Innovazione? Sì, ma …
L’opinione di Luca Albertoni, Direttore Cc-Ti
L’articolo dedicato il 13.03.2016 dal Giornale del Popolo alla legge per l’innovazione ha messo in evidenza alcuni aspetti positivi e altri critici della revisione di una legge che si vuole giustamente non più premiante ma incentivante. Scopo lodevole e condivisibile, così come è positivo il fatto che il tema dell’innovazione sia inserito in un discorso più ampio di sistema e che gli aiuti possano essere conferiti anche al settore terziario.
Con grande equilibrio il collega Stefano Modenini, direttore dell’Associazione industrie ticinesi, ha giustamente rilevato questi e altri elementi positivi, anche di carattere tecnico. Egli ha però giustamente sottolineato diversi punti critici che evidenziano ancora una volta come ormai sempre più spesso vi sia la tendenza a legiferare senza conoscere la realtà economica che si vuole regolamentare (o, secondo le tendenze odierne, moralizzare). Intendiamoci: laddove lo Stato elargisce contributi è assolutamente sacrosanto che vi sia un controllo anche rigoroso di come vengono spesi i soldi dei contribuenti. Su questo non ci piove e nemmeno l’ambito dell’innovazione può fare eccezione. Come sempre però è questione di misura e purtroppo è molto facile passare dalle legittime preoccupazioni per il denaro pubblico a regole eccessivamente restrittive e avulse dal contesto. In particolare, prevedere regole assai rigide sulla proporzione di manodopera indigena impiegata per poter avere accesso a sostegni per l’innovazione dimostra una scarsa conoscenza del nostro tessuto economico. Certo, appena si utilizza il termine “frontaliere” si scatenano subito i vari allarmi degni di un riflesso pavloviano che portano a considerare automaticamente fuori legge qualsiasi azienda che non lavori con personale al 100% svizzero o residente. Auspicio assolutamente impossibile per la nostra economia e il settore industriale in particolare. E qui non si parla di ladri o delinquenti vari che, secondo il volgo ormai diffuso ad ampio raggio, sfruttano e devastano il territorio. Il discorso vale per fior di aziende che rispettano tutte le regole esistenti, che pagano le imposte, versano salari corretti e, per usare un altro termine assai alla moda, sono “ad alto valore aggiunto”. Non è quindi un caso che, già durante la procedura di consultazione, mi ero permesso di attirare l’attenzione sul fatto che, volendo mantenere una legge per l’innovazione, il criterio dell’innovazione avrebbe dovuto rimanere al centro della valutazione perché preponderante nell’ottica del sostegno a chi soddisfa requisiti tecnici per far crescere il territorio. Togliere importanza a tale elemento per subordinarlo ad altri di natura prettamente politica non ha senso e, come ha rilevato il collega Stefano Modenini, si rischia di avere una legge che potrebbe servire a pochi o addirittura a nessuno. Questo solo perché non si vuole fare lo sforzo di capire quale sia la vera realtà economica ticinese e ci si trincera dietro frasi fatte e slogan elettorali di massima resa elettorale ma di minima efficacia economica. Peccato, si tratta di un’occasione persa per valorizzare uno strumento di per sé molto utile e pensato bene. La speranza è che magari a livello di prassi si possano un po’ ammorbidire talune valutazioni, non certo per premiare chi non lo merita ma per dare sostegno a chi può far evolvere il nostro cantone. Ho sempre sostenuto in prima persona e in prima fila la lotta agli abusi e sono assolutamente disponibile a combattere ogni forma di spreco di denaro pubblico che potrebbe andare ad aziende non rispettose delle regole esistenti. Non mi piacciono però le generalizzazioni che danneggiano indistintamente tutte le imprese, colpevolizzate per il solo fatto di non avere un effettivo sufficientemente svizzero o residente. E’ un criterio che può e deve essere valutato, ma che non può essere la sola e unica discriminante, altrimenti non è più una legge per l’innovazione.