C’è da spostare una macchina…
L’opinione di Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti
“C’è da spostare una macchina” era il titolo di una canzone-tormentone italiana di qualche decennio fa e che con la confusione che regna in Ticino riguardo all’ormai famigerata tassa di collegamento è quantomai d’attualità. Se non altro perché diventa sempre più difficile capire dove si possa spostare e parcheggiare la macchina senza incorrere negli strali dell’autorità. Lo so, lo so, l’argomento tassa di collegamento è trito e ritrito e ha stufato. Inoltre le temperature canicolari di questi periodi imporrebbero di affrontare temi più ludici per evitare il fastidioso effetto-zanzara che disturba le faticose attività stagionali come la scelta del corretto fattore di protezione delle creme solari o le riflessioni su come evitare il disagio della sabbia che si infila nei sandali. Purtroppo non posso però esimermi da qualche considerazione sul funzionamento (?) del nostro sistema politico-istituzionale ticinese, perché esso è comunque rilevante non solo per riempire i media di polemiche surreali, ma anche e soprattutto per il funzionamento di un sistema generale che comprende anche l’economia, ma che sembra essere completamente negletto nel contesto della pericolosa gara a chi le spara più grosse per avere visibilità.
Non posso pertanto prescindere dal caos legato all’introduzione della tassa di collegamento. Il popolo si è pronunciato e quindi la cosa va applicata, non si discute, fatto salvo qualche ricorso di proprietari di fondi toccati dalle nuove disposizioni legali. La cosa curiosa è che molte delle riserve giuridiche e di tipo pratico espresse più volte in sede di consultazione e poi di campagna di votazione si stanno puntualmente realizzando, a dimostrazione che la battaglia condotta contro la tassa non era ideologica o, peggio, personale, ma fondata su dubbi più che legittimi. Ha purtroppo prevalso la guerra contro i cosiddetti „borsoni“, in nome di una voglia sanzionatoria che non mi piace per nulla perché la tentazione della forca non è mai troppo lontana da queste spinte moralizzatrici. Spinte mascherate sotto strumentali atteggiamenti da moderni Robin Hood impegnati a recuperare il maltolto dai ricchi (come vengono impropriamente definiti coloro che creano ricchezza). Poco importa che la misura fosse di natura fiscale e dagli effetti più che dubbi sul traffico, anche se presentata come improbabile rimedio-miracolo contro il cancro, le malattie infantili, quelle cardiovascolari, ecc. Marketing politico perfetto, non c’è che dire. Ma tant’è, non si può né si vuole più tornare indietro, per cui queste mie considerazioni lasciano il tempo che trovano. Come già detto ripetutamente, esprimo però un forte rammarico sul metodo scelto per imporre una misura finanziaria atta a sostenere le casse cantonali. Che ci vogliano correttivi nell’ambito della mobilità è fuori di dubbio e non ho mai avuto paura di affermare che anche le aziende devono avere un ruolo importante in questo senso. Mi permetto di sottolineare l’“anche“, perché non mi risulta che chi non vive quotidianamente il mondo aziendale privato si sposti in astronave e non intasi le strade. La mia posizione risp. quella della Cc-Ti è del resto facilmente verificabile, recuperando sul nostro sito internet gli atti della giornata dedicata alla mobilità lo scorso 15 aprile. Altri cantoni hanno scelto la concertazione, in Ticino si è optato per la fretta e l’imposizione. Convengo che troppo tavoli di discussione frenano a volte la ricerca di soluzioni e la presa di decisioni, ma anche procedere a colpi di mazza tanto per statuire qualche esempio non mi sembra una mossa molto lungimirante. Il tradizionale equilibrio elvetico, che ha fatto le nostre fortune, viene così cancellato come se nulla fosse. E, in generale, si fa sempre più largo l’approccio secondo cui ci possono pensare i tribunali a correggere eventuali cose illegali. Posso concordare su questo punto quando vi sono situazioni dubbie, non quando si sceglie di far approvare al popolo cose scientemente illegali (e negli ultimi anni gli esempi non sono mancati), così tanto per divertirsi e farla pagare a qualcuno. Sono metodi che conosciamo anche da paesi vicini ma che sono (erano?) estranei alla nostra cultura politica. Constatazione assai amara, resa ancora più amara dalle improvvise manifestazioni di malcontento o di allarme di attori (v. ad es. i comuni), misteriosamente scomparsi durante la campagna di votazione e ora in preda a preoccupazioni di budget. Ma dove erano finiti? Su cosa diavolo pensavano che si votasse? Mistero.
Il caso JobContact
Un altro esempio di evoluzione per me negativa di taluni usi e costumi è la crescente tentazione di ricorrere in modo spettacolare alla magistratura penale per denunciare presunte violazioni di regole del mercato del lavoro in particolare, bypassando le dinamiche del partenariato sociale o dei gremi già esistenti e preposti ad intervenire (autorità amministrative cantonali, commissioni paritetiche e commissione tripartita, tanto per citarne qualcuno). Evidentemente il richiamo al diritto penale ha una connotazione prurigonosa, anche qui di gogna (v. sopra), che fa gola in termini di visibilità. Non a caso mi riferisco alla vicenda che ha coinvolto l’agenzia di collocamento JobContact, denunciata in pompa magna e con grande eco mediatico (mancava forse solo la CNN in collegamento via satellite) per vari reati, fra cui appropriazione indebita, truffa, usura, coazione, falsità in documenti e infrazione alla legge federale sulla previdenza professionale. Roba da delinquenti incalliti. Peccato che lo scorso 15 giugno la Procura pubblica abbia abbandonato ogni accusa a carico dell’azienda perché le indagini non hanno indicato alcuna violazione. Per carità, capita di sbagliarsi e che le denunce sfocino in un nulla di fatto. Impressiona però che dopo il martellamento mediatico riservato all’atto accusatorio, non vi sia praticamente stato alcun riscontro pubblico al decreto di abbandono delle accuse. Un caso? Non credo, purtroppo. E’ spettacolare accusare le aziende, molto meno dire che non sono colpevoli di niente. Fa specie che da parte degli accusatori non vi sia stato un minimo atto di riconoscimento di avere toppato. Non è che occorra inginocchiarsi sui ceci, ma anche ammettere che si è sbagliato e che forse non è sempre bello sparare nel mucchio per creare ulteriori tensioni non sarebbe stato vergognoso. Si dice sempre che le aziende devono scusarsi quando fanno qualcosa di sbagliato. Giusto. Ma questo non vale anche per gli altri? Non sono un adepto delle teorie dei complotti, ma non posso esimermi dal rilevare che un’analisi un po’ più attenta del dossier (o presunto tale) dell’azienda citata avrebbe dovuto indurre a maggiore prudenza prima di tirare in ballo l’autorità penale. Ho quindi il legittimo sospetto che anche in questi casi non si vada tanto per il sottile, la bava alla bocca e le cannonate prevalgono talvolta sulla ragionevolezza o sulla ricerca di soluzioni concertate. Le quali sono certo meno spettacolari ma spesso più efficaci, a condizione che si vogliano veramente risolvere i problemi e non solo cercare facili consensi. Su questo tutti dovrebbero riflettere, nell’interesse del già citato sistema ticinese e svizzero che andrebbe salvaguardato come fattore di competitività essenziale. Anche se mi rendo conto che chi ha fatto del pessimismo un programma d’azione, che paga bene in termini di popolarità, se ne infischia bellamente dei delicati equilibri che tengono in piedi un sistema-paese. A differenza dei Lego le mattonelle non possono essere spostate a piacimento secondo gli umori giornalieri, senza creare pericolosi squilibri e incertezze.
La revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio
Concludo con un altro esempio emblematico della pericolosa miopia della politica odierna che rincorre il consenso facile e immediato piuttosto che le visioni a lungo termine. Nel 2013 il popolo svizzero ha accettato la revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio, osteggiata solo dal mondo economico contro i partiti, i comuni, i cantoni e la Confederazione. I nostri timori riguardavano norme troppo rigide, un sistema pesantemente burocratico, costi elevatissimi per l’ente pubblico, eccessiva limitazione della struttura federalista e, last but not least, limitazioni inaccettabili della proprietà privata (v. https://issuu.com/cc-ti/docs/tb01_2013). Legge approvata a furor di popolo in nome di principi su cui non si può non essere d’accordo, su tutti il migliore utilizzo e sviluppo del territorio. Benissimo, la politica ha prevalso sui biechi interessi economici. Cosa capita oggi? In modo stucchevole, comuni e cantoni che avevano sostenuto la revisione a spada tratta si rivolgono piagnucolando a Berna per implorare eccezioni che permettano la realizzazione di spazi industriali per non perdere aziende decisive in termini di gettito fiscale o per perorare la causa di privati di fatto espropriati da regole assurde e costose per lo Stato, in barba alla garanzia costituzionale del diritto alla proprietà privata. Che dire? Quale credibilità possono avere autorità che impongono una legge salvo pentirsi pochissimo tempo dopo perché si rendono conto che essa non è applicabile o che comunque le sue conseguenze sono ben diverse dagli scopi ricercati? La certezza del diritto che siamo soliti decantare come una delle nostre maggiori qualità è ancora un principio in cui crediamo oppure sta diventando un “optional” simpatico ma anche un po’ fastidioso? Come il segnale sonoro che in automobile ti ricorda di allacciare la cintura. Utile, ma al contempo un po’ snervante. E’ un’altra domanda a cui saremo chiamati a rispondere presto o tardi. Perché il successo non è né eterno né scontato e ci si può anche divertire a rimettere in questione tutto e il contrario di tutto, finché c’è la ricchezza. Ma quando si annunciano cambiamenti anche epocali l’ora del gioco, degli scherzi e delle ripicche finisce inesorabilmente e occorre tornare seri, perché è opportuno ricordare che l’incertezza è il peggiore nemico dell’economia liberale e quindi anche del benessere generale. A meno che non si voglia ipotizzare solo un’economia pianificata, confidando nei poteri taumaturgici dello Stato. Sarebbe una scelta disastrosa, ma se tale fosse l’intenzione, sarebbe molto più onesto dirlo chiaramente invece di nascondersi dietro finte preoccupazioni di cura dell’interesse generale. Se però si continua a considerare, per meri interessi di parte, l’economia come un conglomerato di incorreggibili delinquenti, i margini per dei progetti concertati ad ampio respiro sono decisamente pochi. Non finirò mai di ripeterlo: giusto punire le imprese che sbagliano, sbagliato criminalizzarle tutte in una sorta di accusa collettiva che fa tanto trendy. Perché anche i politici, i giornalisti, i funzionari, i lavoratori ecc. sbagliano. Ma stranamente si parla raramente di inasprimenti generalizzati delle regole che ne riguardano il comportamento. Mah, forse è solo un caso. Buona estate a tutte e tutti.