Il protezionismo è una minaccia per la nostra economia
Questo primo scorcio del nuovo Secolo sarà ricordato dagli storici dell’economia come il ventennio del grande paradosso. In un mondo sempre più interconnesso grazie alle grandi reti infrastrutturali che facilitano la produzione di merci e la circolazione di persone, capitali, idee, innovazioni, dati, materie prime e informazioni, i Governi di molti Paesi tendono, invece, a chiudere e proteggere la loro economia, limitando il libero scambio. Solo negli Stati del G20, secondo i dati del Global Trade Allert, dal 2008 al 2016, sono state introdotte oltre 3’500 misure che limitano gli scambi commerciali, che stanno, perciò, registrando una brusca frenata. Dopo 5 anni di crescita, nel 2015 le esportazioni globali sono diminuite del 13,6%.
Ormai è di moda inveire contro la globalizzazione e il libero mercato, ma si dimentica che nell’ultimo mezzo secolo lo sviluppo del commercio internazionale ha strappato centinaia di milioni di persone dalla miseria più nera. Nella sola Cina ben 700 milioni di abitanti si sono lasciati alle spalle la povertà. Ex poveri che cominciano a consumare merci prodotte anche nei Paesi ricchi. Nel 1998 in tutto il pianeta si contavano 2 miliardi di persone sotto la soglia d’indigenza, oggi sono 767 milioni (dati Banca mondiale). Certo, la globalizzazione ha provocato nei singoli Paesi squilibri sociali che richiedono correttivi e aggiustamenti, ma sono sotto gli occhi di tutti gli immensi progressi fatti nelle condizioni di vita e di salute, nell’accessibilità a beni e consumi prima impossibili e nelle libertà di scelta di ognuno di noi.
Nell’epoca del grande paradosso capita persino di vedere il leader di un Paese comunista, il cinese Xi Jinping, che dalla tribuna del WEF difende la globalizzazione e il libero commercio, mentre Donald Trump, neo Presidente USA, la più grande democrazia liberale del mondo, si profila come l’alfiere del neo protezionismo. Il suo “America First” è un concentrato di nazionalismo che molti politici europei hanno eletto a loro modello. E qui il gioco si fa pericoloso. Anche per la Svizzera, la cui forza economica è trainata dalle esportazioni favorite dalla libertà di commercio. Se nei suoi furori protezionistici Trump dovesse davvero applicare quella tassa del 20% sulle importazioni, già ipotizzata per la Germania, anche per il nostro Paese sarebbero guai seri, poiché la catena di creazione del valore delle imprese svizzere si basa essenzialmente sugli scambi internazionali. Oggi la Svizzera esporta negli USA beni per 17 miliardi di franchi in più di quanto importa, sostenuta anche dagli interventi della BNS per mantenere un cambio vantaggioso. Interventi che potrebbero far storcere il naso a Trump, il quale ha, peraltro, già criticato il prezzo dei farmaci importati dalla Svizzera.
Ma il problema immediato per l’economia elvetica non è Trump, bensì l’ondata protezionista che sta montando in tutta e Europa, Svizzera compresa. Restrizioni al commercio e agli scambi, con dazi doganali e altre limitazioni, non significano solo grosse perdite per la nostra industria d’esportazione e per i consumatori che vedranno aumentare i prezzi di molti beni, ma indeboliscono tutto il tessuto produttivo. Perché è con il mercato aperto alla competizione internazionale che tutte le imprese imparano a restare competitive, invece di vivacchiare grazie a barriere protezionistiche e aiuti statali. È dall’apertura dei mercati, e non dalla loro chiusura, che nasce la spinta ad innovare processi e prodotti per conquistare altri spazi di business, a creare nuove imprese. Se il protezionismo può sembrare un vantaggio a breve termine, alla lunga si rivela un veleno per tutta la società. Come hanno dimostrato le disastrose esperienze del 1914 e degli anni Trenta.