vorrei idealmente distanziarmi dal rievocare il particolare momento storico ed evitare di sottolineare ulteriormente i condizionamenti che, oramai da due anni ci tengono ostaggio, proponendo una visione del futuro prossimo con orientamenti positivi, pragmatici e oggettivi.
Come d’abitudine per ogni imprenditore ma non solo, all’inizio del nuovo anno è legittimo poter cullare sogni, porsi obiettivi e affrontarli con rinnovato ottimismo e ambizioni. Ma cosa ci vorrebbe per poter trasformare la, ahimè, negatività dilagante collettiva in energia costruttiva?
In verità non molto: ci vogliono entusiasmo, curiosità, un approccio fiducioso al futuro e condizioni economiche quadro ideali, stabili e innovative, poi l’imprenditore sa fare da sé.
L’entusiasmo rappresenta il motore per ogni individuo, ma in particolare costituisce la caratteristica che identifica idealmente l’imprenditore fortemente radicato nel suo lavoro. Senza entusiasmo, difficilmente si raggiungono obiettivi e si motivano le proprie maestranze a condividerne i traguardi e i successi.
La curiosità rappresenta quell’innato, straordinario ed essenziale tratto caratteriale che alimenta l’individuo in generale, e l’imprenditore in particolare, verso l’approfondimento puntuale che a sua volta si traduce in volontà di apprendimento, voglia di evoluzione e stimolo alla ricerca dell’eccellenza.
Entusiasmo e curiosità richiedono tuttavia da parte di tutti noi anche la convinzione per un approccio fiducioso al futuro. L’imprenditore è abituato ad affrontare fasi alterne nel suo percorso imprenditoriale, fatto di successi, di insuccessi, gioie e delusioni ma rimane sempre e comunque orientato verso una visione positiva del futuro. Futuro che, e ne sono un convinto sostenitore, potendo contare sul sistema “Svizzera” e sulle sue eccellenti basi e strutture ci pone, senza ombra di dubbio, in una posizione concorrenziale favorevole e privilegiata rispetto a tanti altri paesi.
Dobbiamo tuttavia evitare di cullarci nella convinzione di essere dei privilegiati, solo perché favoriti dalla nostra invidiabile posizione nel contesto internazionale, ma dobbiamo assolutamente rimanere accorti e focalizzati sui temi, sullo sviluppo, sull’evoluzione, sul progresso. Sarebbe sbagliato e pericoloso vivere di rendita.
Le condizioni quadro del nostro Paese per promuovere l’economia e gli imprenditori sono buone, ma si può e si deve far meglio. Tutti noi facciamo parte di un sistema che deve perseguire l’obiettivo di migliorarle ulteriormente. Evitiamo con determinazione di farci trascinare in un contesto dove allo Stato si chiedono sempre più sostegno e interventi sussidiari, ignorando con disinvoltura di chiedersi responsabilmente da dove arrivano i mezzi e chi li produce per finanziare e sostenere il dilagante assistenzialismo?
La ricchezza di uno Stato e di una regione come il Canton Ticino è costituita dalla multidisciplinarità e dalla varietà del substrato economico presente e, nonostante le criticità dovute ad un posizionamento geografico che, storicamente non sempre può rivelarsi favorevole, dimostra una dinamicità esemplare.
Crediamo nella nostra regione, crediamo nel Canton Ticino e sosteniamo i temi per condizioni quadro migliori:
dallo Stato e le istituzioni ci attendiamo un approccio costruttivo all’accoglienza e all’ospitalità, offrendo sostegno ai cittadini e alle imprese attraverso un atteggiamento attento, premuroso e conciliativo.
No ad aumenti di imposte, tasse e aggravi di ogni genere e applicazione senza indugi della riforma fiscale varata.
Serve una trasformazione digitale effettiva e non solo a parole da promuovere senza indugio nell’amministrazione pubblica e nel contesto economico.
Investiamo urgentemente in infrastrutture, in particolare nella mobilità, nell’istruzione, nella formazione continua e nella tecnologia.
Incentiviamo e sosteniamo la transizione verso una politica energetica sostenibile premiando gli investimenti e le iniziative virtuose.
Manteniamo quindi entusiasmo nel nostro operato, sviluppiamo la curiosità e traduciamo questi propositi in nuove opportunità, consolidando così la nostra eccellente realtà economica.
Il Ticino, oltre a terra d’artisti, è anche terra d’imprenditori seri ed affermati che amano il proprio territorio e credono nel futuro delle proprie aziende.
Buon anno a tutti.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2021/10/ART21-gehri-2021.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2022-01-11 10:36:482022-01-11 10:36:49Entusiasmo, curiosità e fiducia nel 2022
La nuova sezione “Commercio Internazionale” è operativa dal 1° dicembre 2021
Monica Zurfluh, Martina Grisoni e Giulia Scalzi
Quale associazione mantello dell’economia ticinese, la Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del cantone Ticino (Cc-Ti) tutela gli interessi di tutti i settori economici, evidentemente anche di quelli attivi in parte o totalmente nel commercio internazionale. Attualmente l’attività camerale, non solo in Ticino ma in tutta la Svizzera, è essenzialmente concentrata sull’export, con il servizio delle legalizzazioni (rilascio di certificati d’origine, di carnet ATA e CITES e vidimazione di documentazione a fini export) e un’offerta formativa finalizzata al mondo delle esportazioni. Le aziende necessitano però di un forte sostegno anche per le questioni legate alle importazioni, per cui la Cc-Ti dal 1° dicembre ha ampliato la sua attuale gamma di servizi proponendo alle aziende e associazioni affiliate un servizio di informazione e consulenza a 360° nell’ambito internazionale, che comprende quindi sia le tematiche export sia quelle import. Si tratta di una prima in Svizzera e la Cc-Ti funge da progetto-pilota per tutte le altre Camere degli altri cantoni.
La nuova sezione “Commercio Internazionale” è operativa dal 1° dicembre 2021 ed è diretta da Monica Zurfluh, la quale vanta una lunga esperienza nell’ambito dell’internazionalizzazione, grazie alla sua attività presso Switzerland Global Enterprise, avendo in particolare guidato la sede di Lugano dell’organizzazione negli ultimi 12 anni.
La sezione “Commercio Internazionale” comprende anche il collaudato servizio delle legalizzazioni con la relativa responsabile Martina Grisoni e la sua sostituta Giulia Scalzi, che da anni accompagnano le aziende negli aspetti relativi alle certificazioni.
Il nuovo servizio dedicato al Commercio internazionale sarà in particolare chiamato a
fornire informazioni e consulenza alle aziende e alle associazioni di categoria affiliate su tutti i temi inerenti il commercio internazionale, dalle questioni amministrative alle formalità di import ed export, dalle regole svizzere e estere sui prodotti (incl. certificazioni, standard, etichettatura ) alle autorizzazioni necessarie per le attività transfrontaliere (controlli all’esportazione, distacco di lavoratori);
organizzare eventi sui temi più attuali del commercio internazionale, manifestazioni di messa in rete in Svizzera e missioni economiche all’estero, così come ricevere delegazioni estere in Ticino;
relazionarsi con le istituzioni e le altre associazioni cantonali e nazionali allo scopo di identificare e attivare nuove forme di collaborazione.
Questa nuova organizzazione interna permetterà di utilizzare al meglio le sinergie con gli altri servizi camerali, in particolare il già menzionato Servizio legalizzazioni, l’ambito della formazione puntuale e quello delle Scuole che portano all’ottenimento di diplomi (Scuola manageriale e Scuola dell’export) e il Servizio giuridico. Rimane invariata la collaborazione con Switzerland Global Enterprise, che rimarrà partner privilegiato nel contesto internazionale e i cui servizi continueranno ad essere complementari e sussidiari alle attività della Cc-Ti. Laddove possibile, le azioni comuni verranno rafforzate.
Contatto: Servizio Commercio internazionale – Monica Zurfluh, Responsabile, T +41 91 911 51 35
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2021/12/ART21-Comm-internaz.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-12-01 10:11:452021-12-06 14:17:27Nuovo servizio dedicato al commercio internazionale
Fra difficoltà, buona tenuta e prospettive incoraggianti
La Cc-Ti, secondo una prassi ormai consolidata da oltre un decennio, ha condotto un’inchiesta congiunturale presso i suoi associati nel periodo fra agosto e ottobre 2021, unitamente alle Camere di commercio e dell’industria di Friborgo, Ginevra, Giura, Neuchâtel, Vaud e Vallese.
Hanno partecipato all’inchiesta 280 imprese associate alla Cc-Ti, che impiegano in tutto 17’049 dipendenti nel cantone. Un campione di aziende di tutti i settori economici, di tutte le dimensioni e di tutti i distretti cantonali, consolidato negli anni, rappresentativo e che fornisce risultati concreti e attendibili, sempre confermati anche da altre ricerche congiunturali condotte da istituti federali e cantonali. L’inchiesta mira a fornire indicazioni attendibili sulle tendenze generali dell’economia ticinese, senza volersi sostituire ad analisi più mirate effettuate dai singoli settori economici, ma restando un punto fermo.
Delle 280 aziende che hanno partecipato al rilevamento, 80 sono del settore industria e artigianato e 200 del comparto commercio e servizi.
158 di queste realtà aziendali operano sul mercato interno e altre 122 sono invece attive anche o, quasi esclusivamente, nell’export, ne emerge che il 2021, al netto delle innegabili difficoltà di talune aziende e settori, è stato cautamente positivo per l’economia ticinese nella sua globalità. Le previsioni per il 2022 sono pure di segno positivo, malgrado le problematiche legate alla reperibilità e ai costi delle materie prime e di molti altri prodotti. I risultati sono in linea con quelli ottenuti dalle altre Camere di commercio e dell’industria nei rispettivi cantoni, in particolare i cantoni della Svizzera romanda, che hanno utilizzato lo stesso strumento. Anche nei cantoni della Svizzera tedesca, che si sono mossi con altri tipi di rilevamento, le tendenze sono sostanzialmente le stesse di quelle ticinesi, ennesima conferma dell’allineamento della nostra economia sull’andamento della media nazionale.
Andamento generale degli affari nel 2021
In maniera inaspettata per certi versi, il risultato è di segno positivo per il 78% delle imprese. Le piccole aziende con meno di 30 collaboratori hanno evidenziato valori leggermente inferiori se confrontate con quelle medie e grandi. Per chi è attivo prevalentemente nell’export (quota fra l’80 e il 100% delle attività aziendali presentatasi), si registrano cifre invece inferiori alla media. Ciò non stupisce, tenuto conto delle molte difficoltà legate all’instabilità internazionale, con regole che cambiano continuamente e spesso poco chiare. Anche il rincaro e la scarsa reperibilità di materie prime e prodotti hanno lasciato il segno. Tuttavia, l’andamento generale anche di chi esporta resta sostanzialmente buono e su questa evoluzione ha certamente inciso, come a livello nazionale, il settore farmaceutico.
Previsioni per i prossimi sei mesi e per il secondo semestre del 2022
Analogamente a quanto rilevato negli altri cantoni, anche in Ticino le aziende si attendono un andamento in linea con quello del 2021 e quindi tutto sommato di segno positivo. Non vi sono sostanziali differenze previste fra le aziende prevalentemente attive sul mercato interno e quelle orientate all’esportazione.
Per il secondo semestre del 2022, le previsioni sono in linea con quelle del primo semestre. Il tutto ovviamente partendo dall’auspicio che non vi siano più lockdown rigidi o misure molto restrittive sul nostro territorio e non solo in Svizzera.
Autofinanziamento delle imprese e investimenti
Questi due parametri sono sempre oggetto di attenta valutazione, quali indicatori essenziali per giudicare il reale andamento. Malgrado le difficoltà e, in qualche occasione, la necessità di ricorrere a crediti Covid (spesso poi non utilizzati), il dato sull’autofinanziamento è rimasto costante, con un margine giudicato soddisfacente o buono dal 72% delle aziende. Addirittura, l’8% lo considera eccellente.
Anche sul fronte degli investimenti, malgrado vi sia stato un leggero calo, il 43% delle imprese ne ha comunque effettuati nel 2021. Ciò è importante non solo per il territorio, ma anche come indicatore dello stato competitivo delle imprese e il fatto che gli investimenti non siano calati massicciamente malgrado gli ostacoli, è un segnale molto importante.
Da rilevare come gli investimenti siano rimasti stabili per le aziende del comparto industria/artigianato (61%), mentre in calo soprattutto per servizi e commercio. Ciò è evidentemente dovuto al freno di talune attività a causa della pandemia. Come in passato, sono soprattutto le aziende medie e grandi a essere più attive sul fronte degli investimenti. Nonostante i valori tutto sommato positivi, non va però trascurato come l’erosione dei margini di utile, elemento che sottolineiamo da anni, costituisca un rischio per la capacità di investimento futuro. Comunque, le previsioni di investimenti per il 2022 sono in linea con quanto rilevato negli scorsi anni, all’insegna di una certa stabilità.
Occupazione stabile ma difficoltà di reclutamento
L’occupazione è rimasta fortunatamente stabile. Le misure messe in atto durante la pandemia, come il lavoro ridotto, hanno certamente permesso di limitare gli effetti negativi. Interessante è sottolineare il fatto che a causa della crisi non vi è stata la rinuncia all’assunzione di apprendisti da parte delle aziende formatrici. Solo il 3% delle imprese ha infatti assunto meno apprendisti, mentre le altre non hanno modificato la propria attitudine. Anche per il 2022 si prevede una sostanziale stabilità per l’effettivo di personale.
Si conferma, per contro, la difficoltà di reperire personale qualificato, soprattutto per industria e artigianato. Emerge chiara la necessità di incentivare l’orientamento professionale e la formazione e di incrementare la formazione continua. A dimostrazione di un’attenzione particolare verso il tema delle competenze da costruire «in casa». Utili sono considerate anche altre misure per favorire l’assunzione di manodopera indigena, come ad esempio la creazione di asili nido, gli incentivi fiscali e il lavoro flessibile.
Difficoltà di approvvigionamento
Tema di cui si parla giustamente molto negli ultimi mesi e che rischia di rimanere d’attualità per parecchio tempo ancora. La problematica per il momento, pur essendo trasversale, tocca prevalentemente il settore dell’industria e dell’artigianato.
Fra le conseguenze di queste difficoltà, le aziende segnalano le seguenti problematiche:
ritardi di consegne (77%)
aumento dei prezzi di acquisto (75%)
margini ridotti come detto in precedenza (43%)
aumento dei costi di trasporto (39%)
un rallentamento delle attività (32%)
la sospensione o il rinvio dei progetti (14%).
Le misure adottate per cercare di rimediare sono molteplici, a dimostrazione della grande flessibilità delle nostre aziende, già evidenziata nel recente passato in occasione degli sconquassi legati alla forza del franco, rispettivamente alla debolezza dell’euro.
Fra le cause delle carenze sono state menzionate:
la sospensione degli impianti produttivi a causa della pandemia (72%)
la scarsità di materiali (47%)
la forte domanda dopo i vari lockdown (34%)
le ridotte capacità di trasporto marittimo e aereo (33%)
i cambiamenti nelle catene di approvvigionamento (21%).
Fra le varie misure di recupero sono state menzionate:
la diversificazione dei fornitori (51%), come già messo in atto appunto con le crisi valutarie
la modifica dei prezzi di vendita (45%)
laddove possibile, l’aumento delle scorte (38%)
rinegoziazione dei contratti (31%)
utilizzo di materiali sostitutivi (27%) comunque di non facile reperibilità (es. i semiconduttori)
solo una parte ridotta (12%) ha dovuto diminuire la produzione e/o fare capo al lavoro ridotto per il personale (9%).
Un ritorno alla normalità è previsto nel 2° trimestre del 2022 dal 41% delle aziende. Significativo dell’incertezza della situazione generale è il dato delle aziende che hanno risposto di non essere in grado di dare indicazioni su un ritorno alla normalità, ben il 33%.
Aziende più automatizzate e robotizzate per ottimizzare linee produttive, costi e competitività, più prossimità con clienti finali, catene di approvvigionamento più corte ma più sicure e controllabili. Sono gli elementi distintivi del reshoring, ovvero la rilocalizzazione in patria di produzioni, o parte di esse, che erano state trasferite all’estero. Un fenomeno di cui si è cominciato a parlare nel 2008, a ridosso della grande crisi finanziaria, ma che oggi potrebbe assumere maggiore consistenza alla luce della tempesta perfetta che si è abbattuta sull’economia mondiale con il coronavirus.
Nuovi equilibri
Due anni di pandemia hanno messo a dura prova le global value chains, già sfibrate dai dazi e dalle barriere protezionistiche di una guerra commerciale a scena aperta che aveva bruscamente frenato gli scambi internazionali. La diffusione del virus, inceppando l’economia di tutti i Paesi avanzati, ha evidenziato l’importanza e le criticità delle supply chain mondiali. Le lunghe catene di approvvigionamento sono state messe sotto stress da una ripresa asimmetrica, tra Asia e Occidente, che ha ingolfato l’intero sistema di produzione e distribuzione delle merci, facendo impennare i costi dei trasporti.
A inasprire il quadro delle nuove tensioni geopolitiche, nel quale la Cina va dismettendo il ruolo di fabbrica mondiale a basso costo per proiettarsi in quello di super potenza a tutti gli effetti, sono arrivati la crisi delle materie prime e lo shock energetico. I prezzi di petrolio, gas e carbone hanno raggiunto livelli record, ridestando ovunque le spinte inflazionistiche. Difficoltà negli approvvigionamenti, linee produttive ferme o che lavorano a scartamento ridotto e numerosi Paesi occidentali, tra cui la Svizzera come ha avvertito il consigliere federale Guy Parmelin, che rischiano il blackout. Gli equilibri su cui si sono retti sinora la produzione e il commercio mondiali sono divenuti instabili.
Cambia la mappa della divisione internazionale del lavoro e per l’economia, già alle prese con la complessità della trasformazione digitale e gli ingenti costi di una transizione ecologica programmata avventatamente più sulla base delle emozioni che dei fatti, si aprono scenari inediti. Scenari che impongono ripensamenti anche nelle scelte d’investimento e di allocazione delle risorse.
Si ritorna casa?
È in questa prospettiva che il backshoring, il ritorno in patria delle attività produttive, e il nearshoring, il rientro in un Paese limitrofo, potrebbero diventare un’opzione concreta. Gli Stati Uniti fanno ad esempio capo al Messico, mentre i paesi del Vecchio Continente si rivolgono verso l’Est europeo o il Nordafrica, magari più cari dei paesi asiatici, ma appunto più vicini e quindi più “accessibili” per puntuali fasi di produzione. Tuttavia, malgrado le molte speranze riposte in evoluzioni che portino a un rimpatrio delle attività, gli studi internazionali non hanno ancora registrato numeri tali da rilevare una vera e propria tendenza verso il ritorno a casa delle imprese. Anche in Svizzera si sono avuti pochi casi di backshoring, più frequente invece quelli del rientro in Stati vicini, come Romania o Polonia, di alcune fasi produttive che erano state delocalizzate in Asia. Il caso più conosciuto è quello della Wander, che ha riportato in Svizzera la produzione dell’Ovomaltina da spalmare sul pane. Adidas ha fatto la stessa cosa in Germania per alcuni suoi modelli di scarpe, ma va detto che, in generale, in termini di posti di lavoro il “fenomeno” (se così si può chiamare) resta molto contenuto.
Se la tecnologia permette di produrre a costi che ridiventano interessanti, d’altra parte non vi è grande necessità di maggiorare la forza lavoro umana. Magari più qualificata, questo certamente, ma non dal punto di vista numerico.
Anche se va rimarcato l’effetto di creazione di posti di lavoro legato al fatto che attività nuove, seppur limitate, attirino altre aziende e si approvvigionano di attrezzature e prestazioni di servizi in loco.
Stimolare il rimpatrio?
Leggermente diversa è la situazione quando il reshoring è incoraggiato con sovvenzioni dichiarate, o più meno “nascoste”, da alcuni Stati che, con una strategia protezionistica, vorrebbero garantirsi l’autonomia e l’indipendenza per alcune produzioni. Ci ha provato negli USA, con poco successo, il presidente Trump, ci sta tentando la Francia di Macron per alcuni prodotti farmaceutici, mentre in Giappone il governo ha stanziato 2,2 miliardi di dollari per riportare in patria imprese che si erano trasferite in Cina.
Da un punto di vista elvetico, questo approccio però è considerato, poco “svizzero”. Come indicato qualche tempo fa dalla Seco, il Consiglio federale non è incline a una politica industriale aggressiva, ma si predilige la scelta di garantire condizioni generali che possano essere interessanti per tutte le aziende per “fare impresa”, per fare in modo che l’economia “se la cavi da sola”. Scelta che a corto termine può magari metterci in posizione di debolezza verso la concorrenza sempre più agguerrita di molti altri paesi, ma che probabilmente, sul lungo termine è più pagante e soprattutto va a beneficio di tutti i settori, senza distinzioni fra grandi e piccole aziende.
Elemento importante perché finora si è rilevato piuttosto un rimpatrio di piccole e medie imprese, emigrate soprattutto per ragioni di costi, mentre le grandi aziende sono più restìe a spostarsi. Avantutto per i tempi spesso molto lunghi del trasferimento di un’attività (spesso calcolato in termini di numerosi anni) e per la necessità di ammortizzare investimenti magari molto importanti in siti di produzione non abbandonabili in tempi brevi. Inoltre, le grandi aziende prediligono spesso paesi vicini a quelli che sono i mercati di destinazione dei loro prodotti.
Assicurarsi l’autosufficienza in diversi settori economici e non solo in quelli tradizionalmente ritenuti strategici, può indurre a politiche aggressive di “recupero” delle aziende. Non sono mancate negli ultimi anni misure protezionistiche che tendono anche al controllo preventivo su acquisizioni e fusioni da parte di investitori stranieri, nuovi dazi sui prodotti esteri e barriere doganali. Strategie che, inevitabilmente, irrigidiscono le dinamiche del libero mercato, generando inefficienze e costi aggiuntivi per la collettività e che riducono anche per tutte le altre imprese la possibilità di acquisire vantaggi competitivi attraverso una migliore allocazione dei fattori produttivi lungo le catene del valore globale. Ma l’esercizio è più complesso di quanti molti credono, perché il mondo e l’economia sono a tal punto interconnessi e interdipendenti che scegliere di ritornare non succede dall’oggi al domani. In realtà si apre solo un altro ciclo con la riconfigurazione delle supply chain globali e il consolidarsi delle supply network, con nuovi assetti nella divisione internazionale del lavoro e nel commercio mondiale che si rafforzerà in alcune aree regionali attraverso catene del valore che si svilupperanno anche a medio e corto raggio.
Le ragioni del reshoring
“Reshoring di Stato” a parte, sotto la pressione dell’incertezza e dell’instabilità odierne sono tante le ragioni che possono indurre un’impresa a rientrare in patria: difficoltà nell’approvvigionamento e nelle forniture, tempi di consegna troppo lunghi, vantaggio reputazionale sui mercati internazionali con un autentico “Made in…” , problemi di qualità, elevati costi logistici, ostacoli doganali, minore dispersione del know-how, più prossimità per reagire rapidamente alla domanda dei consumatori, maggiore sicurezza coi fornitori locali, produzioni che richiedono manodopera sempre più qualificata (non sempre reperibile nei Paesi dove costa meno), sensibilità ambientale, digitalizzazione che oggi permette di mantenere e rafforzare i contatti anche con i mercati più lontani, e, non da ultimo, la necessità di ridurre i rischi nel caso di nuove emergenze mondiali. Ma, come visto in precedenza, tra i fattori determinanti del reshoring ci sono soprattutto l’automazione e la robotica che aumentano la produttività e riducono il costo del lavoro, mentre laddove prima costava molto meno ora va rincarando.
Nel giro di quindici anni appena, il prezzo dei robot industriali è sceso da 70mila a 15mila dollari, dunque alla portata pure delle piccole aziende, l’automazione è ancora più sofisticata, precisa, e l’intelligenza artificiale riesce a sovrintendere i processi produttivi più complessi. Non per nulla è emersa anche la tesi di tassare i robot, discussa anche nel quadro della nostra Assemblea generale dello scorso 15 ottobre 2021 con il noto fiscalista ginevrino Xavier Oberson. Tema molto complesso dal punto di vista giuridico e pratico e che suscita numerose perplessità anche per le difficoltà che potrebbe creare nell’ambito dell’innovazione.
Ma sarebbe sbagliato ignorarlo, perché nel contesto dei profondi e rapidi cambiamenti portati dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, sarà quasi inevitabile anche affrontare gli adattamenti dei sistemi fiscali, togliendo ad esempio determinate imposte che stanno diventando obsolete o che non avranno più la stessa giustificazione. Come l’imposta sulla sostanza che la Svizzera mantiene, nonostante sia ormai poco diffusa a livello internazionale.
Chi spera nel tramonto o nella forte limitazione degli scambi internazionali non deve però farsi troppe illusioni. Il “reshoring” non significa un ripiegamento esclusivo nei confini domestici, rinunciando all’internazionalizzazione che è spesso un fattore decisivo per la crescita delle imprese e del sistema economico. Si resta competitivi se si resta nelle reti globali della produzione che permettono di acquisire le risorse migliori, le tecnologie più avanzate, gli approvvigionamenti più convenienti e di raggiungere più facilmente i mercati di riferimento. Dunque, se si vuole favorire, anche nel nostro Paese, la rilocalizzazione aziendale, senza scadere in deleterie pratiche protezionistiche, serve “rinverdire” l’approccio elvetico summenzionato, cioè la cura delle spesso menzionate condizioni quadro. Sembrano banalità, ma una fiscalità leggera, infrastrutture e formazione al passo con i tempi, regole e burocrazia meno vessatorie per la libertà economica sono elementi-chiave per potersi giocare anche la sfida di un rimpatrio di talune attività. Così come l’accoglienza di idee e persone in una buona collaborazione fra pubblico e privato e un dialogo più costruttivo tra le parti sociali sono fondamentali per ogni insediamento. Questa è la base non solo per cercare di richiamare in Svizzera talune attività, ma anche per evitare che ne partano delle altre.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.png00Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-11-02 06:25:002021-10-29 10:27:29Pronti a tornare a casa?
Questa sera l’Ambasciatrice di Svizzera in Italia, Malta e San Marino Monika Schmutz Kirgöz, assieme al consigliere d’Ambasciata Gregorio Bernasconi, capo della sezione economia e politiche settoriali, ha incontrato esponenti dell’economia cantonale presso la Camera di Commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi del Canton Ticino, nell’ambito di una visita di cortesia.
In questo contesto è stato possibile uno scambio di vedute sui principali dossier economici che riguardano le relazioni bilaterali. In particolar modo sono stati affrontati i temi dei servizi finanziari e del telelavoro dei frontalieri.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2021/10/ART21-ambasciatrice.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-10-13 18:14:192021-10-13 18:14:19La Cc-Ti incontra Monika Schmutz Kirgöz, Ambasciatrice di Svizzera in Italia, Malta e San Marino
Venerdì 15 ottobre 2021 si terrà a Bellinzona la 104esima Assemblea generale ordinaria della Cc-Ti. Tradizionale occasione per fare il punto sulla situazione economica e illustrare il lavoro svolto durante l’anno, così come i progetti futuri in ambito politico e di servizi agli associati. Sarà anche un momento di riflessione sul primo anno di presidenza di Andrea Gehri, che si è ritrovato alla testa dell’associazione mantello ticinese in un periodo particolarmente difficile per tutti, compresa ovviamente l’economia. Anche se, come preferisce sottolineare il Presidente, “la fase di maggiore incertezza per la diffusione del Coronavirus è stata precedente alla mia presidenza. Se penso alla primavera 2020 con tutto il Paese fermo per il lockdown, ebbene da allora abbiamo sicuramente imparato a convivere e contrastare meglio la propagazione del virus. L’economia svizzera e anche quella ticinese hanno retto bene, forse anche meglio di quanto ci si potesse aspettare. Questo sicuramente grazie al sistema svizzero che ha dato prova di grande efficienza e pragmatismo, con doti di ponderazione non comuni nell’affrontare quella che a tutti gli effetti si è cristallizzata in una crisi globale. Ma anche grazie alla grande flessibilità e capacità di adattamento del mondo imprenditoriale. Il connubio pubblico/privato ha dimostrato di funzionare in maniera efficace quando si lavora compatti in una sola direzione”.
Da Presidente della Cc-Ti e da imprenditore quali sono state le difficoltà maggiori che ha dovuto affrontare?
Ci sono stati e ci sono tuttora settori economici che, più di altri, hanno sofferto e soffrono ancora per determinate limitazioni e misure di prevenzione che, per quanto parziali, sono fonte di preoccupazioni. Se prendiamo, ad esempio, i comparti della ristorazione, della cultura, dello sport, dei viaggi, della metalmeccanica legata all’esportazione, ebbene queste attività risentono fortemente del clima d’incertezza generale che regna tuttora.
La pandemia ha avuto un impatto pesante sul nostro sistema produttivo, ma grazie ai piani di sostegno della Confederazione, del Cantone e alla tenacia dei nostri imprenditori non ci sono stati gli effetti catastrofici che si erano temuti in un primo momento. Pericolo scampato?
La Svizzera ha dimostrato ancora una volta di saper affrontare problemi e situazioni di gravità globale con grande tempismo, straordinaria efficacia e impareggiabile concretezza. Le misure varate da Confederazione e Cantoni, in particolare il credito COVID-19 alle imprese che ha consentito di accedere a liquidità immediata senza intralci burocratici entro 24 ore attraverso la semplice richiesta via e-mail, ha costituito una prova di efficienza senza eguali al mondo. Questa misura straordinaria, che ha permesso alle aziende di salvaguardare la liquidità e quindi la capacità di operare, unita all’indennità per lavoro ridotto che ha scongiurato il pericolo di licenziamenti di massa, sono state risposte concrete, dirette e incisive a sostegno della nostra economia. La resilienza dimostrata, poi, agli imprenditori svizzeri, figlia certamente di una cultura imprenditoriale sana, di solida tradizione e basata su nobili principi economici, per cui l’impresa risulta essere il mezzo ideale per diffondere ricchezza nel Paese, ha certamente contribuito ad evitare le conseguenze catastrofiche temute. Il pericolo di una crisi ancora più grave sembrerebbe per ora scongiurato; tuttavia, siamo interconnessi con il mondo e le ripercussioni di avvenimenti negativi di portata internazionale possono rendere fragili e ulteriormente incerte le attuali previsioni.
Rincari delle materie prime e gravi scompensi nelle catene di approvvigionamento, la ripresa stenta a stabilizzarsi. Come vede la situazione nel medio e lungo periodo?
Si tratta di conseguenze dirette della diffusione del Coronavirus a livello planetario che hanno colpito duramente realtà strategiche essenziali per la distribuzione, la lavorazione e il trasporto delle materie prime nel mondo. Durante la prima e seconda ondata pandemica i colossi e le multinazionali che distribuiscono le principali materie prime hanno ridotto enormemente le loro capacità produttive e distributive, causando l’effetto ‘collo di bottiglia’ che viviamo tuttora. L’economia, soprattutto in Cina, Asia e USA è ripartita vigorosamente, accaparrandosi, prima di altri Paesi, tutte le risorse rimaste sul mercato, causando di conseguenza una penuria di materiali mai vissuta prima d’ora, oltre a rincari senza precedenti. Stiamo, quindi, soffrendo enormemente, in particolare in Europa dove l’approvvigionamento di materie prime risulta tuttora molto difficoltoso e con costi alle stelle. In proiezione futura si spera in un graduale ritorno alla normalità che, comunque, sarà diversa da quella precedente e che, secondo gli esperti, non interverrà prima del secondo semestre 2022. I rincari di alcune materie rimarranno e contribuiranno verosimilmente ad accentuare la spirale inflazionistica.
Sia nel recente studio di UBS sulla competitività che in quello del Credit Suisse sulla qualità della localizzazione, il Ticino si è ritrovato quasi in fondo alle rispettive classifiche. Questa retrocessione è riconducibile a dei deficit infrastrutturali (fiscalità, collegamenti, formazione, invecchiamento della popolazione) oppure ad un indebolimento dell’economia cantonale?
Per poter essere classificati come Cantone virtuoso in materia di competitività e, aggiungo, di attrattività verso potenziali investitori e aziende da attirare sul nostro territorio, necessitiamo decisamente di un’inversione di pensiero e di approccio verso l’economia in generale. È innegabile che la fiscalità poco allettante del nostro Cantone costituisca una penalizzazione notevole che non favorisce la localizzazione sul territorio di realtà imprenditoriali di rilievo. Non solo, ma pure a livello di infrastrutture, di trasporti e di transito abbiamo deficit che concorrono in modo determinante a scoraggiare un’eventuale localizzazione in Ticino. L’istruzione e la possibilità di reperire sul territorio profili professionali funzionali all’economia è un altro criterio fondamentale di scelta che ogni imprenditore analizza accuratamente. Abbiamo sicuramente la necessità di finalizzare una formazione più aderente alle realtà economiche locali, ma soprattutto verso quelle nuove professioni che si stanno affacciando sulla scena produttiva. Penso, in particolare, alle professioni legate all’accresciuta necessità di digitalizzazione, con cui saremo confrontati tutti nel prossimo futuro, a discipline legate alle nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale e alla biotecnologia. Dobbiamo saper cogliere le mutazioni e le tendenze economiche attuali, e tradurle in opportunità per le future generazioni.
Le nostre imprese sono in grado di sostenere questa svolta? E il sistema politico, in generale, è consapevole delle radicali trasformazioni a cui stiamo andando incontro?
Abbiamo compreso l’importanza di doverci confrontare con le nuove tecnologie e all’avanzata poderosa della digitalizzazione anche nella vita quotidiana. La concorrenzialità delle nostre imprese sarà messa alla prova e misurata attraverso la capacità di adattamento e di implementazione di tutta una serie di misure orientate su un indirizzo più tecnologico e digitale, indipendentemente dal ramo d’attività. Dal sistema politico ci attendiamo che supporti questi cambiamenti strutturali col sostegno diretto degli incentivi all’innovazione, e che funga da esempio adottando analoghi principi anche dell’amministrazione pubblica.
Il piano di rilancio post-pandemico è una delle priorità nell’agenda politica ticinese, ma il dibattito tra i partiti si è già riavvitato sull’eterno dilemma tra fiscalità e socialità. Pensa che si riuscirà a trovare un punto di equilibrio? Cosa bisogna fare per garantire al Cantone una crescita stabile e duratura?
Il pericolo che la pandemia possa costituire la scusa per rimandare alle calende greche la riforma fiscale in Ticino è reale e mi spaventa. Sarebbe un autogol clamoroso che renderebbe il nostro tessuto economico ancora più vulnerabile e che allontanerebbe ulteriormente determinati attori della nostra economia, interessati o già presenti nel nostro Paese, verso localizzazioni più attrattive. Dovremo finalmente riuscire a far comprendere che per poter difendere la socialità e favorire la distribuzione della ricchezza dobbiamo saperla creare prima di tutto. Penalizzare il tessuto economico con politiche di aggravi e, come in questo caso, rimandare una riforma fiscale determinante per favorire la crescita economica, rappresenterebbe un passo nella direzione opposta a quella auspicata. La crescita del Cantone passerà attraverso politiche fiscali attrattive, investimenti mirati nelle infrastrutture per migliorare percorrenze e spostamenti, attraverso una formazione e un’istruzione di prim’ordine aderenti alla realtà, incentivando politiche di trasformazione ecologiche nell’ambito delle costruzioni e in tutti quei settori che saranno confrontati con mutati criteri di sostenibilità.
Un bilancio e un auspicio in qualità di Presidente della Cc-Ti?
Semplicemente un’esperienza straordinaria che mi ha permesso di conoscere il Ticino imprenditoriale nei suoi molteplici contesti e attività diversificate. Persone che lottano per costruire, non senza fatica, ogni giorno il futuro di questo Cantone. Proprio questa diversificazione e la presenza di assolute eccellenze sul nostro territorio costituiscono quella ricchezza del Cantone che dobbiamo assolutamente valorizzare e preservare da posizioni contrarie e di ostacolo per una crescita armoniosa delle nostre imprese. La mia lunga esperienza d’imprenditore, e uomo-artigiano, mi ha portato vicino ad ogni realtà comprendendone le dinamiche in modo, direi, “personale”. Mi considero ancora in una fase di apprendimento e perciò mantengo alta la curiosità e l’interesse nel voler conoscere di più le realtà e l’affascinate mondo economico ticinese. La speranza per il prossimo futuro è quella poter accantonare le preoccupazioni incessanti legate alla pandemia e finalmente concentrarci e occuparci di temi propositivi per favorire la crescita, l’imprenditorialità e contribuire a determinare condizioni quadro migliori per la nostra economia.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/10/ART20-andrea-gheri-orizz.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-10-12 06:18:002021-10-12 10:35:23Il primo anno di Andrea Gehri alla Presidenza della Cc-Ti
La trasformazione digitale della nostra società è ormai una realtà consolidata e presenta una quantità di vantaggi innegabile per cittadine, cittadini e per l’economia. È un fenomeno inarrestabile e che va sostenuto perché i vantaggi sono tangibili. Sarebbe però sbagliato sorvolare completamente sugli effetti generali della trasformazione digitale, non per ultimi, quelli ambientali. Non per stigmatizzare tale trasformazione, ma semplicemente per rilevare alcuni lati poco conosciuti, ma che possono e devono essere fondamentali quando la politica è chiamata a prendere talune decisioni, evitando di partire da assunti errati.
Fonte: The Shift 2018, as of Andrae & Edler, 2015
Digitale = neutrale?
La smaterializzazione dei componenti potrebbe indurre a pensare che si possano, in questo modo, contenere le conseguenze ambientali. In sostanza lo streaming dei film e i servizi di consumo di musica online (Spotify, ITunes, Tidal per citarne solo alcuni) che hanno soppiantato DVD e CD potrebbero apparire come meno invasivi, avendo eliminato o ridotto i supporti fisici. Analogamente alle mail che spesso sostituiscono le lettere cartacee, il giornale letto su supporto elettronico o azioni banali come i messaggi su Whatsapp o il prelievo di denaro al bancomat, internet stesso, ecc.
Questa “sostituzione” è, in un certo senso, invisibile ma non innocua. Intendiamoci. Non si tratta di stigmatizzare questa tendenza, né di giudicarla sulla base di slanci nostalgici, ma per poter affrontare discorsi seri, proprio anche sul tema ambientale, è necessario veicolare la propria consapevolezza sul fatto che non si tratta di attività ecologicamente “neutrali”, contrariamente a quanto taluni posso credere o affermare.
L’impatto ecologico della trasformazione digitale
Taluni forse esagerano sostenendo che la trasformazione digitale, come in atto oggi, non prevenga lo squilibrio climatico, ma anzi concorra in maniera importante a crearlo e che l’intensità energetica dell’industria digitale non è già più sostenibile.
Si tratta probabilmente di un’esasperazione, anche se va detto che il consumo di energia legato al digitale aumenta di circa il 9% all’anno (dato pre-pandemia) e che la quota di emissione di gas a effetto serra proveniente dall’ambito digitale ha conosciuto un aumento dal 2,5% al 4% del totale delle emissioni mondiali.
Dati che si pongono chiaramente sopra al tanto vituperato traffico aereo. Questo dovrebbe far riflettere prima di colpire disordinatamente i settori economici solo perché è sempre “accattivante” e semplicistico farlo.
La quota delle emissioni legata al digitale potrebbe aumentare nei prossimi anni tanto da raggiungere quella dei veicoli.
Se da una parte lo sviluppo tecnologico spesso aiuta anche a migliorare la sostenibilità dei prodotti, non sempre gli effetti sono quelli desiderati. Secondo una ricerca del Think Tank francese “The Shift Project” (il rapporto Lean ICT- Towards Digital Sobriety), ad esempio la produzione dell’IPhone 6 (ormai parliamo di preistoria) portò a generare 4 volte più gas a effetto serra rispetto alla produzione dell’IPhone 3GS, in ragione della capacità superiore di stoccaggio dei dati.
Anche un gesto apparentemente innocuo come l’invio di una mail ha conseguenze ambientali non trascurabili. Uno studio condotto recentemente in Francia dall’Agenzia dell’ambiente e di controllo dell’energia ha calcolato che ogni impiegato francese riceve in media 58 mail professionali al giorno e ne invia 33. Queste 33 mail, accompagnate da un allegato di 1 Megabyte a due destinatari, a esempio, genera emissioni equivalenti a 180 chilogrammi di CO2, quindi l’equivalente di 1’000 chilometri percorsi in auto (non elettrica, of course).
Secondo questo calcolo, le mail di un’impresa di 100 persone porterebbero quindi all’emissione annuale di 18 tonnellate di gas a effetto serra, quindi l’equivalente di 18 voli andata e ritorno Parigi-New York.
Forse qualcuno ricorderà anche che lo scorso anno Netflix abbassò in maniera considerevole la risoluzione del suo streaming in particolare durante il primo lockdown nella primavera del 2020. Perché? Semplicemente perché lo streaming di video già in condizioni “normali” portava alla produzione di 300 milioni di tonnellate di CO2, quanto prodotto da una nazione come la Spagna, cioè l’1% delle emissioni mondiali. In sostanza, 30 minuti di video in streaming “pesano” dai 28 ai 57 grammi di emissioni di CO2 e corrispondono a una percorrenza di un tragitto in automobile fra 1 e 8 chilometri. L’esplosione dello streaming illimitato quando le persone sono state rinchiuse in casa avrebbe portato, da una parte, all’intasamento delle linee, difficoltà di approvvigionamento energetico e ovviamente, last but not least, a una crescita esponenziale delle emissioni.
10 ore di film in alta definizione contengono tanti dati come oltre due milioni di articoli in inglese di Wikipedia. I video pornografici rappresentano circa il 30% del traffico di video mondiale e nel 2018 hanno generato più di 80 milioni di tonnellate di CO2.
Le emissioni di gas a effetto serra dei servizi di streaming video (Netflix, Amazon prime, ecc.) equivalgono alle emissioni di gas effetto serra del Cile. Un’ora di streaming alla settimana, in un anno, consuma circa come due frigoriferi nello stesso arco di tempo.
Va detto che alcuni studi relativizzano questo impatto, riconducendolo non tanto alla produzione e alla diffusione dei video, quanto all’utilizzo di terminali magari non utilizzati nella maniera più performante oppure con una tecnologia inadatta. Detto altrimenti, i dati cambiano se si guardano video su uno schermo a 65 pollici oppure sul telefono cellulare. In effetti, il consumo dei prodotti digitali, come tutte le attività umane, va valutato tenendo conto di tutti gli elementi della “catena”. Resta il fatto che le attività digitali hanno un impatto.
Per una telefonata di un minuto o l’invio di un sms si calcola che vi sia un’emissione di CO2 di 0.014 grammi, mentre un Tweet “pesa” 0,2 grammi. Più pesanti sono gli invii di messaggi via chat, che possono variare da 3 a 50 grammi, così come una mail che, a dipendenza della dimensione degli allegati, può portare a emissioni di CO2 dai 4 ai 50 grammi. Per un utente di Facebook si calcola che in media vi sia un’emissione di 299 grammi sull’arco di un anno. Sembra poco rispetto ai circa 95-120 grammi di CO2 al chilometro prodotti in media da un’automobile, ma sommando tutti i consumi di queste attività digitali, i valori sono rilevanti.
In un contesto del genere, è abbastanza facilmente comprensibile che il telelavoro, ad esempio, toglie molti spostamenti ma al contempo apre nuovi fronti su cui riflettere e non può essere certo considerato come soluzione ideale sotto tutti gli aspetti. Basti pensare che una videoconferenza di un’ora può generare fra i 150 e i 1000 grammi di CO2.
Come si spiega il fenomeno?
Di per sé la spiegazione è abbastanza banale. Per scambiare queste enormi quantità di dati, che siano video, musica, messaggi, ecc., attraverso computer, telefonini e altro, utilizzando il cavo, la fibra ottica, le antenne di telefonia mobile è necessaria una grande quantità di elettricità, che per essere prodotta richiede un forte consumo di risorse che porta a una considerevole emissione di CO2.
Oltre al consumo va tenuto conto che lo stoccaggio dei dati è molto complesso e inevitabilmente energivoro, anche e soprattutto per le necessità di raffreddamento delle strutture. I circa 4’000 centri di appoggio presenti nel mondo necessitano di circa 30 miliardi di Watt per funzionare, ciò che rappresenta circa il 4% del consumo energetico mondiale e relative emissioni di CO2.
In generale, le cifre riguardanti l’impatto ambientale del digitale sono spesso basate su stime ed è abbastanza difficile avere dati molto precisi. Ma tutti gli studi sembrano convergere sostanzialmente nella stessa direzione, grammo di CO2 in più o in meno.
Come rimediare?
Come detto in precedenza, non si tratta di stigmatizzare la trasformazione digitale, anzi. È ormai un elemento essenziale e imprescindibile della nostra vita quotidiana e professionale. È piuttosto importante sviluppare una consapevolezza per prendere le decisioni giuste anche in ambito energetico o ambientale, senza false credenze. Prima di rinunciare a fonti di approvvigionamento apparentemente poco ecologiche è giusto sapere di cosa si parla e quali siano le reali necessità energetiche del sistema odierno. In questo senso, il ricorso a energie rinnovabili sembra insufficiente per coprire un bisogno sempre maggiore di energia in tempi molto brevi. La produzione di energia non è uno scherzo e, purtroppo, difficilmente qualche pala eolica basterà per ricaricare miliardi di telefoni cellulari (a oggi circa 6 miliardi).
L’evoluzione tecnologica in questo senso potrà aiutare, anche se abbiamo visto che talvolta non è priva di altri problemi. Soluzioni innovative come il raffreddamento dei centri di raccolta dei dati con l’acqua di un lago, come già conosciamo in Ticino, aiutano certamente. Ma è ovvio che si tratta di un problema complesso che coinvolge in primis i comportamenti individuali, il sistema economico, quello politico, ecc. e che richiede un sano pragmatismo. Come al solito non si risolve nulla forzando le situazioni con presunte soluzioni facili, divieti o tasse supplementari.
Una certa “dieta digitale” può dare una mano, con piccoli accorgimenti. Ad esempio, la rinuncia alla massima risoluzione dei video guardando una partita di calcio potrebbe portare a non distinguere esattamente tutti i fili dell’erba, ma rimarrebbe sufficiente per godersi lo spettacolo. È solo un piccolo esempio banale di un problema tutt’altro che banale. La consapevolezza di tutti eviterebbe inutili e dannose crociate soprattutto, come sempre, contro i settori dell’economia.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2021/09/ART21-energia.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-09-21 06:31:002021-09-20 10:31:33Energia… tra sapere e conoscere
Negli scorsi giorni l’Ufficio presidenziale della Cc-Ti, che raggruppa le maggiori associazioni di categoria, ha avuto l’onore di ospitare il Consigliere di Stato e Direttore del Dipartimento finanze ed economia Christian Vitta. L’incontro si è svolto nel quadro di regolari appuntamenti di aggiornamento, essenziali per il monitoraggio coordinato dell’andamento economico e il confronto sulle misure disposte dalle autorità cantonali, in particolare durante il periodo pandemico.
L’Ufficio presidenziale ha preso atto con soddisfazione dei più recenti dati economici del Cantone presentati dal Consigliere di Stato. Il segno positivo di tali dati testimonia dell’efficacia delle misure introdotte dalle autorità federali, cantonali e comunali e della forte capacità di adattamento dell’economia cantonale. Ancora una volta, la diversificazione del tessuto economico ticinese si è rivelata un elemento decisivo per garantire la solidità del sistema.
L’associazione-mantello dell’economia ticinese ha ribadito al Consigliere di Stato la volontà di continuare sulla via di una collaborazione costruttiva, come dimostrato anche nei momenti più difficili della pandemia. È stata ribadita la necessità di mettere in atto in maniera completa la riforma fiscale delle imprese già approvata dal Parlamento e dal popolo e di continuare a puntare sul sostegno all’innovazione in tutti i settori dell’economia cantonale, utilizzando al meglio gli strumenti già a disposizione. L’innovazione, immanente all’attività degli imprenditori, rappresenta un elemento centrale per mantenere la competitività delle aziende e quindi garantire i posti di lavoro, per cui la collaborazione fra Stato ed economia, ognuno nel suo ruolo, è di importanza fondamentale.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2021/03/EVT21-comunicati.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-09-08 10:06:542021-09-08 10:06:54L’associazione-mantello dell’economia ticinese incontra il Consigliere di Stato Christian Vitta
Populisticamente nobile nelle intenzioni: “Sgravare i salari, tassare equamente il capitale”, devastante, però, nei suoi effetti.
L’“Iniziativa 99%” di Gioventù socialista, su cui si voterà il 26 settembre, si configura come un esproprio proletario su scala nazionale. Che non toccherebbe soltanto quell’1% dei cosiddetti “super ricchi” (di cui peraltro il Paese non può fare a meno, poiché pagando da soli quasi un quarto del totale delle imposte sul reddito, assicurano alla Confederazione ingenti entrate fiscale), ripercuotendosi, invece, con gravi danni su tutta l’economia e la società.
Tassare al 150%, anziché al normale 100%, i redditi da capitale al di sopra una certa soglia – genericamente indicata dagli iniziativisti a 100mila franchi – aggiungendo in pratica un reddito fittizio a quello reale, significa sovvertire i principi costituzionali del sistema fiscale. Con una sovratassazione che colpisce direttamente le piccole e medie imprese, in particolare le aziende familiari, le start-up, i proprietari di case, gli agricoltori e persino i piccoli investitori.
Se per le PMI la sovraimposizione del 150% si tradurrebbe in un indebolimento del loro capitale e, quindi, della loro capacità d’investimento e d’innovazione, per le aziende familiari ci sarebbe un costo aggiuntivo molto oneroso che, oltre a privarle d’importanti risorse, renderebbe ancora più difficile e costosa la successione aziendale. Dovendo pagare le imposte anche su un aumento di valore fittizio, la successione costerà infatti di più e chi vorrà subentrare nella proprietà sarà probabilmente costretto ad indebitarsi.
Nel nostro Paese l’80% delle imprese è a conduzione famigliare e ogni anno si registrano 3’400 successioni aziendali, invece di facilitare questo delicato passaggio, l’iniziativa lo rende più complicato e caro. Analoghe le difficoltà per la successione delle aziende agricole ai giovani contadini. Che si voglia vendere un’impresa o una fattoria, con la nuova tassazione il prezzo aumenterà notevolmente, scoraggiandone così l’acquisto o gravandolo di debiti che potrebbero poi portare al fallimento.
Più problematico anche il futuro della start-up. Generalmente i loro fondatori per mancanza di liquidità si accontentano all’inizio di stipendi modesti e, nella maggior parte dei casi, vedono ricompensato questo sacrificio nel momento in cui vendono le loro azioni o i diritti di partecipazione ad un’impresa più grande. Vendita che però verrebbe pesantemente tassata qualora venisse approvata l’iniziativa socialista. Il che vuol dire disincentivare la creazione di start-up e castrare nuovi impulsi all’innovazione. Anche gli investitori privati, fondamentali per l’avvio di una start-up, sarebbero sottoposti ad un maggiore carico fiscale che potrebbe dissuaderli dall’investimento.
Neppure chi vende una casa sarebbe risparmiato dall’iniziativa “99%” che di fatto introduce una imposta federale sugli utili immobiliari che va ad aggiungersi a quella cantonale.
Stessa sorte per i piccoli risparmiatori, ossia gran parte della popolazione, che investono in Borsa. Qualora ricavassero degli utili sul capitale, oggi esentasse, domani potrebbero essere tassati, mentre se, a causa della riconosciuta volatilità della borsa l’anno successivo dovessero contrarre perdite sul medesimo capitale, si ritroverebbero con una doppia beffa. Tassati e perdenti!
Ci sono, dunque, mille ragioni per bocciare un’iniziativa che penalizza l’economia, i piccoli imprenditori e il ceto medio. Un “unicum svizzero” che terrebbe lontani dal nostro Paese imprese estere e facoltosi contribuenti stranieri. Col rischio di vedere anche andare via molti quelli che avevano già scelto di vivere e lavorare in Svizzera.
https://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/10/ART20-andrea-gheri-orizz.jpg8531280Lisa Pantinihttps://www.cc-ti.ch/site/wp-content/uploads/2020/05/LG-cc-ti-03.pngLisa Pantini2021-09-06 15:56:562021-09-06 15:56:57L’Iniziativa socialista del “99%” sarà un boomerang per l’economia e il ceto medio
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