Supply chain tra collaborazioni esistenti e diversificazione
Già prima della pandemia, le guerre commerciali in atto stavano mostrando i limiti delle filiere impostate sull’utilizzo di materie prime e semilavorati provenienti esclusivamente da alcuni Paesi, la Cina in particolare, e si iniziavano a intravvedere spostamenti di produzioni a basso costo.
Le interruzioni delle forniture causate dall’emergenza Covid e la ricerca simultanea di soluzioni alternative da parte di tutte le aziende hanno poi generato sui mercati turbolenze che non si vedevano da decenni, mettendo ulteriormente in risalto non solo la grande fragilità delle supply chain ma anche le debolezze del modello just in time (metodo Toyota), volto all’abbattimento dei costi di stoccaggio e alla riduzione del rischio di obsolescenza dei prodotti.
Oggi le supply chain stanno guardando sempre più oltre la Cina. Si parla di tendenze al reshoring e nearshoring: la prima soluzione potrebbe funzionare per i prodotti con un processo di produzione altamente automatizzato, mentre la seconda può portare a tempi di consegna più brevi e a costi di distribuzione inferiori rispetto alle spedizioni dall’Asia.
Vi sono però anche altre opzioni, forse più realistiche: quella del mantenimento dei fornitori attuali rivalutandone la collaborazione e, al suo opposto, quella della diversificazione dei fornitori, postando alcune linee di prodotti dalla Cina verso altri Paesi asiatici. Nel primo caso, per una migliore gestione dell’approvvigionamento, può essere vantaggioso stringere relazioni più strette con i propri fornitori, rivedendo i termini della cooperazione, rinegoziando i minimi oppure valutando forme più costruttive di cooperazione, favorendo ad esempio l’innovazione e collaborando allo sviluppo di nuovi prodotti. Tutto ciò richiede un cambiamento di mentalità, stabilire delle priorità, ma soprattutto approfondire la conoscenza reciproca nonché migliorare e incrementare la comunicazione. In sostanza adottare un nuovo modus operandi.
Nel secondo caso, complici sia la guerra commerciale con gli Stati Uniti, sia il piano “Made in China 2025”, ovvero le ambizioni e gli investimenti della “fabbrica del mondo” per diventare una potenza hi-tech, molte aziende stanno affrontando le sfide legate alla disponibilità di materie prime e alla logistica adottando l’approccio “China+1” di diversificazione della loro filiera produttiva istituendo ad esempio canali paralleli in altre azioni asiatiche. Se si pensa che entro il 2030 due terzi della classe media mondiale sarà basata in Asia, questo da solo rimette in discussione il concetto a lungo sostenuto che il consumo avviene tipicamente in Occidente e la produzione in Oriente.
Restare in Asia con la produzione, ovvero vicino al più grande bacino di consumatori, non appare quindi del tutto fuori luogo, purché vi sia però un’adeguata diversificazione geografica dei fornitori.
Grazie a politiche a favore dello sviluppo del settore manifatturiero, incentivi fiscali per investitori esteri e investimenti in infrastrutture, diversi mercati emergenti asiatici stanno cogliendo questa finestra di opportunità e, complice anche una specializzazione settoriale che si sta venendo a creare, presentano condizioni vantaggiose per gli investitori. È il caso di Vietnam e India, ad esempio. Nel sud-est asiatico, il Vietnam è una delle destinazioni più appetibili anche per le stesse aziende cinesi e questo già prima della pandemia. Certo, in ambito infrastrutturale, il Paese è molto indietro rispetto alla Cina, ma il piano generale del Ministero dei trasporti per il 2030 relativo alle infrastrutture è ambizioso. Il Paese dispone inoltre di manodopera qualificata nei settori a maggior valore aggiunto ed è in grado di assorbire parte della produzione cinese in settori mirati, quali ad esempio l’elettronica o il tessile. Le riforme legislative attuate consentono agli stranieri di possedere proprietà e partecipazioni di maggioranza in aziende vietnamite.
Le aziende europee stanno già guardando al Paese con un occhio di riguardo, in gran parte grazie all’accordo di libero scambio entrato in vigore il 1° agosto 2020 (Svizzera/AELS sono invece ancora in fase negoziale) e alla partecipazione del Paese al Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo economicocommerciale tra i 10 Paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, firmato il 15 novembre 2020 e finalizzato a superare le barriere commerciali in un’area in cui vive un terzo della popolazione mondiale e che rappresenta, da sola, il 30% del Pil globale. Spostandoci a ovest, nel sud dell’Asia è invece l’India a rappresentare un’opportunità per molte imprese grazie alla vasta dimensione del proprio mercato domestico, un costo del lavoro contenuto e un governo Modi che ha recentemente aperto la possibilità di investimenti diretti esteri al 100% in molti settori e che punta sullo sviluppo infrastrutturale.
Anche se i servizi continuano a ricoprire un ruolo primario nell’economia indiana e l’industria manifatturiera non è ancora riuscita ad esprimere il proprio potenziale, vi sono opportunità nell’elettronica, nella chimica e nella farmaceutica. Rispetto al Vietnam, fortemente dipendente dalla Cina in questo ambito, l’India ha inoltre una forte capacità di produzione di materie prime per varie industrie. Ad oggi è difficile capire come si ridisegneranno effettivamente le supply chain.
Le aziende attive a livello internazionale potrebbero però essere chiamate a compiere una scelta tra rafforzare le collaborazioni esistenti e diversificare.