Non ingabbiamo l’economia
Qualche tempo fa è stato presentato un atto parlamentare a livello federale che si prefigge di proteggere l’economia svizzera con controlli degli investimenti. Il Consiglio federale, lo scorso 25 agosto 2021, ha definito i parametri che potrebbero essere utili per un controllo degli investimenti esteri, confermando però la sua già nota riluttanza a introdurre regole particolari. Entro fine marzo 2022 verrà posto in consultazione un progetto. Ma perché il Consiglio federale è contrario a una regolamentazione troppo restrittiva degli investimenti esteri?
Il motivo è presto detto. Una politica aperta nei confronti degli investimenti esteri è essenziale per la nostra economia e, di riflesso, per tutta la popolazione elvetica. Ciò permette infatti l’afflusso di capitali e competenze che permettono alle aziende di rimanere competitive, creare valore e mantenere i posti di lavoro. Occorre quindi grande prudenza prima di introdurre limiti troppo restrittivi, in un quadro legislativo già abbastanza severo. L’obiettivo dei controlli deve rimanere limitato a rischi e minacce per l’ordine pubblico o la sicurezza derivanti dall’acquisizione di imprese svizzere da parte di investitori esteri e particolare attenzione va a rilevamenti di aziende da parte di enti statali o parastatali esteri, che potrebbero anche portare a distorsioni della concorrenza.
Il Consiglio federale probabilmente si muoverà nel senso di prevedere una notifica e un’autorizzazione per le acquisizioni di imprese svizzere da parte di enti statali o parastatali esteri, limitando
invece questa procedura solo ad alcuni settori in caso di acquirenti privati. La SECO sarà l’autorità designata a gestire queste procedure.
Qualche anno fa avevamo già evidenziato uno studio di Avenir-Suisse (https://bit.ly/2YJjfps), che rilevava come le imprese elvetiche non dovessero essere ulteriormente protette da acquisizioni da parte di ditte estere. Anche un chiaro approfondimento di economiesuisse fornisce elementi molto utili per capire la tematica in tutte le sue sfaccettature (https://bit.ly/3DDgOE6). È chiaro che la discussione politica verta soprattutto sulla fame di acquisizione cinese, che preoccupa non poco.
A volte anche a ragione. Un “player” dai mezzi quasi illimitati può effettivamente distorcere la concorrenza oppure accaparrarsi di aziende che sono strategiche per il Paese perché fornitrici di servizi molto particolari e non sostituibili. Pensiamo alla delicatezza della questione della sicurezza informatica e di chi fornisce servizi di questo tipo.
Non va però dimenticato che vi sono già parecchi strumenti legali utilizzabili, come il diritto di espropriazione dello Stato per ragioni di sicurezza nazionale, oppure leggi puntuali nel settore immobiliare, borsistico e della concorrenza, con il controllo delle fusioni nel contesto della legge federale sui cartelli. La Svizzera in taluni ambiti è già più restrittiva di altri Paesi europei come la Germania, la Svezia e la Gran Bretagna (malgrado la Brexit).
Inoltre, va rilevato che la stragrande maggioranza degli investimenti in Svizzera ha origine nel mondo occidentale, ossia Stati Uniti, Canada e Unione Europea, tanto che circa l’80% dei capitali esteri in Svizzera ha questa provenienza. Senza dimenticare che gli investimenti diretti esteri garantiscono quasi mezzo milione di posti di lavoro in Svizzera.
Nello stesso contesto non va dimenticato il movimento inverso degli investimenti, cioè dalla Svizzera verso l’estero, perché la Svizzera esporta non soltanto beni industriali e servizi, ma anche importanti quantità di capitali, soprattutto sotto forma di investimenti diretti. Si tratta di decine di miliardi investiti da grandi aziende ma anche da molte PMI, che complessivamente occupano quasi 2 milioni di persone all’estero, con importanti ricadute in termini di crescita delle nostre aziende site in territorio elvetico e quindi di grande beneficio per la Svizzera.
Il mondo cambia ed è giusto riflettere sull’adattamento degli strumenti legali oggi esistenti. Nello specifico sarebbe però un errore fatale adottare un regime troppo rigido che ostacolerebbe i flussi di investimenti verso la Svizzera, perché questo, nel gioco della reciprocità, frenerebbe di riflesso anche la possibilità di investimenti elvetici all’estero. Inoltre, vi è un elemento a cui occorre sempre prestare attenzione, cioè che è ormai difficile trovare aziende puramente svizzere al 100%, malgrado l’immagine, la qualità e l’affidabilità siano ancora molto di stampo nazionale.
Alcuni marchi storici come Ricola, Läderach e Victorinox rimangono saldamente in mano svizzera. Pochi sanno però che la mitica Ovomaltina è in mani britanniche, l’altrettanto mitico Toblerone appartiene a un’azienda americana, mentre la Feldschlösschen è danese e la Valser è di proprietà della Coca-Cola. Senza dimenticare un pezzo di cultura svizzera come l’Aromat che è di proprietà olandese. Eppure, il carattere elvetico non è sparito, perché chi investe in questi prodotti investe in un pacchetto, fatto di qualità riconosciuta in tutto il mondo, di un modo di lavorare preciso e affidabile, per cui non vi è alcun interesse a stravolgere queste caratteristiche.
Quindi nuove regole vanno studiate, ma sempre con il tipico pragmatismo elvetico, anche perché la complessità delle strutture economiche e finanziarie oggi rende sempre più difficile stabilire a tavolino in maniera esatta certe situazioni di proprietà delle aziende e quindi l’esatta nazione di origine di determinati investimenti. Occorrerà come sempre equilibrio per trovare una via efficace
che tuteli gli interessi superiori senza ingabbiare inutilmente un’economia che deve giocoforza essere aperta per sopravvivere.