Inchiesta congiunturale 2021-2022

Fra difficoltà, buona tenuta e prospettive incoraggianti

La Cc-Ti, secondo una prassi ormai consolidata da oltre un decennio, ha condotto un’inchiesta congiunturale presso i suoi associati nel periodo fra agosto e ottobre 2021, unitamente alle Camere di commercio e dell’industria di Friborgo, Ginevra, Giura, Neuchâtel, Vaud e Vallese.

Hanno partecipato all’inchiesta 280 imprese associate alla Cc-Ti, che impiegano in tutto 17’049 dipendenti nel cantone. Un campione di aziende di tutti i settori economici, di tutte le dimensioni e di tutti i distretti cantonali, consolidato negli anni, rappresentativo e che fornisce risultati concreti e attendibili, sempre confermati anche da altre ricerche congiunturali condotte da istituti federali e cantonali. L’inchiesta mira a fornire indicazioni attendibili sulle tendenze generali dell’economia ticinese, senza volersi sostituire ad analisi più mirate effettuate dai singoli settori economici, ma restando un punto fermo.

Delle 280 aziende che hanno partecipato al rilevamento, 80 sono del settore industria e artigianato e 200 del comparto commercio e servizi.

158 di queste realtà aziendali operano sul mercato interno e altre 122 sono invece attive anche o, quasi esclusivamente, nell’export, ne emerge che il 2021, al netto delle innegabili difficoltà di talune aziende e settori, è stato cautamente positivo per l’economia ticinese nella sua globalità. Le previsioni per il 2022 sono pure di segno positivo, malgrado le problematiche legate alla reperibilità e ai costi delle materie prime e di molti altri prodotti. I risultati sono in linea con quelli ottenuti dalle altre Camere di commercio e dell’industria nei rispettivi cantoni, in particolare i cantoni della Svizzera romanda, che hanno utilizzato lo stesso strumento. Anche nei cantoni della Svizzera tedesca, che si sono mossi con altri tipi di rilevamento, le tendenze sono sostanzialmente le stesse di quelle ticinesi, ennesima conferma dell’allineamento della nostra economia sull’andamento della media nazionale.

Andamento generale degli affari nel 2021

In maniera inaspettata per certi versi, il risultato è di segno positivo per il 78% delle imprese. Le piccole aziende con meno di 30 collaboratori hanno evidenziato valori leggermente inferiori se confrontate con quelle medie e grandi. Per chi è attivo prevalentemente nell’export (quota fra l’80 e il 100% delle attività aziendali presentatasi), si registrano cifre invece inferiori alla media. Ciò non stupisce, tenuto conto delle molte difficoltà legate all’instabilità internazionale, con regole che cambiano continuamente e spesso poco chiare. Anche il rincaro e la scarsa reperibilità di materie prime e prodotti hanno lasciato il segno. Tuttavia, l’andamento generale anche di chi esporta resta sostanzialmente buono e su questa evoluzione ha certamente inciso, come a livello nazionale, il settore farmaceutico.

Previsioni per i prossimi sei mesi e per il secondo semestre del 2022

Analogamente a quanto rilevato negli altri cantoni, anche in Ticino le aziende si attendono un andamento in linea con quello del 2021 e quindi tutto sommato di segno positivo. Non vi sono sostanziali differenze previste fra le aziende prevalentemente attive sul mercato interno e quelle orientate all’esportazione.

Per il secondo semestre del 2022, le previsioni sono in linea con quelle del primo semestre. Il tutto ovviamente partendo dall’auspicio che non vi siano più lockdown rigidi o misure molto restrittive sul nostro territorio e non solo in Svizzera.

Autofinanziamento delle imprese e investimenti

Questi due parametri sono sempre oggetto di attenta valutazione, quali indicatori essenziali per giudicare il reale andamento. Malgrado le difficoltà e, in qualche occasione, la necessità di ricorrere a crediti Covid (spesso poi non utilizzati), il dato sull’autofinanziamento è rimasto costante, con un margine giudicato soddisfacente o buono dal 72% delle aziende. Addirittura, l’8% lo considera eccellente.

Anche sul fronte degli investimenti, malgrado vi sia stato un leggero calo, il 43% delle imprese ne ha comunque effettuati nel 2021. Ciò è importante non solo per il territorio, ma anche come indicatore dello stato competitivo delle imprese e il fatto che gli investimenti non siano calati massicciamente malgrado gli ostacoli, è un segnale molto importante.

Da rilevare come gli investimenti siano rimasti stabili per le aziende del comparto industria/artigianato (61%), mentre in calo soprattutto per servizi e commercio. Ciò è evidentemente dovuto al freno di talune attività a causa della pandemia. Come in passato, sono soprattutto le aziende medie e grandi a essere più attive sul fronte degli investimenti. Nonostante i valori tutto sommato positivi, non va però trascurato come l’erosione dei margini di utile, elemento che sottolineiamo da anni, costituisca un rischio per la capacità di investimento futuro. Comunque, le previsioni di investimenti per il 2022 sono in linea con quanto rilevato negli scorsi anni, all’insegna di una certa stabilità.

Occupazione stabile ma difficoltà di reclutamento

L’occupazione è rimasta fortunatamente stabile. Le misure messe in atto durante la pandemia, come il lavoro ridotto, hanno certamente permesso di limitare gli effetti negativi. Interessante è sottolineare il fatto che a causa della crisi non vi è stata la rinuncia all’assunzione di apprendisti da parte delle aziende formatrici. Solo il 3% delle imprese ha infatti assunto meno apprendisti, mentre le altre non hanno modificato la propria attitudine. Anche per il 2022 si prevede una sostanziale stabilità per l’effettivo di personale.

Si conferma, per contro, la difficoltà di reperire personale qualificato, soprattutto per industria e artigianato. Emerge chiara la necessità di incentivare l’orientamento professionale e la formazione e di incrementare la formazione continua. A dimostrazione di un’attenzione particolare verso il tema delle competenze da costruire «in casa». Utili sono considerate anche altre misure per favorire l’assunzione di manodopera indigena, come ad esempio la creazione di asili nido, gli incentivi fiscali e il lavoro flessibile.

Difficoltà di approvvigionamento

Tema di cui si parla giustamente molto negli ultimi mesi e che rischia di rimanere d’attualità per parecchio tempo ancora. La problematica per il momento, pur essendo trasversale, tocca prevalentemente il settore dell’industria e dell’artigianato.

Fra le conseguenze di queste difficoltà, le aziende segnalano le seguenti problematiche:

  • ritardi di consegne (77%)
  • aumento dei prezzi di acquisto (75%)
  • margini ridotti come detto in precedenza (43%)
  • aumento dei costi di trasporto (39%)
  • un rallentamento delle attività (32%)
  • la sospensione o il rinvio dei progetti (14%).

Le misure adottate per cercare di rimediare sono molteplici, a dimostrazione della grande flessibilità delle nostre aziende, già evidenziata nel recente passato in occasione degli sconquassi legati alla forza del franco, rispettivamente alla debolezza dell’euro.

Fra le cause delle carenze sono state menzionate:

  • la sospensione degli impianti produttivi a causa della pandemia (72%)
  • la scarsità di materiali (47%)
  • la forte domanda dopo i vari lockdown (34%)
  • le ridotte capacità di trasporto marittimo e aereo (33%)
  • i cambiamenti nelle catene di approvvigionamento (21%).

Fra le varie misure di recupero sono state menzionate:

  • la diversificazione dei fornitori (51%), come già messo in atto appunto con le crisi valutarie
  • la modifica dei prezzi di vendita (45%)
  • laddove possibile, l’aumento delle scorte (38%)
  • rinegoziazione dei contratti (31%)
  • utilizzo di materiali sostitutivi (27%) comunque di non facile reperibilità (es. i semiconduttori)
  • solo una parte ridotta (12%) ha dovuto diminuire la produzione e/o fare capo al lavoro ridotto per il personale (9%).

Un ritorno alla normalità è previsto nel 2° trimestre del 2022 dal 41% delle aziende. Significativo dell’incertezza della situazione generale è il dato delle aziende che hanno risposto di non essere in grado di dare indicazioni su un ritorno alla normalità, ben il 33%.


Documenti utili

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Le notizie della Cc-Ti: abbiamo raggruppato i nostri interventi sui media e alcuni articoli economici d’interesse.

Dicembre

Novembre

Ottobre: 4-10.10.2021/11-17.10.2021/18-24.10.2021/25-31.10.2021

Settembre: 6-11.9.2021/13-19.9.2021 + podcast Millevoci 13.09.2021 / 20-26.9.2021

Agosto: 16-22.8.2021

Luglio: 5-11.7.2021/19-25.7.2021/26-31.7.2021

Giugno: 7-13.6.2021/14-20.6.2021/21-27.6.2021

Maggio 2021: 3-5.2021/17-23.5.21/24-30.5.2021

Aprile 2021: 5-11.4.21/12-18.4.21/19-25.4.21/ 26.4-2.5.2021

Marzo 2021: 1-7.3.2021/8-14.3.2021/15-21.3.2021/22-28.3.2021/ 29.3-4.4.2021

Febbraio 2021: 8-14.2.2021 + 8-14.2.2021/ 15-21.2.2021/ 22-28.2.2021

Pronti a tornare a casa?

Il rientro delle aziende trasferite all’estero, tra aspirazioni e realtà

© istockphoto.com/Filograph

Aziende più automatizzate e robotizzate per ottimizzare linee produttive, costi e competitività, più prossimità con clienti finali, catene di approvvigionamento più corte ma più sicure e controllabili. Sono gli elementi distintivi del reshoring, ovvero la rilocalizzazione in patria di produzioni, o parte di esse, che erano state trasferite all’estero. Un fenomeno di cui si è cominciato a parlare nel 2008, a ridosso della grande crisi finanziaria, ma che oggi potrebbe assumere maggiore consistenza alla luce della tempesta perfetta che si è abbattuta sull’economia mondiale con il coronavirus.

Nuovi equilibri

Due anni di pandemia hanno messo a dura prova le global value chains, già sfibrate dai dazi e dalle barriere protezionistiche di una guerra commerciale a scena aperta che aveva bruscamente frenato gli scambi internazionali. La diffusione del virus, inceppando l’economia di tutti i Paesi avanzati, ha evidenziato l’importanza e le criticità delle supply chain mondiali. Le lunghe catene di approvvigionamento sono state messe sotto stress da una ripresa asimmetrica, tra Asia e Occidente, che ha ingolfato l’intero sistema di produzione e distribuzione delle merci, facendo impennare i costi dei trasporti.

A inasprire il quadro delle nuove tensioni geopolitiche, nel quale la Cina va dismettendo il ruolo di fabbrica mondiale a basso costo per proiettarsi in quello di super potenza a tutti gli effetti, sono arrivati la crisi delle materie prime e lo shock energetico. I prezzi di petrolio, gas e carbone hanno raggiunto livelli record, ridestando ovunque le spinte inflazionistiche. Difficoltà negli approvvigionamenti, linee produttive ferme o che lavorano a scartamento ridotto e numerosi Paesi occidentali, tra cui la Svizzera come ha avvertito il consigliere federale Guy Parmelin, che rischiano il blackout. Gli equilibri su cui si sono retti sinora la produzione e il commercio mondiali sono divenuti instabili.

Cambia la mappa della divisione internazionale del lavoro e per l’economia, già alle prese con la complessità della trasformazione digitale e gli ingenti costi di una transizione ecologica programmata avventatamente più sulla base delle emozioni che dei fatti, si aprono scenari inediti. Scenari che impongono ripensamenti anche nelle scelte d’investimento e di allocazione delle risorse.

Si ritorna casa?

È in questa prospettiva che il backshoring, il ritorno in patria delle attività produttive, e il nearshoring, il rientro in un Paese limitrofo, potrebbero diventare un’opzione concreta. Gli Stati Uniti fanno ad esempio capo al Messico, mentre i paesi del Vecchio Continente si rivolgono verso l’Est europeo o il Nordafrica, magari più cari dei paesi asiatici, ma appunto più vicini e quindi più “accessibili” per puntuali fasi di produzione. Tuttavia, malgrado le molte speranze riposte in evoluzioni che portino a un rimpatrio delle attività, gli studi internazionali non hanno ancora registrato numeri tali da rilevare una vera e propria tendenza verso il ritorno a casa delle imprese. Anche in Svizzera si sono avuti pochi casi di backshoring, più frequente invece quelli del rientro in Stati vicini, come Romania o Polonia, di alcune fasi produttive che erano state delocalizzate in Asia. Il caso più conosciuto è quello della Wander, che ha riportato in Svizzera la produzione dell’Ovomaltina da spalmare sul pane. Adidas ha fatto la stessa cosa in Germania per alcuni suoi modelli di scarpe, ma va detto che, in generale, in termini di posti di lavoro il “fenomeno” (se così si può chiamare) resta molto contenuto.

Se la tecnologia permette di produrre a costi che ridiventano interessanti, d’altra parte non vi è grande necessità di maggiorare la forza lavoro umana. Magari più qualificata, questo certamente, ma non dal punto di vista numerico.

Anche se va rimarcato l’effetto di creazione di posti di lavoro legato al fatto che attività nuove, seppur limitate, attirino altre aziende e si approvvigionano di attrezzature e prestazioni di servizi in loco.

Stimolare il rimpatrio?

Leggermente diversa è la situazione quando il reshoring è incoraggiato con sovvenzioni dichiarate, o più meno “nascoste”, da alcuni Stati che, con una strategia protezionistica, vorrebbero garantirsi l’autonomia e l’indipendenza per alcune produzioni. Ci ha provato negli USA, con poco successo, il presidente Trump, ci sta tentando la Francia di Macron per alcuni prodotti farmaceutici, mentre in Giappone il governo ha stanziato 2,2 miliardi di dollari per riportare in patria imprese che si erano trasferite in Cina.

Da un punto di vista elvetico, questo approccio però è considerato, poco “svizzero”. Come indicato qualche tempo fa dalla Seco, il Consiglio federale non è incline a una politica industriale aggressiva, ma si predilige la scelta di garantire condizioni generali che possano essere interessanti per tutte le aziende per “fare impresa”, per fare in modo che l’economia “se la cavi da sola”. Scelta che a corto termine può magari metterci in posizione di debolezza verso la concorrenza sempre più agguerrita di molti altri paesi, ma che probabilmente, sul lungo termine è più pagante e soprattutto va a beneficio di tutti i settori, senza distinzioni fra grandi e piccole aziende.

Elemento importante perché finora si è rilevato piuttosto un rimpatrio di piccole e medie imprese, emigrate soprattutto per ragioni di costi, mentre le grandi aziende sono più restìe a spostarsi. Avantutto per i tempi spesso molto lunghi del trasferimento di un’attività (spesso calcolato in termini di numerosi anni) e per la necessità di ammortizzare investimenti magari molto importanti in siti di produzione non abbandonabili in tempi brevi. Inoltre, le grandi aziende prediligono spesso paesi vicini a quelli che sono i mercati di destinazione dei loro prodotti.

Assicurarsi l’autosufficienza in diversi settori economici e non solo in quelli tradizionalmente ritenuti strategici, può indurre a politiche aggressive di “recupero” delle aziende. Non sono mancate negli ultimi anni misure protezionistiche che tendono anche al controllo preventivo su acquisizioni e fusioni da parte di investitori stranieri, nuovi dazi sui prodotti esteri e barriere doganali. Strategie che, inevitabilmente, irrigidiscono le dinamiche del libero mercato, generando inefficienze e costi aggiuntivi per la collettività e che riducono anche per tutte le altre imprese la possibilità di acquisire vantaggi competitivi attraverso una migliore allocazione dei fattori produttivi lungo le catene del valore globale. Ma l’esercizio è più complesso di quanti molti credono, perché il mondo e l’economia sono a tal punto interconnessi e interdipendenti che scegliere di ritornare non succede dall’oggi al domani. In realtà si apre solo un altro ciclo con la riconfigurazione delle supply chain globali e il consolidarsi delle supply network, con nuovi assetti nella divisione internazionale del lavoro e nel commercio mondiale che si rafforzerà in alcune aree regionali attraverso catene del valore che si svilupperanno anche a medio e corto raggio.

Le ragioni del reshoring

“Reshoring di Stato” a parte, sotto la pressione dell’incertezza e dell’instabilità odierne sono tante le ragioni che possono indurre un’impresa a rientrare in patria: difficoltà nell’approvvigionamento e nelle forniture, tempi di consegna troppo lunghi, vantaggio reputazionale sui mercati internazionali con un autentico “Made in…” , problemi di qualità, elevati costi logistici, ostacoli doganali, minore dispersione del know-how, più prossimità per reagire rapidamente alla domanda dei consumatori, maggiore sicurezza coi fornitori locali, produzioni che richiedono manodopera sempre più qualificata (non sempre reperibile nei Paesi dove costa meno), sensibilità ambientale, digitalizzazione che oggi permette di mantenere e rafforzare i contatti anche con i mercati più lontani, e, non da ultimo, la necessità di ridurre i rischi nel caso di nuove emergenze mondiali.  Ma, come visto in precedenza, tra i fattori determinanti del reshoring ci sono soprattutto l’automazione e la robotica che aumentano la produttività e riducono il costo del lavoro, mentre laddove prima costava molto meno ora va rincarando.

Nel giro di quindici anni appena, il prezzo dei robot industriali è sceso da 70mila a 15mila dollari, dunque alla portata pure delle piccole aziende, l’automazione è ancora più sofisticata, precisa, e l’intelligenza artificiale riesce a sovrintendere i processi produttivi più complessi. Non per nulla è emersa anche la tesi di tassare i robot, discussa anche nel quadro della nostra Assemblea generale dello scorso 15 ottobre 2021 con il noto fiscalista ginevrino Xavier Oberson. Tema molto complesso dal punto di vista giuridico e pratico e che suscita numerose perplessità anche per le difficoltà che potrebbe creare nell’ambito dell’innovazione.

Ma sarebbe sbagliato ignorarlo, perché nel contesto dei profondi e rapidi cambiamenti portati dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, sarà quasi inevitabile anche affrontare gli adattamenti dei sistemi fiscali, togliendo ad esempio determinate imposte che stanno diventando obsolete o che non avranno più la stessa giustificazione. Come l’imposta sulla sostanza che la Svizzera mantiene, nonostante sia ormai poco diffusa a livello internazionale.

Chi spera nel tramonto o nella forte limitazione degli scambi internazionali non deve però farsi troppe illusioni. Il “reshoring” non significa un ripiegamento esclusivo nei confini domestici, rinunciando all’internazionalizzazione che è spesso un fattore decisivo per la crescita delle imprese e del sistema economico. Si resta competitivi se si resta nelle reti globali della produzione che permettono di acquisire le risorse migliori, le tecnologie più avanzate, gli approvvigionamenti più convenienti e di raggiungere più facilmente i mercati di riferimento. Dunque, se si vuole favorire, anche nel nostro Paese, la rilocalizzazione aziendale, senza scadere in deleterie pratiche protezionistiche, serve “rinverdire” l’approccio elvetico summenzionato, cioè la cura delle spesso menzionate condizioni quadro. Sembrano banalità, ma una fiscalità leggera, infrastrutture e formazione al passo con i tempi, regole e burocrazia meno vessatorie per la libertà economica sono elementi-chiave per potersi giocare anche la sfida di un rimpatrio di talune attività. Così come l’accoglienza di idee e persone in una buona collaborazione fra pubblico e privato e un dialogo più costruttivo tra le parti sociali sono fondamentali per ogni insediamento. Questa è la base non solo per cercare di richiamare in Svizzera talune attività, ma anche per evitare che ne partano delle altre.

La Cc-Ti incontra Monika Schmutz Kirgöz, Ambasciatrice di Svizzera in Italia, Malta e San Marino

Comunicato stampa Cc-Ti


Questa sera l’Ambasciatrice di Svizzera in Italia, Malta e San Marino Monika Schmutz Kirgöz, assieme al consigliere d’Ambasciata Gregorio Bernasconi, capo della sezione economia e politiche settoriali, ha incontrato esponenti dell’economia cantonale presso la Camera di Commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino, nell’ambito di una visita di cortesia.

In questo contesto è stato possibile uno scambio di vedute sui principali dossier economici che riguardano le relazioni bilaterali. In particolar modo sono stati affrontati i temi dei servizi finanziari e del  telelavoro dei frontalieri.

Il primo anno di Andrea Gehri alla Presidenza della Cc-Ti

Intervista con Andrea Gehri, Presidente Cc-Ti

Venerdì 15 ottobre 2021 si terrà a Bellinzona la 104esima Assemblea generale ordinaria della Cc-Ti. Tradizionale occasione per fare il punto sulla situazione economica e illustrare il lavoro svolto
durante l’anno, così come i progetti futuri in ambito politico e di servizi agli associati. Sarà anche un momento di riflessione sul primo anno di presidenza di Andrea Gehri, che si è ritrovato alla testa dell’associazione mantello ticinese in un periodo particolarmente difficile per tutti, compresa ovviamente l’economia. Anche se, come preferisce sottolineare il Presidente, “la fase di maggiore incertezza per la diffusione del Coronavirus è stata precedente alla mia presidenza. Se penso alla primavera 2020 con tutto il Paese fermo per il lockdown, ebbene da allora abbiamo sicuramente imparato a convivere e contrastare meglio la propagazione del virus. L’economia svizzera e anche quella ticinese hanno retto bene, forse anche meglio di quanto ci si potesse aspettare. Questo sicuramente grazie al sistema svizzero che ha dato prova di grande efficienza e pragmatismo, con doti di ponderazione non comuni nell’affrontare quella che a tutti gli effetti si è cristallizzata in una crisi globale. Ma anche grazie alla grande flessibilità e capacità di adattamento del mondo imprenditoriale. Il connubio pubblico/privato ha dimostrato di funzionare in maniera efficace quando si lavora compatti in una sola direzione”.

Da Presidente della Cc-Ti e da imprenditore quali sono state le difficoltà maggiori che ha dovuto affrontare?

Ci sono stati e ci sono tuttora settori economici che, più di altri, hanno sofferto e soffrono ancora per determinate limitazioni e misure di prevenzione che, per quanto parziali, sono fonte di preoccupazioni. Se prendiamo, ad esempio, i comparti della ristorazione, della cultura, dello sport, dei viaggi, della metalmeccanica legata all’esportazione, ebbene queste attività risentono fortemente del clima d’incertezza generale che regna tuttora.

La pandemia ha avuto un impatto pesante sul nostro sistema produttivo, ma grazie ai piani di sostegno della Confederazione, del Cantone e alla tenacia dei nostri imprenditori non ci sono stati gli effetti catastrofici che si erano temuti in un primo momento. Pericolo scampato?

La Svizzera ha dimostrato ancora una volta di saper affrontare problemi e situazioni di gravità globale con grande tempismo, straordinaria efficacia e impareggiabile concretezza. Le misure varate da Confederazione e Cantoni, in particolare il credito COVID-19 alle imprese che ha consentito di accedere a liquidità immediata senza intralci burocratici entro 24 ore attraverso la semplice richiesta via e-mail, ha costituito una prova di efficienza senza eguali al mondo. Questa misura straordinaria, che ha permesso alle aziende di salvaguardare la liquidità e quindi la capacità di operare, unita all’indennità per lavoro ridotto che ha scongiurato il pericolo di licenziamenti di massa, sono state risposte concrete, dirette e incisive a sostegno della nostra economia. La resilienza dimostrata, poi, agli imprenditori svizzeri, figlia certamente di una cultura imprenditoriale sana, di solida tradizione e basata su nobili principi economici, per cui l’impresa risulta essere il mezzo ideale per diffondere ricchezza nel Paese, ha certamente contribuito ad evitare le conseguenze catastrofiche temute. Il pericolo di una crisi ancora più grave sembrerebbe per ora scongiurato; tuttavia, siamo interconnessi con il mondo e le ripercussioni di avvenimenti negativi di portata internazionale possono rendere fragili e ulteriormente incerte le attuali previsioni.

Rincari delle materie prime e gravi scompensi nelle catene di approvvigionamento, la ripresa stenta a stabilizzarsi. Come vede la situazione nel medio e lungo periodo?

Si tratta di conseguenze dirette della diffusione del Coronavirus a livello planetario che hanno colpito duramente realtà strategiche essenziali per la distribuzione, la lavorazione e il trasporto delle materie prime nel mondo. Durante la prima e seconda ondata pandemica i colossi e le multinazionali che distribuiscono le principali materie prime hanno ridotto enormemente le loro capacità produttive e distributive, causando l’effetto ‘collo di bottiglia’ che viviamo tuttora. L’economia, soprattutto in Cina, Asia e USA è ripartita vigorosamente, accaparrandosi, prima di altri Paesi, tutte le risorse rimaste sul mercato, causando di conseguenza una penuria di materiali mai vissuta prima d’ora, oltre a rincari senza precedenti. Stiamo, quindi, soffrendo enormemente, in particolare in Europa dove l’approvvigionamento di materie prime risulta tuttora molto difficoltoso e con costi alle stelle. In proiezione futura si spera in un graduale ritorno alla normalità che, comunque, sarà diversa da quella precedente e che, secondo gli esperti, non interverrà prima del secondo semestre 2022. I rincari di alcune materie rimarranno e contribuiranno verosimilmente ad accentuare la spirale inflazionistica.

Sia nel recente studio di UBS sulla competitività che in quello del Credit Suisse sulla qualità della localizzazione, il Ticino si è ritrovato quasi in fondo alle rispettive classifiche. Questa retrocessione è riconducibile a dei deficit infrastrutturali (fiscalità, collegamenti, formazione, invecchiamento della popolazione) oppure ad un indebolimento dell’economia cantonale?

Per poter essere classificati come Cantone virtuoso in materia di competitività e, aggiungo, di attrattività verso potenziali investitori e aziende da attirare sul nostro territorio, necessitiamo decisamente di un’inversione di pensiero e di approccio verso l’economia in generale. È innegabile che la fiscalità poco allettante del nostro Cantone costituisca una penalizzazione notevole che non favorisce la localizzazione sul territorio di realtà imprenditoriali di rilievo. Non solo, ma pure a livello di infrastrutture, di trasporti e di transito abbiamo deficit che concorrono in modo determinante a scoraggiare un’eventuale localizzazione in Ticino. L’istruzione e la possibilità di reperire sul territorio profili professionali funzionali all’economia è un altro criterio fondamentale di scelta che ogni imprenditore analizza accuratamente. Abbiamo sicuramente la necessità di finalizzare una formazione più aderente alle realtà economiche locali, ma soprattutto verso quelle nuove professioni che si stanno affacciando sulla scena produttiva. Penso, in particolare, alle professioni legate all’accresciuta necessità di digitalizzazione, con cui saremo confrontati tutti nel prossimo futuro, a discipline legate alle nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale e alla biotecnologia. Dobbiamo saper cogliere le mutazioni e le tendenze economiche attuali, e tradurle in opportunità per le future generazioni.

Le nostre imprese sono in grado di sostenere questa svolta? E il sistema politico, in generale, è consapevole delle radicali trasformazioni a cui stiamo andando incontro?

Abbiamo compreso l’importanza di doverci confrontare con le nuove tecnologie e all’avanzata poderosa della digitalizzazione anche nella vita quotidiana. La concorrenzialità delle nostre imprese sarà messa alla prova e misurata attraverso la capacità di adattamento e di implementazione di tutta una serie di misure orientate su un indirizzo più tecnologico e digitale, indipendentemente dal ramo d’attività. Dal sistema politico ci attendiamo che supporti questi cambiamenti strutturali col sostegno diretto degli incentivi all’innovazione, e che funga da esempio adottando analoghi principi anche dell’amministrazione pubblica.

Il piano di rilancio post-pandemico è una delle priorità nell’agenda politica ticinese, ma il dibattito tra i partiti si è già riavvitato sull’eterno dilemma tra fiscalità e socialità. Pensa che si riuscirà a trovare un punto di equilibrio? Cosa bisogna fare per garantire al Cantone una crescita stabile e duratura?

Il pericolo che la pandemia possa costituire la scusa per rimandare alle calende greche la riforma fiscale in Ticino è reale e mi spaventa. Sarebbe un autogol clamoroso che renderebbe il nostro tessuto economico ancora più vulnerabile e che allontanerebbe ulteriormente determinati attori della nostra economia, interessati o già presenti nel nostro Paese, verso localizzazioni più attrattive. Dovremo finalmente riuscire a far comprendere che per poter difendere la socialità e favorire la distribuzione della ricchezza dobbiamo saperla creare prima di tutto. Penalizzare il tessuto economico con politiche di aggravi e, come in questo caso, rimandare una riforma fiscale determinante per favorire la crescita economica, rappresenterebbe un passo nella direzione opposta a quella auspicata. La crescita del Cantone passerà attraverso politiche fiscali attrattive, investimenti mirati nelle infrastrutture per migliorare percorrenze e spostamenti, attraverso una formazione e un’istruzione di prim’ordine aderenti alla realtà, incentivando politiche di trasformazione ecologiche nell’ambito delle costruzioni e in tutti quei settori che saranno confrontati con mutati criteri di sostenibilità.

Un bilancio e un auspicio in qualità di Presidente della Cc-Ti?

Semplicemente un’esperienza straordinaria che mi ha permesso di conoscere il Ticino imprenditoriale nei suoi molteplici contesti e attività diversificate. Persone che lottano per costruire, non senza fatica, ogni giorno il futuro di questo Cantone. Proprio questa diversificazione e la presenza di assolute eccellenze sul nostro territorio costituiscono quella ricchezza del Cantone che dobbiamo assolutamente valorizzare e preservare da posizioni contrarie e di ostacolo per una crescita armoniosa delle nostre imprese. La mia lunga esperienza d’imprenditore, e uomo-artigiano, mi ha portato vicino ad ogni realtà comprendendone le dinamiche in modo, direi, “personale”. Mi considero ancora in una fase di apprendimento e perciò mantengo alta la curiosità e l’interesse nel voler conoscere di più le realtà e l’affascinate mondo economico ticinese. La speranza per il prossimo futuro è quella poter accantonare le preoccupazioni incessanti legate alla pandemia e finalmente concentrarci e occuparci di temi propositivi per favorire la crescita, l’imprenditorialità e contribuire a determinare condizioni quadro migliori per la nostra economia.

Energia… tra sapere e conoscere

La trasformazione digitale della nostra società è ormai una realtà consolidata e presenta una quantità di vantaggi innegabile per cittadine, cittadini e per l’economia. È un fenomeno inarrestabile e che va sostenuto perché i vantaggi sono tangibili. Sarebbe però sbagliato sorvolare completamente sugli effetti generali della trasformazione digitale, non per ultimi, quelli ambientali. Non per stigmatizzare tale trasformazione, ma semplicemente per rilevare alcuni lati poco conosciuti, ma che possono e devono essere fondamentali quando la politica è chiamata a prendere talune decisioni, evitando di partire da assunti errati.

Fonte: The Shift 2018, as of Andrae & Edler, 2015

Digitale = neutrale?

La smaterializzazione dei componenti potrebbe indurre a pensare che si possano, in questo modo, contenere le conseguenze ambientali. In sostanza lo streaming dei film e i servizi di consumo di musica online (Spotify, ITunes, Tidal per citarne solo alcuni) che hanno soppiantato DVD e CD potrebbero apparire come meno invasivi, avendo eliminato o ridotto i supporti fisici. Analogamente alle mail che spesso sostituiscono le lettere cartacee, il giornale letto su supporto elettronico o azioni banali come i messaggi su Whatsapp o il prelievo di denaro al bancomat, internet stesso, ecc.

Questa “sostituzione” è, in un certo senso, invisibile ma non innocua.  Intendiamoci. Non si tratta di stigmatizzare questa tendenza, né di giudicarla sulla base di slanci nostalgici, ma per poter affrontare discorsi seri, proprio anche sul tema ambientale, è necessario veicolare la propria consapevolezza sul fatto che non si tratta di attività ecologicamente “neutrali”, contrariamente a quanto taluni posso credere o affermare.

L’impatto ecologico della trasformazione digitale

Taluni forse esagerano sostenendo che la trasformazione digitale, come in atto oggi, non prevenga lo squilibrio climatico, ma anzi concorra in maniera importante a crearlo e che l’intensità energetica dell’industria digitale non è già più sostenibile.

Si tratta probabilmente di un’esasperazione, anche se va detto che il consumo di energia legato al digitale aumenta di circa il 9% all’anno (dato pre-pandemia) e che la quota di emissione di gas a effetto serra proveniente dall’ambito digitale ha conosciuto un aumento dal 2,5% al 4% del totale delle emissioni mondiali.

Dati che si pongono chiaramente sopra al tanto vituperato traffico aereo. Questo dovrebbe far riflettere prima di colpire disordinatamente i settori economici solo perché è sempre “accattivante” e semplicistico farlo.

La quota delle emissioni legata al digitale potrebbe aumentare nei prossimi anni tanto da raggiungere quella dei veicoli.

Se da una parte lo sviluppo tecnologico spesso aiuta anche a migliorare la sostenibilità dei prodotti, non sempre gli effetti sono quelli desiderati. Secondo una ricerca del Think Tank francese “The Shift Project” (il rapporto Lean ICT- Towards Digital Sobriety), ad esempio la produzione dell’IPhone 6 (ormai parliamo di preistoria) portò a generare 4 volte più gas a effetto serra rispetto alla produzione dell’IPhone 3GS, in ragione della capacità superiore di stoccaggio dei dati.

Anche un gesto apparentemente innocuo come l’invio di una mail ha conseguenze ambientali non trascurabili. Uno studio condotto recentemente in Francia dall’Agenzia dell’ambiente e di controllo dell’energia ha calcolato che ogni impiegato francese riceve in media 58 mail professionali al giorno e ne invia 33. Queste 33 mail, accompagnate da un allegato di 1 Megabyte a due destinatari, a esempio, genera emissioni equivalenti a 180 chilogrammi di CO2, quindi l’equivalente di 1’000 chilometri percorsi in auto (non elettrica, of course).

Secondo questo calcolo, le mail di un’impresa di 100 persone porterebbero quindi all’emissione annuale di 18 tonnellate di gas a effetto serra, quindi l’equivalente di 18 voli andata e ritorno Parigi-New York.

Forse qualcuno ricorderà anche che lo scorso anno Netflix abbassò in maniera considerevole la risoluzione del suo streaming in particolare durante il primo lockdown nella primavera del 2020. Perché? Semplicemente perché lo streaming di video già in condizioni “normali” portava alla produzione di 300 milioni di tonnellate di CO2, quanto prodotto da una nazione come la Spagna, cioè l’1% delle emissioni mondiali. In sostanza, 30 minuti di video in streaming “pesano” dai 28 ai 57 grammi di emissioni di CO2 e corrispondono a una percorrenza di un tragitto in automobile fra 1 e 8 chilometri. L’esplosione dello streaming illimitato quando le persone sono state rinchiuse in casa avrebbe portato, da una parte, all’intasamento delle linee, difficoltà di approvvigionamento energetico e ovviamente, last but not least, a una crescita esponenziale delle emissioni.

10 ore di film in alta definizione contengono tanti dati come oltre due milioni di articoli in inglese di Wikipedia. I video pornografici rappresentano circa il 30% del traffico di video mondiale e nel 2018 hanno generato più di 80 milioni di tonnellate di CO2.

Le emissioni di gas a effetto serra dei servizi di streaming video (Netflix, Amazon prime, ecc.) equivalgono alle emissioni di gas effetto serra del Cile. Un’ora di streaming alla settimana, in un anno, consuma circa come due frigoriferi nello stesso arco di tempo.

Va detto che alcuni studi relativizzano questo impatto, riconducendolo non tanto alla produzione e alla diffusione dei video, quanto all’utilizzo di terminali magari non utilizzati nella maniera più performante oppure con una tecnologia inadatta. Detto altrimenti, i dati cambiano se si guardano video su uno schermo a 65 pollici oppure sul telefono cellulare. In effetti, il consumo dei prodotti digitali, come tutte le attività umane, va valutato tenendo conto di tutti gli elementi della “catena”. Resta il fatto che le attività digitali hanno un impatto.

Per una telefonata di un minuto o l’invio di un sms si calcola che vi sia un’emissione di CO2 di 0.014 grammi, mentre un Tweet “pesa” 0,2 grammi. Più pesanti sono gli invii di messaggi via chat, che possono variare da 3 a 50 grammi, così come una mail che, a dipendenza della dimensione degli allegati, può portare a emissioni di CO2 dai 4 ai 50 grammi. Per un utente di Facebook si calcola che in media vi sia un’emissione di 299 grammi sull’arco di un anno. Sembra poco rispetto ai circa 95-120 grammi di CO2 al chilometro prodotti in media da un’automobile, ma sommando tutti i consumi di queste attività digitali, i valori sono rilevanti.

In un contesto del genere, è abbastanza facilmente comprensibile che il telelavoro, ad esempio, toglie molti spostamenti ma al contempo apre nuovi fronti su cui riflettere e non può essere certo considerato come soluzione ideale sotto tutti gli aspetti. Basti pensare che una videoconferenza di un’ora può generare fra i 150 e i 1000 grammi di CO2.

Come si spiega il fenomeno?

Di per sé la spiegazione è abbastanza banale. Per scambiare queste enormi quantità di dati, che siano video, musica, messaggi, ecc., attraverso computer, telefonini e altro, utilizzando il cavo, la fibra ottica, le antenne di telefonia mobile è necessaria una grande quantità di elettricità, che per essere prodotta richiede un forte consumo di risorse che porta a una considerevole emissione di CO2.

Oltre al consumo va tenuto conto che lo stoccaggio dei dati è molto complesso e inevitabilmente energivoro, anche e soprattutto per le necessità di raffreddamento delle strutture. I circa 4’000 centri di appoggio presenti nel mondo necessitano di circa 30 miliardi di Watt per funzionare, ciò che rappresenta circa il 4% del consumo energetico mondiale e relative emissioni di CO2.

In generale, le cifre riguardanti l’impatto ambientale del digitale sono spesso basate su stime ed è abbastanza difficile avere dati molto precisi. Ma tutti gli studi sembrano convergere sostanzialmente nella stessa direzione, grammo di CO2 in più o in meno.

Come rimediare?

Come detto in precedenza, non si tratta di stigmatizzare la trasformazione digitale, anzi. È ormai un elemento essenziale e imprescindibile della nostra vita quotidiana e professionale. È piuttosto importante sviluppare una consapevolezza per prendere le decisioni giuste anche in ambito energetico o ambientale, senza false credenze. Prima di rinunciare a fonti di approvvigionamento apparentemente poco ecologiche è giusto sapere di cosa si parla e quali siano le reali necessità energetiche del sistema odierno. In questo senso, il ricorso a energie rinnovabili sembra insufficiente per coprire un bisogno sempre maggiore di energia in tempi molto brevi. La produzione di energia non è uno scherzo e, purtroppo, difficilmente qualche pala eolica basterà per ricaricare miliardi di telefoni cellulari (a oggi circa 6 miliardi).

L’evoluzione tecnologica in questo senso potrà aiutare, anche se abbiamo visto che talvolta non è priva di altri problemi. Soluzioni innovative come il raffreddamento dei centri di raccolta dei dati con l’acqua di un lago, come già conosciamo in Ticino, aiutano certamente. Ma è ovvio che si tratta di un problema complesso che coinvolge in primis i comportamenti individuali, il sistema economico, quello politico, ecc. e che richiede un sano pragmatismo. Come al solito non si risolve nulla forzando le situazioni con presunte soluzioni facili, divieti o tasse supplementari.

Una certa “dieta digitale” può dare una mano, con piccoli accorgimenti. Ad esempio, la rinuncia alla massima risoluzione dei video guardando una partita di calcio potrebbe portare a non distinguere esattamente tutti i fili dell’erba, ma rimarrebbe sufficiente per godersi lo spettacolo. È solo un piccolo esempio banale di un problema tutt’altro che banale. La consapevolezza di tutti eviterebbe inutili e dannose crociate soprattutto, come sempre, contro i settori dell’economia.

L’associazione-mantello dell’economia ticinese incontra il Consigliere di Stato Christian Vitta

Comunicato stampa Cc-Ti

Negli scorsi giorni l’Ufficio presidenziale della Cc-Ti, che raggruppa le maggiori associazioni di categoria, ha avuto l’onore di ospitare il Consigliere di Stato e Direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta. L’incontro si è svolto nel quadro di regolari appuntamenti di aggiornamento, essenziali per il monitoraggio coordinato dell’andamento economico e il confronto sulle misure disposte dalle autorità cantonali, in particolare durante il periodo pandemico.

L’Ufficio presidenziale ha preso atto con soddisfazione dei più recenti dati economici del Cantone presentati dal Consigliere di Stato. Il segno positivo di tali dati testimonia dell’efficacia delle misure introdotte dalle autorità federali, cantonali e comunali e della forte capacità di adattamento dell’economia cantonale. Ancora una volta, la diversificazione del tessuto economico ticinese si è rivelata un elemento decisivo per garantire la solidità del sistema.

L’associazione-mantello dell’economia ticinese ha ribadito al Consigliere di Stato la volontà di continuare sulla via di una collaborazione costruttiva, come dimostrato anche nei momenti più difficili della pandemia. È stata ribadita la necessità di mettere in atto in maniera completa la riforma fiscale delle imprese già approvata dal Parlamento e dal popolo e di continuare a puntare sul sostegno all’innovazione in tutti i settori dell’economia cantonale, utilizzando al meglio gli strumenti già a disposizione. L’innovazione, immanente all’attività degli imprenditori, rappresenta un elemento centrale per mantenere la competitività delle aziende e quindi garantire i posti di lavoro, per cui la collaborazione fra Stato ed economia, ognuno nel suo ruolo, è di importanza fondamentale.

L’Iniziativa socialista del “99%” sarà un boomerang per l’economia e il ceto medio

L’opinione del Presidente Cc-Ti Andrea Gehri.

Populisticamente nobile nelle intenzioni: “Sgravare i salari, tassare equamente il capitale”, devastante, però, nei suoi effetti.

L’“Iniziativa 99%” di Gioventù socialista, su cui si voterà il 26 settembre, si configura come un esproprio proletario su scala nazionale. Che non toccherebbe soltanto quell’1% dei cosiddetti “super ricchi” (di cui peraltro il Paese non può fare a meno, poiché pagando da soli quasi un quarto del totale delle imposte sul reddito, assicurano alla Confederazione ingenti entrate fiscale), ripercuotendosi, invece, con gravi danni su tutta l’economia e la società.

Tassare al 150%, anziché al normale 100%, i redditi da capitale al di sopra una certa soglia – genericamente indicata dagli iniziativisti a 100mila franchi – aggiungendo in pratica un reddito fittizio a quello reale, significa sovvertire i principi costituzionali del sistema fiscale.
Con una sovratassazione che colpisce direttamente le piccole e medie imprese, in particolare le aziende familiari, le start-up, i proprietari di case, gli agricoltori e persino i piccoli investitori.

Se per le PMI la sovraimposizione del 150% si tradurrebbe in un indebolimento del loro capitale e, quindi, della loro capacità d’investimento e d’innovazione, per le aziende familiari ci sarebbe un costo aggiuntivo molto oneroso che, oltre a privarle d’importanti risorse, renderebbe ancora più difficile e costosa la successione aziendale. Dovendo pagare le imposte anche su un aumento di valore fittizio, la successione costerà infatti di più e chi vorrà subentrare nella proprietà sarà probabilmente costretto ad indebitarsi.

Nel nostro Paese l’80% delle imprese è a conduzione famigliare e ogni anno si registrano 3’400 successioni aziendali, invece di facilitare questo delicato passaggio, l’iniziativa lo rende più complicato e caro. Analoghe le difficoltà per la successione delle aziende agricole ai giovani contadini. Che si voglia vendere un’impresa o una fattoria, con la nuova tassazione il prezzo aumenterà notevolmente, scoraggiandone così l’acquisto o gravandolo di debiti che potrebbero poi portare al fallimento.

Più problematico anche il futuro della start-up. Generalmente i loro fondatori per mancanza di liquidità si accontentano all’inizio di stipendi modesti e, nella maggior parte dei casi, vedono ricompensato questo sacrificio nel momento in cui vendono le loro azioni o i diritti di partecipazione ad un’impresa più grande. Vendita che però verrebbe pesantemente tassata qualora venisse approvata l’iniziativa socialista. Il che vuol dire disincentivare la creazione di start-up e castrare nuovi impulsi all’innovazione. Anche gli investitori privati, fondamentali per l’avvio di una start-up, sarebbero sottoposti ad un maggiore carico fiscale che potrebbe dissuaderli dall’investimento.

Neppure chi vende una casa sarebbe risparmiato dall’iniziativa “99%” che di fatto introduce una imposta federale sugli utili immobiliari che va ad aggiungersi a quella cantonale.

Stessa sorte per i piccoli risparmiatori, ossia gran parte della popolazione, che investono in Borsa. Qualora ricavassero degli utili sul capitale, oggi esentasse, domani potrebbero essere tassati, mentre se, a causa della riconosciuta volatilità della borsa l’anno successivo dovessero contrarre perdite sul medesimo capitale, si ritroverebbero con una doppia beffa. Tassati e perdenti!

Ci sono, dunque, mille ragioni per bocciare un’iniziativa che penalizza l’economia, i piccoli imprenditori e il ceto medio. Un “unicum svizzero” che terrebbe lontani dal nostro Paese imprese estere e facoltosi contribuenti stranieri. Col rischio di vedere anche andare via molti quelli che avevano già scelto di vivere e lavorare in Svizzera.

Il prezzo da pagare

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in più occasioni durante questi ultimi mesi, l’aumento dei prezzi e la scarsità di talune materie prime è fonte di preoccupazione importante per l’economia.

In questo contesto l’importante aumento dei costi di trasporto costituisce un ulteriore fattore aggravante che tocca tutti i settori, dall’automobile all’agroalimentare, dall’elettronica al tessile. Basti pensare che i circa 5’000 pezzi che compongono un’automobile arrivano da molti Paesi diversi sparsi in tutto il mondo. Acciaio, plastica, componenti elettronici, elementi meccanici, ecc. devono essere trasportati per via marittima, fino a qualche tempo fa la meno costosa, aerea oppure con la ferrovia e i camion laddove possibile.

Soffermandosi sulla via marittima, essenziale per i trasporti delle merci, si può osservare che, oltre ai tempi di fornitura molto dilatati, i prezzi per i container sono quasi quintuplicati nello spazio di un anno. Ad esempio, un container per la tratta Shanghai – Le Havre può costare anche 17’000 dollari contro i 2’000 dollari necessari prima della crisi pandemica. Inoltre, essendo i porti sovraccarichi, non capita di rado che un trasporto invece di attraccare al porto previsto, come Le Havre nell’esempio appena citato, faccia rotta su un altro porto come può essere Anversa, aumentando evidentemente i costi e allungando i tempi di fornitura.
A Los Angeles i tempi di attesa per scaricare le merci dalle navi vanno dalle due alle tre settimane. Fra le cause principali di questo aumento dei prezzi, a parte la mancanza di alternative di trasporto per talune merci, figurano i consumi durante i periodi di lockdown.

L’aumento esponenziale degli ordini di prodotti online (in larga parte provenienti dall’Asia) ha creato un sovraccarico del trasporto marittimo e una conseguente scarsità di container a disposizione. A fronte del calo massiccio del trasporto di passeggeri, quello delle merci è addirittura aumentato, con incrementi del 27% nel primo semestre 2021, rispetto allo stesso periodo nel 2019 (+37% rispetto al primo semestre del 2020). Nemmeno i 600’000 container supplementari ordinati durante la pandemia e i 180’000 che dovrebbero essere disponibili nei prossimi mesi sono stati sufficienti per arginare la situazione. Con un inevitabile rialzo dei prezzi. Se questo ha ridato il sorriso agli armatori, dapprima paralizzati nella prima fase della pandemia e ora confrontati a un importante aumento degli utili, il resto dell’economia è colpito in maniera pesante in molti settori e in tutti i Paesi. Il problema è che una fine a breve termine non è prevista, dato che si parla di una normalizzazione verso la primavera del 2022, cioè dopo il Capodanno cinese. Si avvicinano momenti di ordinazioni importanti legati ad esempio al Black Friday, al Thanksgiving e a Natale. Il trasporto delle merci via aerea costituisce un’alternativa assai limitata.

Si tratta di elementi spesso ignorati, ma che hanno un ruolo fondamentale per il funzionamento del sistema economico, in una realtà economica interconnessa come quella odierna. Fa capolino evidentemente il discorso della forte dipendenza, non solo della Svizzera, da altri Paesi ma qualche margine di miglioramento può esserci.

Il reshoring di talune attività produttive, cioè il “rimpatrio” di certe aziende per una produzione più “indigena” è senza dubbio un elemento che può essere rafforzato dall’evoluzione tecnologica e alcuni esempi edificanti non mancano. Ma si tratta di un fenomeno ancora abbastanza marginale e comunque la dipendenza dalle materie prime resterà comunque. Ed è normale che talune fasi produttive restino laddove vi sono materie prime per la produzione di molte componenti, altrimenti la sostenibilità economica non sarebbe possibile.

Discorso complesso, che richiede molta attenzione e molto equilibrio di giudizio, perché il sistema non può essere modificato a colpi di decreto e non vi sono soluzioni facili. La pandemia ha portato all’attenzione del grande pubblico l’interdipendenza internazionale, suscitando anche timori, sospetti e risentimenti. Emozioni comprensibili ma anche poco utili nell’insieme. Ma qui il discorso si fa complesso e meriterebbe approfondimenti ben più ampi. L’urgenza è ora quella di cercare alternative, come l’economia svizzera e ticinese hanno sempre dimostrato di saper fare, gestendo questi aumenti di prezzi senza che vi siano conseguenze troppo pesanti sul mercato interno e in termini di competitività internazionale. La “fortuna” è che, per una volta e per restare in ambito navale, quasi tutti i Paesi sono sulla “stessa barca”, per cui almeno su questo fronte, ce la possiamo giocare quasi alla pari con tutti gli altri, visto che le difficoltà elencate toccano tanti se non tutti.

Le libertà

Cosa c’entra la questione energetica con le libertà personali? In questi interminabili mesi di pandemia la discussione sulle libertà personali, dalle chiusure imposte, ai vaccini obbligatori, passando per i test ha messo a nudo la fragilità degli equilibri fra la legittima difesa dell’interesse pubblico, di tipo soprattutto sanitario e l’altrettanto legittima difesa dei diritti dell’individuo. Le riflessioni del Direttore Cc-Ti, Luca Albertoni.

Un equilibrio delicato, purtroppo preso a bastonate dai soliti facili slogan che promettono soluzioni immediate e semplici, sempre ovviamente di carattere sanzionatorio.

Al di fuori del contesto del Coronavirus, ne abbiamo avuto un esempio con la recente votazione federale sulla revisione della legge sul CO2, rifiutata dalla popolazione. Al di là della bontà dell’idea di base, la sensazione di eccessive limitazioni, anche dettate da sanzioni finanziarie, è stata verosimilmente ritenuta eccessiva. Sorprendenti alcune dichiarazioni post-votazioni degli sconfitti, secondo i quali sarebbero addirittura necessari più divieti. Visione miope, sullo stile dell’affrettata decisione elvetica di abbandono del nucleare, ora rimessa clamorosamente in discussione perché d’incanto ci si è accorti che c’è un importante problema di sicurezza dell’approvvigionamento, come andiamo dicendo da anni. Il tutto peggiorato dall’abbandono dell’accordo-quadro con l’Unione Europea e quindi della possibilità di negoziare su un tema così delicato. E senza sufficiente energia, addio a tante libertà a cui siamo abituati, come ad esempio usare e ricaricare quando ci pare e piace l’ormai imprescindibile telefonino.

È per questo che, proprio a tutela delle libertà di tutti, è necessario un confronto schietto e oggettivo su tutti i temi, quello energetico in primis. Il nucleare non deve essere un tabù, ma va visto in un contesto in cui indubbiamente l’evoluzione tecnologica ha un ruolo fondamentale e le energie rinnovabili devono avere un ruolo più importante. Ma una società completamente elettrica come quella che si prospetta ad esempio nel contesto della mobilità richiede ben altro che le buone intenzioni, bensì una buona dose di realismo e pragmatismo. Il sistema oggi non reggerebbe un modello di questo tipo e difficilmente sarà in grado di farlo a breve scadenza se le discussioni saranno contraddistinte solo da estremismi. Sarebbe ironico se per alimentare le nostre auto elettriche dovessimo dipendere dall’energia derivata dal carbone e all’energia nucleare dei paesi vicini. Alla faccia della coerenza e delle libertà. L’economia è in prima fila sul cammino della riduzione delle emissioni di CO2. Ostacolare questo percorso non risolverebbe alcun problema.

Sempre sulle libertà intervengono anche due oggetti in votazione popolare il prossimo 26 settembre 2021. A livello federale l’iniziativa 99% lanciata dai Giovani socialisti e in ambito cantonale l’iniziativa popolare denominata “NO alle pigioni abusive, SÌ alla trasparenza: per l’introduzione del formulario ufficiale ad inizio locazione”.

Dietro le tradizionali buone intenzioni, reali o apparenti, si nascondono come capita spesso diverse insidie che inficiano il sistema elvetico e limitano pesantemente le libertà, compresa quella imprenditoriale. L’iniziativa del 99% si prefigge in sostanza di togliere ai ricchi per dare ai poveri, ricetta molto semplice ormai diventata un mantra della sinistra, senza pensare alle implicazioni sul sistema. In sostanza, si tratterebbe di tassare in modo più pesante i redditi da capitale dei contribuenti più agiati. Redditi del patrimonio mobiliare (interessi e dividendi) o immobiliare (canoni di locazione) e redditi sul capitale, oggi esenti. A parte la soglia di imposizione che dovrà ancora essere definita dal Parlamento. Questi redditi sarebbero tassati al 150%. Una sorta di esproprio popolare sul frutto di capitali non certo derivanti da furti. Inoltre, vi sarebbero aggiunte di redditi fittizi, il che sarebbe completamente arbitrario, benché purtroppo non completamente sconosciuta in ambito fiscale. Con tutta la simpatia per Robin Hood, è evidente che si tratta di una proposta inaccettabile.

La Svizzera già oggi, grazie anche e soprattutto ai redditi alti, si distingue a livello mondiale per la bontà del suo sistema redistributivo e per la sua equità fiscale. Le persone abbienti pagano già una parte proporzionalmente molto più elevata di imposte sul reddito e sul patrimonio. Sanzionarli in modo sproporzionato li porterebbe facilmente verso altri lidi, privandoci di un substrato fiscale importante, difficilmente compensabile. Perdita di cui subirebbero le conseguenze anche i ceti meno abbienti, beneficiari della ridistribuzione. Senza dimenticare che l’iniziativa colpirebbe anche le PMI e le società di famiglia, la cui sostanza si ridurrebbe, con conseguenze inevitabili su capacità di investimento e occupazione.

E, dulcis in fundo, ecco una bella sanzione anche per le start-up, perché i redditi derivanti dalla vendita di partecipazioni di queste giovani strutture sarebbero pure tassati al 150%. Rigettare questa iniziativa è quindi indispensabile per garantire il funzionamento del nostro sistema elvetico, che si è dimostrato efficace ed equo anche in questi mesi di gravi difficoltà legate alla pandemia.

Infine, anche nel contesto cantonale le presunte buone intenzioni mascherano insidie non da poco, nello specifico nel settore immobiliare. L’iniziativa per introdurre un formulario all’inizio della locazione, in nome della trasparenza, mira a rendere obbligatorio alla stipulazione di qualsiasi contratto di locazione un formulario che riporti la pigione pagata dal precedente inquilino, quella concordata con il nuovo inquilino e il motivo di un’eventuale differenza. Bello, molto bello. Peccato che il diritto federale conceda una misura del genere solo in caso di penuria di abitazioni, il che non è il caso in Ticino. Inoltre, già oggi l’inquilino può chiedere informazioni sulla pigione precedente e se del caso contestare quella che paga, ricordando comunque che è libero di stipulare un contratto di locazione o meno, se ritiene non congruo il canone richiesto.

Senza dimenticare che il formulario è già a disposizione per notificare aumenti di pigione o modifiche unilaterali del contratto. Burocrazia fine a sé stessa che inoltre crea la presunzione che un canone più alto sia automaticamente abusivo rispetto a quello precedente. Altri cantoni hanno tentato l’esperimento, abbandonandolo senza rimpianti perché inefficace. Senza dimenticare che la proposta è già stata respinta a numerose riprese sia a livello federale che cantonale. Sarebbe quindi un’inutile limitazione della libertà contrattuale, senza vantaggi per nessuno e l’iniziativa va chiaramente respinta.