nuova versione della legge COVID-19, approvata poche settimane fa, malgrado le motivate sollecitazioni giunte da più voci economiche e dagli imprenditori tutti, non è stata ampliata la cerchia dei beneficiari delle misure previste per i casi di rigore, nè è stata ridotta la soglia del 40% della perdita di fatturato per accedere a questi aiuti. È ovvio che ampliare il numero di categorie che potrebbero beneficiare degli aiuti per casi di rigore significa avere costi supplementari. Ma sono costi comunque inferiori a quelli che vi sarebbero costringendo molte attività a chiudere e poi a dover fare capo a disoccupazione, assistenza e altri ammortizzatori. Inoltre, l’attuale situazione non tiene conto di chi, pur non essendo stato chiuso per ordine dell’autorità, è di fatto fermo perché i clienti principali sono a loro volta chiusi. In quest’ottica è comprensibile come la percentuale del 40% di perdita minima sulla cifra d’affari per accedere agli aiuti percentuale di perdita sia troppo elevata. Per molte attività economiche equivale di fatto al fallimento e che le esclude numerose imprese in difficoltà dai sostegni federali e non per demeriti propri. Una linea rossa che marca, peraltro, evidenti discriminazioni.
Perché un’azienda che ha perso solo il 39% della cifra d’affari non ha diritto di accedere ai casi di rigore? Sulla base di quale ragione giuridica una società che non ha dovuto chiudere per ordine dello Stato, ma che ha comunque subito perdite notevoli e misurabili perché facente parte della filiera colpita duramente dai lockdown, non può beneficiare degli aiuti federali? Escludere queste imprese significa lasciarle in balia dell’andamento dell’epidemia e condannarle alla chiusura. Non a caso i Cantoni Ginevra e Argovia hanno abbassato tale soglia rispettivamente al 20% e al 25% di diminuzione della cifra d’affari. E il Canton Vaud ha creato autonomamente un fondo di sostegno all’industria di 6 milioni di franchi, proprio per cercare di ovviare alla situazione di chi si ritrova in difficoltà a causa del rallentamento della filiera di produzione.
Difficile se non insostenibile anche la situazione di molti indipendenti, esclusi dall’indennità di perdita di guadagno, la cosiddetta IPG Corona. Oltre ai ritardi nell’erogazione delle indennità va detto che Berna ci ha messo anche del suo per complicare le cose. Dallo scorso settembre sono stati, infatti, fissati criteri più rigorosi per il riconoscimento delle indennità, inoltre la domanda per le IPG Corona va ora ripresentata ogni mese. Ciò sta rendendo inevitabilmente le procedure più lunghe e macchinose per tutti.
Al danno purtroppo si aggiunge la beffa: mentre gli indipendenti aspettano mesi per ottenere le indennità, ricevono invece puntualmente conteggi e richiami per un sollecito pagamento in materia di AVS, IVA e vari altri contributi obbligatori. Una situazione insostenibile per migliaia di indipendenti: artigiani, negozianti, piccoli imprenditori, ristoratori, artisti, liberi professionisti, commercianti, titolari di servizi alle persone, sempre più esasperati. Sarebbe pertanto doverosa una moratoria sui contributi obbligatori, per evitare l’amaro paradosso di uno Stato che da un lato chiude le attività impedendo di guadagnare e che ritarda nell’erogazione dei sostegni, e dall’altro apre subito delle procedure esecutive per dei pagamenti, certo dovuti, ma che, viste le attuali difficoltà non si possono onorare.
In un contesto così complesso è giusto e indispensabile cercare di scongiurare gli abusi, ma non si possono mettere in ginocchio migliaia di piccoli imprenditori e di indipendenti per il timore di coloro che vogliono approfittarne. Abbiamo i mezzi necessari per identificare e punire questi personaggi. Del resto, quello che permette a uno Stato di funzionare si chiama anche fiducia, fiducia in un sistema che non fa differenze, che aiuta, che supporta e si preoccupa per i propri cittadini. Non è certamente positivo vedere crescere il debito pubblico, ma sarebbe molto peggio trovarsi con aziende eccessivamente indebitate, perché significherebbe che la ripresa diventerebbe molto lenta e difficile. Se si mantengono le capacità di reazione dell’economia, anche le casse statali possono recuperare in tempi moderatamente veloci. Se invece si crea una realtà di imprese incapaci di investire e di pianificare con qualche certezza in più e non solo a brevissimo termine, i dolori saranno molto più forti e a lungo termine. Sarebbe, a questo punto, eccessivamente ottimistico pensare che con la fine dell’emergenza sanitaria l’economia riaccenda subito i motori e li faccia girare a pieno regime. Un’utopia, purtroppo.

Maggiore flessibilità e rapidità nell’attribuzione di aiuti

L’opinione di Cristina Maderni, Vice Presidente Cc-Ti, Presidente Ordine dei Commercialisti del Cantone Ticino e Presidente FTAF

La situazione di difficoltà di molte imprese, di per sé sane ma chiuse per ordine statale oppure colpite indirettamente da tale ordine, è nota a tutti. Gli indipendenti e i gerenti di società hanno costituito la categoria meno considerata e aiutata in tutta la pandemia e anche questa è cosa nota. È quindi ben comprensibile quale sia lo stato d’animo di quegli indipendenti e quei gerenti che, avendo da sempre pagato i premi dell’Indennità per perdita di guadagno (IPG), si trovano oggi ad affrontare ostacoli e ritardi nel riscuotere gli aiuti IPG Corona. Questo è il vero paradosso: aver contribuito alla cassa comune per una vita e non ricevere nel momento del bisogno il conseguente supporto.

Nella prima fase di lockdown l’IPG veniva erogata per importi inferiori a quanto previsto per le Indennità per lavoro ridotto (ILR), ma le regole erano equivalenti. Oggi non è più il caso e mal si comprende perché.

Le casse interpretano in maniera restrittiva cosa sia “Subire una perdita di guadagno o stipendio”. Molti si sono visti rifiutare il pagamento delle indennità perché, per vivere, hanno richiesto dei finanziamenti aziendali, oppure si sono permessi di prelevare un acconto mensile. Questo è chiaramente un danno oltre la beffa: come avrebbero potuto mantenere sé stessi e le proprie famiglie senza nessun prelievo?
Si è così creato un problema per i mesi di settembre e ottobre, con conseguenti ricorsi e contestazioni di decisioni fino al Tribunale Amministrativo, che pure è oberato e non ha modo di evadere tempestivamente le pratiche.

La situazione è obiettivamente difficile per tutti, anche per l’amministrazione cantonale e nessuno lo nega. Gli uffici, come l’Istituto delle assicurazioni sociali (IAS), sono sotto pressione. Ciò non toglie che occorra non perdere di vista la priorità: sostenere il lavoro.
Nella prima fase abbiamo saputo dare risposte immediate ed erogare i fondi con velocità. Questo è stato il segreto del successo del modello svizzero. Oggi purtroppo non è più così.
Abbiamo troppa paura degli abusi, che inevitabilmente accadono in situazioni eccezionali, ma che certo da noi non costituiscono la regola.
La diffidenza verso chi chiede sostegno va combattuta: si tratta dei piccoli imprenditori del Cantone, che vivono e hanno famiglia in Ticino e che cercano di salvaguardare l’occupazione per le collaboratrici e i collaboratori.

Lo Stato ha correttamente chiesto ai cittadini di essere ragionevoli e flessibili in questo difficile periodo. L’autorità cantonale dimostri di esserlo altrettanto, concentri le sue energie sui compiti urgenti e se necessario temporeggi invece sui richiami e sui precetti esecutivi, per non togliere con una mano quello che ha concesso (o avrebbe dovuto concedere) con l’altra.

Una popolazione che spopola

La Cc-Ti riflette su un’evoluzione che rischia di compromettere la crescita del Ticino

Secondo le previsioni dell’Ufficio federale di statistica, entro il 2050 si stima che il Ticino avrà 18’100 abitanti in meno. In sostanza, è come se scomparissero dalla mappa demografica gli abitanti di Mendrisio e Balerna.

Negli equilibri confederali, al di là delle ovvie differenze fra regioni, il rischio è che si creino disparità eccessive in termini di capacità di sviluppo economico e quindi di benessere generale. Per molti motivi (massa critica, infrastrutture, rete economica, ecc.) il Ticino non può imporsi sui grandi agglomerati, come ad esempio quello zurighese, ma può e deve mantenere un buon livello, simile a quello degli altri cantoni dalle dimensioni e dalle strutture comparabili.

In questi anni, in cui la competitività ticinese ha dimostrato di non avere nulla da invidiare alla media svizzera. In gioco ci sono quindi la capacità innovativa e la forza lavoro qualificata. Il nostro Cantone continua a offrire certezze ai propri cittadini, in termini di affidabilità delle istituzioni, sicurezza legislativa, possibilità di formazione e lavoro, ecc..
Nel mercato del lavoro la concorrenza è cresciuta, ma ciò non significa automaticamente che si riducano le prospettive.

Il nostro Cantone presenta una realtà economica estremamente diversificata in molteplici settori congiunturali con eccellenze differenti. Ogni agglomerato presenta punti di forza peculiari che contribuiscono alla crescita economica. Sono innumerevoli gli esempi di aziende dall’alto potenziale che ogni giorno esportano i propri prodotti sui mercati internazionali e lavorano attivamente in quello interno. La presenza di importanti istituti accademici e di ricerca con cui si collabora fattivamente incrementa in modo determinante la qualità dell’innovazione, permettendo anche al Ticino di garantire una performance di qualità.

Per dare continuità a questo sviluppo, è giusto quindi monitorare la tendenza alla diminuzione della popolazione, visto che il trend sembra costante e trova riscontri anche nel recente documento pubblicato da Coscienza Svizzera “Il malessere demografico che colpisce il Canton Ticino. Sfide politiche ed economiche per la nostra società”, curato da Ivano D’Andrea, CEO del Gruppo Multi.

Le morti superano le nascite da un decennio, la natalità cala, così come il saldo migratorio intercantonale. Inoltre, come per altri cantoni dove il mercato del lavoro presenta delle difficoltà, chi parte per svolgere studi in altri cantoni o all’estero non sempre riprende la strada di casa, o comunque non subito. Diminuiscono anche gli stranieri che si stabiliscono da noi e aumentano gli svizzeri che si trasferiscono all’estero.

Ma quali sono i motivi alla base di questa tendenza? Gli elementi sono molteplici e le dinamiche sono complesse, per cui le soluzioni non sono ottenibili con la bacchetta magica o con una legge, come spesso crede la politica.

È indubbio che altre regioni svizzere ed europee possano esercitare un’attrattiva maggiore rispetto al nostro Cantone in termini di possibilità di carriera. Anche per un aspetto finanziario. Detto in altre parole, talune attività da noi semplicemente non ci sono, per cui andarle a cercare altrove è assolutamente naturale, soprattutto pensando alle tante nuove figure professionali create con lo sviluppo delle tecnologie e l’evoluzione digitale.

La cura incessante del ‘fattore umano’ resta ancora decisiva. Il progresso tecnologico – frutto dell’esperienza e del genio umano – insieme a una costante formazione del personale (aspetto fondamentale per garantire la presenza di collaboratori qualificati sul territorio) sono sempre al centro dell’attenzione. Ciò permette, insieme a investimenti mirati e continui nella Ricerca e Sviluppo (R&S), a una grande flessibilità dei modelli di business che si adattano alle costanti variazioni economiche, a un sistema-Paese che spinge sull’acceleratore dell’apertura e dell’incremento delle competenze – con la formazione duale –, di restare competitivo.

Insomma, un Ticino che deve continuare sulla strada intrapresa qualche anno fa, in modo che se oggi magari “zoppica” un po’, non smetta di “correre”.

Come detto, non siamo soli a essere confrontati alla decrescita della popolazione. Anche altri territori come Neuchâtel (non a caso quest’ultimo promotore di idee elencate nell’altro nostro articolo) vivono una situazione molto simile.

È purtroppo innegabile che la capacità di accoglienza del Ticino sia molto diminuita da qualche anno a questa parte. Sia verso le aziende, tutte frettolosamente messe nel calderone degli evasori fiscali, sia verso i privati, mal sopportati per il fatto di essere stranieri. La caccia alle streghe scatenata nei confronti dei facoltosi contribuenti stranieri che in Svizzera risiedono ma non lavorano non giova certo alla voglia di insediarsi alle nostre latitudini.

I casi di persone costrette a ripartire dalla Svizzera per futili motivi iniziano ad aumentare in maniera insidiosa. L’immagine di un paese non solo di difficile accesso ma addirittura a volte ostile, invoglia poco a trasferirsi in Ticino.

Denatalità e invecchiamento della popolazione hanno sinora preoccupato i politici quasi esclusivamente per le pesanti ripercussioni che ci saranno sul sistema pensionistico. Ma ci sono anche altri effetti non meno gravi. Sulla sanità che con una popolazione più vecchia vedrà aumentare ancora i costi della salute. Sulla forza lavoro, venendo a mancare un adeguato apporto di energie giovani che sono anche il motore di quel dinamismo economico che produce e distribuisce ricchezza. Sui gettiti fiscali e sull’attrattività per gli investimenti.  Sui modelli di consumo, sulla mobilità, sul mercato immobiliare, innescando un effetto sostituzione per cui si lasceranno vecchi quartieri e vecchi appartamenti per quelli nuovi, declassando i primi ad aree marginali. Degrado e sovradimensionamento per infrastrutture che erano state concepite per un numero maggiore di residenti.

Anche il peso politico di un Cantone con meno abitanti diminuisce considerevolmente, vista anche la sempre crescente importanza delle città sul piano politico federale.

È possibile invertire questa tendenza? Il Canton Neuchâtel ha abbozzato alcune soluzioni, con obiettivi e misure specifiche che potrebbero offrire delle piste interessanti anche per il nostro Cantone, sempre che ci sia la consapevolezza di un’azione comune e coordinata. La strategia neocastellana sostiene che non dipenda solo dall’azione pubblica, ma da una molteplicità di fattori e dalla capacità di molti attori di lavorare assieme per innescare una dinamica demografica positiva.

Non suona così complicato, ma se non si riesce a parlare senza paraocchi ideologici di accesso alla proprietà, mobilità, fiscalità, mercato del lavoro, politica migratoria di persone e aziende, tanto per citare solo alcuni elementi, l’esercizio rischia di diventare impossibile.

Il modello del Canton Neuchâtel per attirare nuovi residenti

Una strategia con 10 obiettivi e 10 misure per contrastare la diminuzione della popolazione

Già da qualche anno l’attrattività residenziale è una delle grandi priorità del Governo neocastellano per contrastare il declino demografico. Dal 2000 l’arrivo di nuovi residenti dagli altri Cantoni si è infatti arrestato e dal 2016 anche il flusso internazionale, che aveva in parte compensato questa perdita, è negativo. Il governo è, perciò, corso ai ripari, avviando un piano per il rilancio demografico.

“La stratégie de promotion de la domiciliation” attivata dal Cantone è incardinata sulle tre A di Ancrer, Attirer, Accueillir (ancorare, attirare, accogliere), con tre obiettivi definiti: ritornare ad una crescita demografica in linea con la media nazionale, rilanciare il flusso migratorio intercantonale, migliorare la percezione dell’attrattività del Cantone sia all’interno, quindi con la popolazione, che all’esterno.

Per coordinare il progetto di rilancio demografico, dotato di un budget di 2,3 milioni di franchi per il quinquennio 2019-2024, è stato nominato un delegato, “Monsieur domiciliation”, affiancato da un team interdipartimentale e da un comitato consultivo di cui fanno parte personalità qualificate con esperienze e competenze specialistiche. Il piano degli interventi è strutturato su cinque assi prioritari e altrettanti assi trasversali, che prevedono anche dieci misure specifiche che devono essere attuate dal governo con la collaborazione di altri enti pubblici e partner privati.

Gli assi prioritari sono: ancoraggio della popolazione e limitazione dell’esodo verso altri Cantoni; incentivare la residenza dei pendolari che già lavorano a Neuchâtel e del nuovo personale assunto dagli enti pubblici o dalle aziende; fidelizzazione dei residenti; contatti capillari e feedback costante con i nuovi abitanti; rientro nel Cantone degli “espatriati”.

Gli assi trasversali prevedono: miglioramento delle condizioni quadro e marketing residenziale; sviluppo di apposite partnership; sensibilizzazione e mobilitazione della popolazione (secondo il principio che “gli abitanti sono i primi ambasciatori del loro territorio”); politica di accoglienza; monitoraggio dell’andamento del progetto.

Le dieci misure specifiche gestite dallo Stato vanno dalla campagna permanente per la promozione dell’immagine residenziale, con la creazione di un apposito brand “Vivere a Neuchâtel”, al partenariato con le aziende e  le agenzie specializzate per incentivare la residenza dei pendolari; dal miglioramento dell’accoglienza per i nuovi arrivati – definendo con i Comuni dettagliati standard di qualità- alla rete per attirare nuovi abitanti; dall’attivazione di tutta la pubblica amministrazione sulla “Stratégie de promotion de la domiciliation” agli interventi per “ancorare” la popolazione residente; dalle facilitazioni per l’accesso alla proprietà, con incentivi finanziari e fiscali, al monitoraggio capillare dei flussi demografici. Nel programma per la crescita demografica un ruolo particolare lo giocano i Comuni per la stretta vicinanza con la popolazione locale, l’organizzazione della vita collettiva e per l’offerta di tutti quei servizi e prestazioni che valorizzano l’attrattività residenziale. Sono i Comuni in prima battuta, avverte il Cantone, ad accogliere e facilitare l’integrazione dei nuovi residenti.

Test rapidi su larga scala: ora tocca al cantone Ticino

Comunicato stampa congiunto Cc-Ti, ABT, AITI, DISTI e SSIC TI di lunedì 8 marzo 2021

Le associazioni economiche cantonali hanno preso atto della mutata strategia del Consiglio federale, che intende ora potenziare ed estendere su larga scala il ricorso ai test rapidi per depistare il coronavirus. Tale strategia di estensione dell’utilizzo dei test rapidi sarà ulteriormente completata nelle prossime settimane quando tutta la popolazione avrà a disposizione anche test rapidi fai da te. Affinché la nuova strategia del Consiglio federale abbia successo, è necessario l’impegno dei Cantoni. Invitiamo dunque il Consiglio di Stato, come richiesto dal Consiglio federale nella consultazione avviata venerdì 5 marzo, ad approntare e mettere rapidamente in atto un piano cantonale di utilizzo su larga scala di test mirati e ripetitivi, il cui costo sarà assunto dalla Confederazione a partire da lunedì 15 marzo.

Ciò presuppone che il Cantone realizzi rapidamente le strutture adatte e la logistica necessaria. Per quanto concerne il mondo del lavoro, il Consiglio federale ha indicato che i test di depistaggio devono avvenire in azienda, allo scopo di ridurre sensibilmente gli spostamenti delle persone. Le aziende devono attuare tutte le misure necessarie per effettuare i test di depistaggio, ma la loro messa in atto dovrebbe avvenire prima di tutto facendo richiesta al Cantone, che poi dovrà coordinare la consegna dei test alle aziende, il ritiro dei campioni prelevati e l’attività dei laboratori incaricati.

Le associazioni economiche chiedono espressamente che sia le procedure di richiesta dei test da parte delle aziende sia le diverse attività di coordinamento allo scopo di accelerare la procedura di depistaggio del coronavirus, avvengano rapidamente, senza burocrazia né ostacoli particolari. Ci attendiamo pertanto la piena collaborazione dell’amministrazione cantonale incaricata e laddove previsto dei Comuni. Le aziende confermano la loro disponibilità a una massima collaborazione.

Di fronte all’evidenza dei ritardi nella somministrazione dei vaccini, le associazioni economiche ribadiscono che la strategia delle autorità non può basarsi esclusivamente su chiusure totali e parziali delle attività economiche, che stanno causando ingenti danni non solo economici ma anche sociali. Pertanto, è necessario proprio estendere senza indugi l’utilizzo dei test di depistaggio del coronavirus su larga scala.

Riaperture con sistema, lo richiede l’economia

Nel quadro della breve consultazione dei cantoni aperta la scorsa settimana dal Consiglio federale sulle misure concernenti la gestione della pandemia da COVID-19, la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino (Cc-Ti) ha preso posizione attraverso le associazioni economiche di riferimento nazionali. La Cc-Ti ha, in sostanza, valutato positivamente il fatto che vi sia una strategia di apertura legata alla valutazione del rischio. Tuttavia, occorre maggiore chiarezza sui parametri utilizzati e tale analisi va svolta non con cadenza mensile ma piu breve. Rilevanti a nostro avviso sono le cifre riguardanti le ospedalizzazioni, il tasso di occupazione nei letti dei reparti di terapia intensiva, l’incidenza sui 7 giorni, il tasso di positività e i luoghi di contagio.

Per la valutazione del rischio è indispensabile seguire la logica della protezione mirata, cioè della protezione delle persone più fragili.
Decisivo è applicare in modo coordinato tutto il pacchetto di misure, cioè i vaccini, i test (compresi quelli salivari che andrebbero usati in maniera più massiccia), il Contact Tracing (che va decisamente migliorato) e le misure di protezione (mascherina, lavaggio delle mani, distanze).
Si chiedono inoltre aperture più ampie di quelle prospettate, già dal 1° marzo 2021 o comunque al più tardi il 22 marzo 2021, come chiesto dal Consiglio di Stato e da diverse associazioni di categoria. Da mesi insistiamo sul fatto che le attività che possono essere esercitate in sicurezza e qui lo ribadiamo. Riteniamo positivo che anche il Consiglio di Stato stia iniziando a sposare questa linea.Infine, le regole sui casi di rigore vanno meglio precisate, ad esempio per quanto concerne le chiusure parziali ordinate dalle autorità, che devono essere considerate equivalenti a chiusure totali.


Qui di seguito, nel dettaglio, quanto formulato dalla Cc-Ti:

  • Strategia di apertura legata alla valutazione del rischio: la nostra valutazione è positiva, anche perché sono stati elencati in modo chiaro i parametri che si intendono utilizzare per valutare il rischio. Sulla fondatezza di alcuni di questi parametri esprimiamo comunque qualche dubbio, perché non sembra che tutti i dati raccolti siano affidabili e completi, come del resto dichiarato anche dalla task-force nazionale nella conferenza stampa del 16 febbraio scorso. In taluni casi si parla di valutazioni, simulazioni e proiezioni, ma sembrano mancare dati certi e affidabili. Esortiamo pertanto l’Autorità Federale a una grande attenzione su questi punti, perché la decisione su chiusure molto rigorose e dalle conseguenze economiche e sociali enormi deve essere basata su dati assolutamente fondati.

Inoltre, una valutazione a scadenza mensile è troppo dilatata nel tempo. Riteniamo che sia possibile avere indicazioni utilizzabili in un termine di due o massimo tre settimane.

In generale comunque ribadiamo che il principio di una strategia di aperture basta sulla valutazione dei rischi è corretta.

E’ importante che la logica della protezione mirata seguita a suo tempo dal Consiglio federale e approvata dal Parlamento sia applicata in maniera sistematica. E’ infatti il complesso delle misure che interrompe le catene di contagio, cioè i vaccini, i test (compresi quelli salivari che andrebbero usati in maniera più massiccia), il Contact Tracing (che va decisamente migliorato) e le misure di protezione (mascherina, lavaggio delle mani, distanze).

La logica della protezione mirata si concentra su persone particolarmente a rischio e permette un allentamento delle misure più rapido e ampio. La strategia di apertura proposta dal Consiglio federale non tiene sufficientemente conto di questo aspetto, poiché riconduce il rischio solo alla situazione epidemiologica e trascura l’impatto delle misure per contrastare tale situazione. Con la logica della protezione mirata è possibile differenziare la valutazione del rischio e quindi di adattare anche la strategia di apertura al rischio globale.

  • Valutazione del rischio: come detto sopra, il Consiglio federale ha annunciato di voler giudicare il rischio sulla base di più indicatori, nessuno dei quali sarebbe esclusivo e che non sarebbero cumulativi. Il principio di avere più indicatori è corretto. Il rischio è però che non vi sia chiarezza su quali indicatori siano utilizzati per le decisioni prese di volta in volta. Proponiamo pertanto che si tenga conto delle cifre riguardanti le ospedalizzazioni, il tasso di occupazione nei letti dei reparti di terapia intensiva, l’incidenza sui 7 giorni, il tasso di positività e i luoghi di contagio.
  • Prime aperture a partire dal 1°marzo 2021: concordiamo sulle riaperture dei negozi e su alcuni allentamenti per la vita sociale. Va da sé che tutte le attività legate al commercio e simili, consulenze, visite, ecc., possono essere aperte e le limitazioni degli orari di apertura e dell’assortimento vengono a cadere. È fuori discussione che restano in vigore e vanno applicati i piani e le misure di protezione nel commercio e per le manifestazioni.
  • Seconda tappa di apertura: non riteniamo invece appropriato quanto previsto dal Consiglio federale per una seconda tappa di aperture e allentamenti. E’ un piano esitante e che non tiene conto della logica della protezione mirata. Per questo impedisce di avere visioni quanto a una possibile normalizzazione e penalizza pesantemente le attività ancora chiuse (ristoranti, fitness ecc.) che si trovano nell’impossibilità di pianificare un’uscita da una crisi che ormai è strutturale. Riteniamo che, con le misure di protezione attuali e già attuate negli scorsi mesi, le attività ora chiuse possano riprendere il 1° marzo 2021.

O comunque non più tardi del 22 marzo 2021, come chiesto dal Consiglio di Stato ticinese e, ad esempio, dall’associazione di categoria dei ristoratori, giustamente preoccupati anche in vista del periodo pasquale che, evoluzione sanitaria permettendo, deve poter essere pianificato anche per evitare eccessivi assembramenti improvvisi e difficilmente controllabili.

Va tra l’altro ricordato che le aziende non si aprono e si chiudono premendo un bottone, ma necessitano di tempo per organizzarsi.

  • Casi di rigore: riteniamo indispensabile e urgente l’applicazione delle misure per casi di rigore secondo la volontà del legislatore e l’ordinanza della Confederazione. Questo vale in particolare per le chiusure di aziende ordinate dalle Autorità. Ad esempio, la chiusura parziale deve essere considerata come chiusura totale e l’indennizzo per la cifra d’affari va adattato di conseguenza. Si tratta di una misura urgente, perché i fallimenti non attendono gli indennizzi.

Vanno considerate anche le aziende create dopo il 1° marzo 2020, perché la loro esclusione forfettaria non è giustificata.

Per ristabilire la proporzionalità nel contesto della gestione della pandemia e per dare una prospettiva alla Svizzera, riteniamo importante che vengano riprese le misure proposte dalle associazioni di riferimento nazionali, cioè:

  • Da subito: l’allentamento del lockdown con aperture laddove si possono sfruttare spazi all’aperto, come le terrazze. L’apertura degli spazi commerciali, gestita con le misure di protezione note, compresi i showroom, con la possibilità di acquisti su appuntamento e vendita all’esterno, così come le manifestazioni fino a 50 persone.
  • Dal 1° marzo 2021: la fine del lockdown con l’apertura completa del commercio al dettaglio e di attività economiche simili, così come i ristoranti, i centri fitness e le manifestazioni sino a 100 persone.

Per le manifestazioni sportive, culturali ecc., vanno valutati anche determinati tentativi di apertura, come sta attualmente studiando la Francia che organizzerà a breve alcuni concerti di prova, con la collaborazione e la supervisione delle Autorità sanitarie. Con test all’entrata, contact tracing e test post-evento, per capire in che misura vi siano rischi accresciuti e contagi effettivi.

Chiediamo che le Autorità elvetiche prestino attenzione a questi esperimenti, che potrebbero dare indicazioni molto interessanti.

Riteniamo comunque che siano già date le condizioni per valutare l’apertura al pubblico di eventi sportivi e culturali che disponevano a suo tempo di misure di protezione efficaci, nella misura di 1/3 dei posti fissi seduti.

Il telelavoro deve tornare a essere consigliato e non obbligatorio.

  • Entro giugno 2021: conclusione del programma completo di vaccinazione della Confederazione, il che comporta un’intensificazione mirata della campagna di vaccinazione.
  • Sempre e in parallelo a queste misure: l’estensione dei test e l’intensificazione e la digitalizzazione del Contact Tracing, per interrompere le catene di contagio, il che corrisponde alla strategia della protezione mirata.

Sempre e in parallelo a queste misure: l’elaborazione di un chiaro e trasparente «Dashboard» nazionale che permetta una gestione pianificabile della pandemia. Gli indicatori dovrebbero essere i dati sulle ospedalizzazioni, sull’occupazione di letti in terapia intensiva, quelli dell’incidenza sui 7 giorni, il tasso di positività e i luoghi di contagio.

UNA chiusura, TANTE chiusure

La mancata attività di un settore trascina inevitabilmente con sé centinaia di realtà, microimprese e piccole aziende, spesso a conduzione famigliare, che di fatto stanno perdendo una fetta del loro mercato più importante e che non sanno più come fare quadrare i conti.

© ISTOCKPHOTO.COM/ANDRII YALANSKYI

Solo poche settimane fa l’Interprofessione della Vite e del Vino aveva lanciato un SOS a nome di tutta la filiera dell’agroalimentare: allevatori, contadini, alpigiani, panettieri, macellai e tante altre categorie produttive che, anche se non toccate direttamente dal semi-confinamento, sono in sofferenza per la prolungata chiusura dei loro clienti abituali (ristoranti, bar, banchettistica, eventistica, ecc.). In crisi c’è tutta una filiera dimensionata direttamente sul territorio che assicura peraltro anche buoni sbocchi occupazionali nelle valli e nelle zone rurali. Un settore che, abbinato al turismo, rappresenta il marchio dell’identità territoriale, con un potenziale di crescita notevole, tant’è che sin dal 2008 è stato inserito nei Programmi di attuazione della politica regionale del Cantone. L’agroalimentare è, per esempio, una componente strategica di un’altra filiera fondamentale per l’economia, quella dell’industria delle vacanze: hotel, garni, campeggi, B&B, ristorazione, bar, negozi, musei, ritrovi, offerta culturale e d’intrattenimento, servizi per il tempo libero, trasporti e agenzie di viaggio, sono gli anelli della catena del turismo che rappresenta una delle più importanti voci del PIL cantonale. Molti albergatori in questi mesi si sono ritrovati col deserto attorno e, fatti quattro conti, hanno deciso, ragionevolmente, di chiudere temporaneamente per evitare il totale fallimento. Se si pensa che su un buon albergo gravitano in media 300 attività indotte, tra fornitori e servizi esterni che sono pure rimasti con le mani in mano, si può immaginare quanto possano essere ingenti le perdite per tutti.

La chiusura di bar e ristoranti, fermi ormai dalla fine del novembre scorso, si ripercuote su tutto un tessuto economico e sociale, poiché il modello della filiera presuppone per sua natura l’interazione e la sinergia tra una molteplicità di operatori, con benefici e vantaggi reciproci. Se la serrata degli esercizi pubblici dovesse protrarsi, compromettendo con la Pasqua anche l’avvio della nuova stagione turistica, le conseguenze sarebbero catastrofiche. Avevamo già citato anche alcune cifre significative dell’importanza anche dei club sportivi
per l’economia cantonale, osservando i numeri dell’hockey su ghiaccio e calcio della stagione 2018-2019: 66 milioni di franchi di cifra d’affari, 440 collaboratori sotto contratto (indeterminato o determinato), 350 collaboratori esterni, 1’200 fornitori esterni, 402’000 spettatori paganti, oltre 1’700 ragazzi e ragazze dei settori giovanili in formazione. L’azienda “sport in Ticino” si è dimostrata strettamente legata e correlata al nostro territorio e ogni limitazione anche in questo campo ha ripercussioni fortissime sui diretti collaboratori ma anche su centinaia di fornitori. Abbiamo la fortuna di avere un tessuto economico diversificato, per cui spesso le difficoltà di un settore sono compensate da altri. Ricordiamo, ad esempio, che durante il lockdown primaverile l’industria fortunatamente aveva potuto continuare a lavorare, seppure a ritmi ridotti, in tutta sicurezza, rivelandosi fondamentale per il mantenimento di un sostenibile andamento economico generale. Ma, nel caso concreto, se non si riuscirà a far continuare a funzionare il sistema economico con troppe limitazioni, non si potranno più limitare i danni. È ovvio che in un meccanismo complesso e interconnesso come quello economico, ogni piccolo ingranaggio che si blocca ha conseguenze su molti altri. Vale per tutti i settori, nessuno escluso.

L’emergenza sanitaria ha innescato, parallelamente, un’emergenza economica e sociale, la cui portata reale non è ancora ben definita, ma che certamente avrà un notevole impatto anche negli anni a venire. Quando per di più ci troveremo confrontati anche con le profonde trasformazioni strutturali generate dall’accelerazione digitale. Tutta l’economia sta subendo pericolosi scompensi. La liquidità delle aziende è andata prosciugandosi, riducendo così anche le possibilità d’investimento e d’innovazione, mentre sulle filiere produttive locali, nazionali e internazionali pesano i ripetuti lockdown, la contrazione dei mercati di riferimento e il crollo della produzione a livello mondiale. Pensiamo, ad esempio, agli investimenti, fondamentali per rimanere competitivi e quindi anche assicurare l’occupazione. È un peccato perché le aziende ticinesi, negli scorsi anni, avevano dimostrato una grande propensione agli investimenti, spesso superiore alla media degli altri cantoni. Ma in queste condizioni diventa, oggettivamente, molto difficile.

I lockdown destabilizzano le catene globali

A soffrire sono anche tante imprese direttamente orientate sull’export o che lavorano da terziste per grandi gruppi attivi sul mercato nazionale o mondiale. Un comparto che negli ultimi decenni ha conosciuto una notevole espansione grazie alla progressiva internazionalizzazione del nostro sistema produttivo. Ma gli stop and go che, tra confinamenti totali o parziali, stanno facendo sussultare l’economia in tutti i Paesi avanzati e la crisi dei mercati, hanno destabilizzato le filiere produttive nazionali e globali.
L’industria orologeria ticinese, ad esempio, con una trentina di aziende e circa 3000 addetti, è una “multinazionale tascabile” distribuita sul territorio che produce tutte le parti necessarie alla fabbricazione degli orologi. Ogni anno assembla milioni di pezzi (oltre il 30% della produzione nazionale) per un valore che supera i 450 milioni di franchi, esportando in Europa, Asia, India, Medio Oriente e Usa. Nonostante gli aiuti della Confederazione (crediti COVID e lavoro ridotto), alcune aziende sono state costrette a chiudere. Altre hanno dovuto licenziare. Tutte lottano per sopravvivere stringendo i denti, risucchiate nel crollo dell’orologiera svizzera che nel 2020 ha registrato un calo delle esportazioni di quasi il 22% e la perdita di oltre 1500 posti di lavoro. Ha resistito, più meno bene, solo qualche casa prestigiosa, mentre la Swatch, il simbolo stesso del rilancio e dell’innovazione dell’orologeria elvetica che raggruppa ben 18 marchi, con 36mila dipendenti in tutto il mondo, a causa della chiusura dei negozi, le restrizioni nei viaggi e la paralisi del turismo, ha subito una perdita di 53 milioni di franchi. Precipitando nelle cifre rosse per la prima volta da quasi 40 anni.
Non meno difficile è la situazione per molte imprese del cantone che lavorano per conto terzi in alcune filiere globali: nel settore tessile per le grandi griffe della moda, nella metalmeccanica e meccanica di precisione per l’aeronautica o l’automotive che ha già visto in Ticino la chiusura della sede di un’importante industria nazionale a seguito della crisi che ha investito il mercato automobilistico. Il settore automotive è un modello illuminante delle filiere produttive globali che attraversano il mondo intero. In ogni auto confluisce, infatti, il lavoro delle maestranze, dei centri di ricerca e di progettazione di una quindicina di Paesi diversi. Una grande rete transcontinentale nella quale anche il nostro piccolo Cantone gioca la sua parte fornendo diverse componenti.

Dovremmo sempre tenere a mente che i numeri sono solo una semplificazione della realtà

In Svizzera lo scorso gennaio, secondo le stime dell’Ufficio federale di statistica, erano quasi 445mila i lavoratori (l’8,5% di tutti gli occupati) coinvolti nelle chiusure o nelle restrizioni alle attività economiche imposte dal Consiglio federale per contrastare la pandemia. Limitazioni che hanno interessato ben 83’056 imprese (il 12% del totale delle aziende). In Ticino queste misure hanno colpito 21’433 lavoratori (il 9,1% del totale) e 4’701 aziende. Nell’aprile del 2020 col lockdown della prima ondata pandemica erano rimaste ferme in tutta la Confederazione più di mezzo milione di persone. Da un confinamento all’altro, c’è un volume immane di lavoro, di attività, di produzione di ricchezza e di opportunità di crescita sottratto al Paese, con un rallentamento generale di tutto il sistema economico. Un malessere, anche sociale, sempre più diffuso che solo da poco in Svizzera si sta cominciando ad indagare con i primi studi scientifici.

L’economia non cerca compassione, ma certamente rispetto.


Evidente, dunque, che quando si parla di salute è assai riduttivo fermarsi solo al rischio del contagio del coronavirus. I prossimi mesi metteranno ancora a dura prova la realtà del nostro Paese. Quanto faticosamente raggiunto e assicurato nei tanti mesi di pandemia già trascorsi rischia di essere nuovamente messo in discussione. Il mondo intero si muove intorno a noi con misure e modalità nuove e non sempre facilmente sostenibili per le aziende più piccole. Abbiamo imparato a reinventarci, a lavorare duramente per mantenere gli accordi e la qualità che ci rappresentano da sempre, stiamo costruendo una nuova realtà nell’interesse di tutti i settori per restare concorrenziali e presenti sui mercati.
Eppure, c’è chi vorrebbe incartare il dibattito pubblico nello scontro tra i cosiddetti rigoristi che insistono per prolungare, se non per inasprire del tutto, le attuali restrizioni per il timore di una terza ondata pandemica e chi invece chiede la riapertura per scongiurare il pericolo di una catastrofe economica e sociale. Restando così sempre incagliati nell’ingannevole dilemma se valgono di più le ragioni della salute o quelle dell’economia.

La Cc-Ti sostiene, da sempre, che si può e si deve, trovare invece un ragionevole punto di equilibrio avvalorando una discussione costruttiva su come pianificare una graduale riapertura, intensificando la campagna di vaccinazione e mantenendo ovunque le fondamentali misure di protezione individuale. Ma altrettanto urgente è aprire un dibattito su come affrontare il dopo pandemia che rappresenta una sfida non meno cruciale. Si parla anche di possibile effetto rimbalzo, cioè una forte crescita dei consumi quando la situazione sul fronte della salute si calmerà. Pensiamo sia più un auspicio che una certezza.
Il vaccino non sarà comunque la panacea di ogni male, purtroppo. Le persone e le aziende saranno ancora, per tanto tempo, chiamate a fare la differenza. E il comportamento individuale di tutti farà ancora la differenza. Non viene menzionata la grande responsabilità individuale che non accetta limiti personali, ma pretende limiti sugli altri. Troppo spesso non si comprende che, chiudendo il cerchio, ogni limite sarà un caro prezzo da pagare per tutti.
La Cc-Ti continua a battersi per promuovere il dialogo tra le parti sociali e il mondo politico a favore della crescita del Paese, tenendo conto delle componenti sanitarie, sociale ed economiche. Non siamo irresponsabili, come qualcuno vuol far credere.

Coronavirus e allentamenti: occorre più responsabilità individuale

Presa di posizione dell’economia svizzera con proposte concrete in merito alle possibilità di riaperture.

Le associazioni mantello dell’economia economiesuisse e l’Unione svizzera degli imprenditori, così come numerose Camere di commercio e associazioni industriali, chiedono al Consiglio federale un cambio di paradigma: invece di combattere la pandemia di coronavirus con divieti rigidi e talvolta arbitrari, il Consiglio federale dovrebbe in futuro prendere le sue decisioni sulla base di principi e in funzione del livello di copertura vaccinale della popolazione. Più la gente è immune al virus, più le libertà economiche e personali possono e devono essere nuovamente concesse. A giocare un ruolo centrale è la responsabilità individuale.

Le associazioni mantello dell’economia economiesuisse e l’Unione svizzera degli imprenditori, così come numerose Camere di commercio e associazioni industriali, chiedono al Consiglio federale un cambio di paradigma: invece di combattere la pandemia di coronavirus con divieti rigidi e talvolta arbitrari, il Consiglio federale dovrebbe in futuro prendere le sue decisioni sulla base di principi e in funzione del livello di copertura vaccinale della popolazione. Più la gente è immune al virus, più le libertà economiche e personali possono e devono essere nuovamente concesse. A giocare un ruolo centrale è la responsabilità individuale.

Nella lotta contro la pandemia di coronavirus, sono ora necessarie decisioni basate su pochi principi comprensibili e sempre più sulla responsabilità individuale. Le associazioni mantello dell’economia, economiesuisse e l’Unione svizzera degli imprenditori, nonché le Camere di commercio cantonali e un gran numero di associazioni di categoria chiedono al Consiglio federale un piano d’azione in quattro fasi:

Fase 1: a partire da inizio marzo

La situazione epidemiologica è nettamente migliorata in queste ultime settimane. Le prime misure di allentamento dovrebbero dunque entrare in vigore il 1° marzo. Concretamente, bisognerebbe allentare le restrizioni concernenti le attività a debole rischio di contagio, vale a dire la maggioranza delle attività all’aria aperta, quali ad esempio il pattinaggio, il ciclismo o l’escursionismo. La limitazione del numero di persone a 5 per le riunioni in spazi pubblici dovrebbe essere allentata o addirittura soppressa. Anche i ristoranti dovrebbero essere autorizzati ad aprire i loro spazi esterni. Inoltre, le attività dovrebbero essere permesse di nuovo dove ci sono concetti di protezione sperimentati e dove le mascherine vengono indossate per tutto il tempo. Di conseguenza, i negozi dovrebbero essere aperti anche per i beni non di prima necessità già dal 1° marzo. E infine l’obbligo dell’homeoffice dovrebbe essere trasformato in una raccomandazione. È importante che le capacità dei test siano ulteriormente aumentate. Allo stesso modo dev’essere mantenuto in ogni momento un sistema funzionante di contact tracing.

Fase 2: i gruppi a rischio sono vaccinati

Una volta che i gruppi a rischio saranno stati vaccinati, s’imporranno ulteriori allentamenti: i ristoranti, i cinema o le strutture per il benessere dovrebbero poter riaprire con concetti di protezione appropriati. Tutte le attività sportive e gli assembramenti all’aperto devono nuovamente essere possibili senza restrizioni. La raccomandazione relativa all’homeoffice dev’essere allentata, ad esempio dividendo la forza lavoro in gruppi. Infine, presso le università deve riprendere l’insegnamento in presenza. In questa fase, si può e si deve dare maggior peso alla responsabilità individuale, poiché la popolazione conosce bene le potenziali conseguenze negative a lungo termine di un contagio da coronavirus. La National COVID-19 Science Task Force parte dal presupposto che in caso di una rapida diffusione del virus, molte persone limiterebbero le loro attività in modo indipendente a causa degli alti rischi per la salute. I test devono continuare ad essere eseguiti in modo che gli individui asintomatici siano individuati in una fase iniziale. La responsabilità individuale significa anche che i test sono diffusi nelle scuole, nelle imprese o nelle istituzioni sociali e che la popolazione continua ad essere testata rapidamente quando vi sono casi sospetti.

Fase 3: vaccini disponibili per tutti

Se ogni persona che lo desidera può essere vaccinata immediatamente, il rischio di un sovraccarico degli ospedali è poco probabile. Lo Stato non può più imporre restrizioni alle libertà economiche e per-sonali di queste persone. Di conseguenza, si potrebbero organizzare eventi di ogni tipo senza concetti di protezione se tutti i visitatori e gli operatori fossero vaccinati. Fiere, congressi, grandi eventi come l’hockey su ghiaccio, il calcio o i concerti rock, ma anche bar, discoteche e locali notturni devono essere ammessi a queste condizioni.

Fase 4: immunità di gregge

Non appena sarà raggiunta l’immunità di gregge, cioè quando il 60-80% della popolazione è stata vaccinata, tutte le restanti restrizioni devono essere eliminate: le imprese non dovranno più implementare piani di protezione e non sarà nemmeno necessario indossare mascherine. Ma i test continueranno ad essere eseguiti per rilevare eventuali mutazioni e per evitare un nuovo picco epidemico. Al contempo, le capacità di contact tracing e di vaccini efficaci devono essere disponibili in ogni momento. La Confederazione deve avere una chiara strategia sulla propria azione in caso di nuove ondate causate dalle varianti nonostante la copertura vaccinale.

Adattare la gestione della crisi

Infine, la Confederazione deve anche migliorare la sua gestione delle crisi il più rapidamente possibile. Le organizzazioni di crisi esistenti, come l’esercito o la difesa civile, devono essere in grado di fornire il supporto necessario, sia nei test di massa che nella vaccinazione rapida di grandi gruppi di popolazione.

La Svizzera deve ora creare rapidamente un certificato di vaccinazione sicuro. Le persone che sono state vaccinate dovrebbero essere in grado di dimostrarlo in modo inequivocabile. Questo richiede un certificato di vaccinazione riconosciuto a livello internazionale, digitale e non falsificabile.


Comunicato originale sul sito dell’Unione Svizzera degli Imprenditori